Vedi “Carmen” e poi Napoli
di Andrea Zepponi
18 Mag 2015 - Commenti teatro
Fano (PU). La Carmen di Mérimée e di Bizet diviene napoletana nello straordinario spettacolo di Mario Martone con la direzione musicale di Mario Tronco, che il regista ha messo in scena al Teatro della Fortuna di Fano cui ho assistito sabato 2 maggio 2015 in esclusiva regionale. Liberamente tratto dall’opera lirica, lo spettacolo musicale ha trasposto la vicenda di Carmen in ambiente napoletano attuando una contaminazione con vari elementi tratti dal musical, dalla zarzuela, dal genere popolaresco di Viviani e ovviamente dalla sceneggiata, il tutto su testo di Enzo Moscato, noto autore-performer e dello stesso Martone, che hanno rielaborato la fonte letteraria e il libretto per l’opera di Bizet degli autori Henri Meilhac, Ludovic Halévy: il risultato è stato entusiasmante perché l’operazione di trasfigurare l’esotica Carmen iberica in una partenopea “donna Carmè” è riuscita perfettamente ed ha ricreato in modo suggestivo e coinvolgente gli ambienti ben delineati dalla scenografia, i ritmi stringati e funzionali sul palcoscenico, i linguaggi accattivanti e densi di significato, le luci che valorizzavano situazioni interessanti e ben distribuite. Anche la massiccia presenza di richiami musicali all’opera di Bizet, elaborati ed adattati secondo l’arrangiamento di Mario Tronco e Leandro Piccioni, si è risolta in un inesauribile bacino di emozioni e tinte musicali dal sorprendente colore napoletano tanto da far pensare che la musica di Carmen, pervasa di spagnolismi, possa travestirsi molto bene da musica napoletana che, in un certo senso, presuppone nel suo remoto DNA toni ed accenti spagnoleschi. Tutto comunque nello spettacolo alludeva allo spirito e all’ambiente partenopeo: così il rumore del mare, presente all’inizio ed alla fine della rappresentazione che si configura come un lungo flash-back del racconto di Don Cosè (sic!) il quale, carcerato e solo, inizia a rievocare la vicenda del suo amore per Carmen; lei vaga per la scena come un fantasma, non perché sia morta: è cieca invece perché lui, Cosè, nel suo furore, non l’ha uccisa come nell’opera lirica, ma ha dato sfogo alla sua disperazione accecandola. Ora Carmen vaga con un paio di occhiali scuri per la scena e rievoca i momenti del suo dramma secondo il suo vissuto: lei, vittima della violenza maschile, scampata all’ennesimo femminicidio, afferma ancora il suo principio di libertà. Poi l’Orchestra di Piazza Vittorio irrompe con la stranota ouverture di Carmen arrangiata secondo un indiavolato ritmo swing dal vago sapore strumentale etnico tra quello Bregovic e lo yiddish; un’orchestra flessibile sia melodicamente sia ritmicamente, con strumentisti che erano anche attori in costume da elementi di banda in divisa e dialogavano musicalmente con la scena. Momenti vocali notissimi tratti dalla Carmen bizetiana come Habanera e Chanson bohème, esibivano una versione napoletana del testo francese di famose arie dell’opera di gran lunga più fascinosa e verosimile di quella italiana tradizionale con i suoi stucchevoli “il mio bel damo” e “le ciarpe al vento andar”. L’alternanza di momenti cantati usando la vocalità attoriale dei protagonisti (su tessiture abbassate rispetto a quelle dell’opera) e dagli ensemble di tutti i recitanti riproduceva l’originaria natura di Carmen, propriamente nata come opèra-comique, cioè mélange di prosa e di canto e non erano rari i momenti in cui si scatenava la danza. Imprecisata era l’ambientazione temporale, anche se, come scrive Martone, “sentiamo balenare tanto la Napoli del dopoguerra quanto quella della criminalità dei nostri giorni”. All’inizio Don Cosè, presentato solo di spalle e seduto in penombra, ora pienamente visibile, viene presentato dalla regia come un carabiniere dall’accento veneto e come un tipo precisino, piuttosto disadattato nella compagine di una caserma piena di appuntati oziosi e collusi con la delinquenza come il Tenente Zuniga. Evidentemente la regia nel passaggio dal mondo spagnolo dell’opera all’ambiente italiano non ha potuto fare a meno di riproporre alcuni stereotipi: gitani e militari là, qui Nord (Cosè) e Sud (Carmen) italiani: anzi questa lettura del personaggio può essere vista come una progressiva discesa dell’inizialmente mite e razionale Don Cosè nella dimensione istintiva e impulsiva del maschio latino che, rifiutato ed umiliato, non ha altro mezzo per affermarsi che la violenza. Credo sia inutile scomodare le categorie nitschiane che individuano nei due protagonisti la contrapposizione tra lo spirito apollineo e quello dionisiaco. L’azione procede tra intermezzi “etnici” strumentali e vocali e più ampie sezioni recitate: la scena della rissa tra operaie, quella del rapporto in caserma di Don Cosè inviato ad arrestare Carmen, la scena della seduzione, la truffaldina liberazione di Carmen, finchè sarà Lilà Bastià, il tenutario della bettola malfamata del porto a tenere le fila del racconto; la Seguidilla con banda e corteo in scena, come una festa di quartiere, preludono all’incontro di Carmen con Cosè che si dichiara alla donna