Vasco Brondi “Le Luci Della Centrale Elettrica” – Il tour nei teatri
di Andrea Ascani
25 Gen 2019 - Commenti live!, Musica live
È come un di gioco di prestigio, quando il mago sul palco del teatro sta per far sparire il coniglio dalla gabbietta e farlo riapparire nel cilindro. Lo spettatore lo sa già: si concentra, si scervella nel capire COME e QUANDO, ma sa già come andrà a finire. Sa già che il coniglietto riapparirà sano e salvo, e soprattutto sa già che non riuscirà a scorgere il trucco che permette di rendere possibile quello che sulla carta possibile non lo è. Ma sebbene lo spettatore, anche solo per un attimo, confidi di smascherare il trucco, è conscio che non ci riuscirà e soprattutto realizza che non è lì per quel motivo: nessuno andrebbe a vedere lo spettacolo di un mago scarso, in grado di farsi smascherare da uno spettatore qualsiasi, per quanto per un secondo possa piacere immaginare di essere così bravo da cogliere quel segreto che per definizione è invisibile agli occhi.
“niente è impossibile solo che non ne ho molta voglia”
Vasco Brondi questo talento ce l’ha dentro. Di far apparire semplici cose che semplici proprio non sono. La sua capacità di mettere in musica e parole lo stato d’animo di rabbia, delusione e insoddisfazione di un’intera generazione non è stata voluta, studiata a tavolino. Semplicemente – e inconsapevolmente – ci è riuscito. “Ero convinto di aver scritto cose che riguardavano me e miei quattro amici. Mi sono accorto che parlando di quel che conosci bene riesci a essere universale”.
È quello che Vasco trasmette nelle sue canzoni, un incastro di parole e pensieri in mezzo a degli arrangiamenti semplici e spogli che ne esaltano la semplicità dei contenuti, riuscendo a muovere dei meccanismi emotivi nella gente che ascolta in modo unico e sorprendente. Il tutto nonostante uno stile vocale non particolarmente ricercato, senza aver mai avuto la possibilità (e la voglia) di studiare per imparare a cantare “bene”. Anche nel live, nella meravigliosa cornice del teatro Rossini di Pesaro, la presenza dei musicisti Rodrigo D’Erasmo (violino), Andrea Faccioli (chitarre), Gabriele Lazzarotti (basso), Daniela Savoldi (violoncello) e Anselmo Luisi (percussioni) mette quasi in ombra il suo personaggio che mai comunque vuole essere protagonista, e la distanza – puramente artistica, non emozionale – tra quando si esibisce con la band e da solo è decisamente notevole. Ma il suo scopo non è mai stato quello di ergersi a modello per pubblico. Tutto quello che scrive rappresenta lui, un chilometro quadrato di città e quattro amici, e si è invece ritrovato ad essere una sorta di alter-ego per i suoi ascoltatori.
Quello che risalta nei suoi testi quell’insofferenza nei confronti di ciò che lo circonda, che lo spinge a cercare nella nebbia l’immaginazione di essere da un’altra parte, viaggiare con la mente e fantasticare di trovarsi in qualche metropoli a godere e trarre spunto dalle varie forme d’arte che permeano le mura di quelle realtà che sembrano così lontane dalla nostra quotidianità.
“è un superpotere, essere vulnerabili”
Ma lamentarsene non serve a niente: la rassegnazione di vivere in una piccola città dove non accade mai niente viene esorcizzata in modo romantico, dove perfino le illuminazioni del polo industriale Montedison (da cui nasce il nome) risultano essere l’unica attrazione per i giovani di Ferrara. Sia chiaro, non in modo dispregiativo, quanto piuttosto come una scusa per evocare la fantasia del ragazzo che di sera non aveva altro di meglio da fare che fantasticarci su. “Non sono una persona che vive la realtà facendosi accecare dai problemi, perché questo impedisce di vedere le possibilità che ci sono. In questo momento di semplicismo rabbioso, che tradisce la debolezza, gli atti di gentilezza sono tornati ad avere un valore fondamentale e non scontato. Sono contrario alla logica della lamentela, perché la lamentela è sterile e fa sopportare le cose senza cambiarle, spesso implica il rivendicare i propri diritti come se dovessero cadere dall’alto senza pensare alle proprie responsabilità, ai propri doveri. Penso che la realtà sia sempre complessa e difficile da giudicare, ovviamente sono costernato quando ci troviamo davanti a episodi di razzismo e violenza fisica e verbale”.
“la finestra del palazzo di fronte a tre metri, ma tu vedi orizzonti infiniti”
E da lì nasce la voglia di partire, viaggiare, esplorare, permearsi delle più varie forme di cultura, musicali e non, dalle più vicine (CCCP, De Gregori) alle più lontane (Grotowski, Bolaño), e comunque sempre di raccontarlo in rapporto a quello che si è e il posto in cui si vive, senza rinnegarlo mai. “Ha dimostrato che puoi parlare delle cose che conosci con le parole che sai. Che parlare del tuo piccolo mondo va benissimo”.
Questo mette di diritto Vasco Brondi tra i rappresentanti del vero indie italiano dei primi anni 2000, per una sua capacità artistica di parlare dalla pancia, piuttosto che attraverso una costruzione a tavolino, tipica impalcatura di questo nuovo pop italiano. Rappresenta in pieno quello “scrivere per necessità” di cui si abusa spesso ultimamente nei talent, come forma di elaborazione di un pensiero per sé stessi e non per gli altri. In questo Vasco è molto “artista” e poco “artigiano”, non troppo capace di produrre arte per gli altri, cosa che invece ha caratterizzato i più grandi artisti fin dal rinascimento italiano. Il problema dell’indie, e sicuramente anche in parte di Vasco Brondi, è stato quello di non riuscire a reinventarsi, a livello culturale e musicale, tanto da scemare nel pop “L’indie è morto! L’amo ucciso noi Tommà!”(supercit.)
“le soddisfazioni non danno soddisfazione”
E forse il motivo per cui, come dice lui stesso, chiude con grande sicurezza e serenità questa pagina della sua carriera musicale. Quel nome corale – sembra il nome di una band – è nato quasi come un qualcosa dietro cui nascondersi. “Le Luci della Centrale Elettrica, si porta dietro un immaginario forte. Ora voglio ripartire dal niente, voglio avere di fronte a me un foglio bianco, voglio provare la sensazione di non avere niente da rispettare. Forse lo faccio perché mi piace mettermi in difficoltà e farmi traballare, forse per ripensare il mio modo di rapportarmi a questo mestiere. Abbandonare il nome è un fatto sia formale, sia sostanziale.”
Le luci della centrale elettrica si sono spente ed è ora di dirsi addio, e di scoprire da quale cilindro salterà fuori quel coniglio, con la speranza che il gioco di prestigio riesca al meglio con tanto di standing ovation! Auguri per questo nuovo viaggio.