con la celebre romanza del fiore stranamente cantata in un francese approssimativo (quasi una sua dissociazione linguistica) e straniante nella situazione che renderà il suo disadattamento alla dura realtà sempre più profondo: l’uso del francese corrisponde al grado di idealizzazione che l’uomo investe nel rapporto con Carmen, ma lei lo immette ben presto nella sua realtà sgargiante fatta di prostituzione e delinquenza. Intanto emerge il mondo della mala partenopea con tutta una serie di figure caratteristiche: ’O Dancairo, ’O Rinacciato, Mercedes, Fraschina e Dorotea, un personaggio che non esiste nella Carmen lirica, ma qui non c’è neanche Micaela (che in Mérimée non esiste, ed è stata introdotta da Bizet per ragioni morali e musicali). Gli uomini, camorristi e guappi se la intendono con il tenente Zuniga che li frequenta e tiene loro la pacca, mentre le donne ovviamente fanno “la vita”. Come in una commedia di De Filippo, il dramma si mescola alla commedia e c’è posto per tutti: anche la realtà multietnica e multiculturale della Napoli di sempre è rappresentata da una Fraschina che parla in napoletano ma è cinese, dal suonatore nero di tromba (bravissimo!) che irrompe sulla scena salendo dall’orchestra e infine con il ‘O Torero, introdotto da Zuniga, caratterizzato come un magrebino che canta, ma in arabo, il celeberrimo motivo “Votre toast, je peux vous le rendre”. Un’alchimia maliarda di sapori musicali napoletani che contengono echi spagnoleschi in un crogiuolo di sensazioni mediterranee di ogni sponda, imperversa ogni tanto nell’orchestra che fa cantare le melodie dell’opera da strumenti singoli come il violoncello, la tromba e il fischio (l’Entr’acte di Escamillo), ma le gioca e le sviluppa anche in una serie di ritmi e combinazioni di generi. Quindi si passa al terzo atto quando, con una geniale variante di Moscato-Martone, Cosè infuriato uccide Zuniga per questioni di supremazia, e allora compare il famoso tema della perdizione, le fatali cinque note del destino. Dopo la scena delle carte è ormai chiaro che Carmen si innamora del cantante ballerino ‘O Torero. Da qui il duello tra lui e Cosè secondo una ritualità stralunata a passo di flamenco; il secondo dei due viene colpito e si avvia alla catastrofe finale: torna il suono del mare a segnare in modo ciclico il protagonismo di Napoli e del suo ambiente nell’ultima parte dello spettacolo che inizia con una scena che ha del suggestivo: il cadavere di Zuniga, riprende vita nella penombra e si muove sulla scena come uno zombie al suono crescente di una voce sintetizzata dalla consolle elettronica: “‘O muorto acciso nun truova pace.” che viene ripetuta in crescendo, finchè scoppiano le luci e i suoni della festa di un luna-park mentre da un palco illuminato, eretto con tubi Innocenti e semovente si canta in coro la canzone napoletana: “Carmè, Carmè”. È Bastià che avverte Carmen del pericolo rappresentato da Cosè, ma l’esito è inesorabile: ‘O Torero ucciso con la pistola e lei accecata con il coltello. Il tempo della narrazione torna allora a Cosè ergastolano, che riflette sulla dimensione tragica della sua alienazione ora vissuta lucidamente. Ma Carmen non è morta: ritorna in scena esprimendo una sua coscienza sociale: “Ogni stupido è fatalmente preso da una storia d’amore” proclama. Soltanto lei, già sciolta per la sua condotta di vita da ogni convenzione e vincolo sociali, nonostante tutto, risulta alla fine veramente libera. Scroscianti gli applausi durante la passerella finale di tutti gli artisti scandita dalla già ascoltata musica “etnica” con calorosi saluti anche da parte dell’orchestra applauditissima. Grandi e sentiti gli applausi per tutta la compagnia in scena, poi per gli artisti che uscivano ad uno ad uno a riceverli: in particolare la Forte, versatile vocalmente e fisicamente, ha condiviso la notevole quantità di successo con il direttore dell’esecuzione musicale, M. Tronco.
ESCLUSIVA REGIONALE
adattamento Enzo Moscato, Mario Martone
con Iaia Forte, Roberto De Francesco
dal vivo Orchestra di Piazza Vittorio
regia Mario Martone
da Prosper Mérimée, Henri Meilhac, Ludovic Halévy
musiche George Bizet
direzione musicale Mario Tronco
con
Iaia Forte (Carmen)
Roberto De Francesco (Cosé)
Ernesto Mahieux (Lilà Bastià)
Giovanni Ludeno (Tenente Zuniga)
Anna Redi (Mercedes)
Francesco Di Leva (’O Dancairo)
Houcine Ataa (’O Torero)
Raul Scebba (’O Rinacciato)
Viviana Cangiano (Dorotea)
Kyung Mi Lee (Fraschina)
arrangiamento musicale Mario Tronco e Leandro Piccioni
musiche ispirate alla Carmen di Georges Bizet
esecuzione dal vivo Orchestra di Piazza Vittorio
Emanuele Bultrini (chitarre, bouzouki)
Peppe D’Argenzio (sassofoni)
Duilio Galioto (tastiere)
Kyung Mi Lee (violoncello)
Ernesto Lopez (batteria, bongo)
Omar Lopez (tromba)
Pino Pecorelli (contrabbasso, basso elettrico)
Pap Yeri Samb (djembè, dum dum)
Raul Scebba (xilofono, vibrafono, percussioni)
Marian Serban (cimbalom)
Ion Stanescu (violino)
scene Sergio Tramonti
costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper
coreografie Anna Redi
produzione Fondazione Teatro Stabile di Torino, Teatro di Roma