Un’”Aida” anticolonialista al Macerata Opera Festival 2021
di Alberto Pellegrino e Roberta Rocchetti
8 Ago 2021 - Commenti classica
Successo per l’edizione di Aida, al Macerata Opera Festival, nel centenario della prima rappresentazione dell’opera verdiana allo Sferisterio. Ne parliamo a due voci con gli interventi di Alberto Pellegrino e Roberta Rocchetti, con ottica più verso la messa in scena del primo e più verso gli interpreti della seconda.
(Fotografie di Tabocchini Zanconi)
Recensione di Alberto Pellegrino
Macerata – Siamo rimasti piacevolmente sopresi, perché a forza di sentir parlare dell’Aida 1921, dell’Aida del centenario, ci aspettavamo una riedizione storica con tradizionali costumi egiziani, statue di divinità, piramidi, squilli di trombe, cortei con flabelli e cammelli. Invece ci siamo trovati dinanzi all’Aida più innovativa e anticonvenzionale degli ultimi anni e, forse per la prima volta nell’assistere a questa opera, non abbiamo solo “partecipato” ma ci siamo sinceramente divertiti.
La regista spagnola Valentina Carrasco ha affermato di avere tratto una illuminante ispirazione da un’antica fotografia scattata nel 1921 da Alfonso Balelli, nella quale sono raffigurati ai lati del palcoscenico due grandi manifesti della Società “Nafta” di Genova con le sue agenzie di Macerata e Ascoli Piceno, nei quali si pubblicizza il nuovo “oro nero”: “SHELL LA MIGLIORE BENZINA” e “PETROLIO AUREOLA”.
Allora ha preso il via questo moderno carosello d’idee e d’immagini che ha spostato l’azione nel primo decennio del Novecento in un Egitto più immaginato che realisticamente rappresentato: in mezzo alle dune del deserto appare un Radames vestito da esploratore con tanto di binocolo e carte geografiche; subito dopo fa il suo ingresso una elegantissima Amneris (nel corso dell’opera cambierà diversi costumi senza mai cedere all’eleganza) che ha probabilmente studiato a Oxford o a Cambridge, con una spiccata personalità british sottolineata da una partitina a golf con le mazze trasportate dalla “serva” Aida. In conformità a questo climax, il Re e i suoi funzionari sono vestiti come dignitari dell’Impero Ottomano; ufficiali e soldati indossano la classica divisa coloniale occidentale. L’ambientazione storica è quella immediatamente successiva all’apertura del Canale di Suez, una grande infrastruttura progettata da un ingegnere francese e destinata a cambiare il quadro economico e politico del mondo occidentale. Il progetto ha visto coinvolti i capitali delle potenze coloniali francesi e britanniche, l’influenza dell’Impero Ottomano che esercitava un controllo sul vice-regno d’Egitto, il coinvolgimento del più famoso compositore italiano per celebrare l’inaugurazione del canale.
In questa particolare messa in scena è presente un mondo del tutto inventato, ma dominato dalla presenza delle potenze imperialiste europee, con le millenarie componenti politico-sociali che finiscono per proiettarsi nel nostro presente (militarismo, violenza su donne e migranti, sopraffazione di popoli “barbari”). Anche se la regista ci tiene a ricordare che lo spettacolo non ha “come fine ultimo la denuncia della conquista coloniale”, non è possibile sottovalutare che il contesto storico si basa, soprattutto nelle scene di massa, su tre precisi gruppi sociali: gli europei coloniali, gli alti dignitari ottomani, il popolo egiziano e le popolazioni subsahariane. Insomma la regia, per evitare “pericolose esemplificazioni”, ha bilanciato gli “orrori del colonialismo” con la citazione di quei “cambiamenti sociali, dall’alfabetizzazione allo sviluppo della società moderna, inclusa la produzione culturale della musica e dell’opera, una parte del portato di quelle medesime società che hanno prodotto gli orrori coloniali”.
In coerenza con questo progetto registico, è stata allestita da Carles Berga una scenografia (montata a vista) essenzialmente basata sul terminal di un oleodotto e una gigantesca raffineria con tanto d’illuminazione notturna e con tre camini per la combustione dei residui gassosi con tanto di fuoriuscita di fiamme, un’opera realizzata con il concorso di abili artigiani locali come era avvenuto per le scenografie dell’Aida 1921. “L’idea dell’oleodotto petrolifero – ha dichiarato la Carrasco – mi è sembrata calzante, un mezzo tecnico su cui si continuano a addensare le guerre di oggi, nonostante le condizioni ambientali del pianeta”.
Questa impostazione socio-politica non ha fatto trascurare alla regia tre fondamentali elementi umani: la smania di gloria, l’amore e la gelosia. Ad essi si sono aggiunti il desiderio di riscatto e di libertà delle popolazioni indigene, l’involontario tradimento di Radames, il conflitto tra due donne innamorate, un’amicizia che degenera in odio, la scelta di una morte comune dei due protagonisti, l’implorazione di Amneris per i due amanti ma anche per se stessa, straziata da un dolore al quale forse non potrà sopravvivere. Vi sono stati suggestivi movimenti coreografici come la danza degli “spiriti” che sono emersi dalle sabbie del deserto mentre la sacerdotessa implorava il dio Fthà; lo spettacolare ingresso di rossi barili di petrolio sui quali hanno danzato gli indigeni.
L’Aida è un’opera estremamente complessa che sfugge a una precisa assegnazione di genere, perché alterna momenti di intensa e raccolta intimità con altri propri del Grand Operà. Il M° Lanzillota, alla sua prima direzione di questo melodramma, ha saputo mettere insieme passaggi di grande sonorità con altri che presentano atmosfere e trasparenze fatte di colori tenui e rarefatti. Inoltre ha fatto in modo che tutti gli interpreti si fossero trovati nella condizione di esprimersi al meglio non solo nel canto ma anche nella recitazione.
Su tutti vanno segnalati Veronica Simeoni, una regale e drammatica Amneris; Maria Teresa Leva, un’Aida raffinata e appassionata soprattutto nell’aria “O cieli azzurri”; Luciano Ganci, un Radames più votato alla potenza vocale che alle raffinatezze interpretative; Marco Caria, un Amonasro animato da spirito patriottico (“Se l’amore di patria è delitto/Siam rei tutti”) e d’amore per il suo paese (“Rivedrai le foreste imbalsamate, /Le fresche valli, i nostri templi d’or”).
Recensione di Roberta Rocchetti
Aida allo Sferisterio ha il sentore di simbolo vitale, fu con questa opera che nel 1921 si convertì quello che fino a quel momento era stato uno stadio per incontri sportivi di palla col bracciale in un teatro all’aperto destinato a divenire uno dei più importanti d’Italia per quello che riguarda le rassegne liriche estive.
Lo dobbiamo alla mente visionaria del Conte Pier Francesco Conti, il quale appunto nel secondo decennio del secolo scorso decise di mettere in scena l’opera verdiana ricorrendo ai nomi più illustri del periodo e nel ruolo della protagonista volle Francisca Solari, soprano il cui repertorio era prevalentemente orientato verso la musica primo novecentesca e che diverrà nel 1926 la sua seconda moglie. Per Francisca divenuta consorte il conte ristrutturò anche la sua villa nella bucolica campagna marchigiana rendendola uno degli esempi di liberty più belli della regione e dalla quale in sostanza Francisca Solari non uscì quasi più per calcare le tavole del palcoscenico, se non in rare occasioni celebrative.
Ed è proprio l’atmosfera di quel periodo che tra le trame dell’Aida andata in scena sabato 7 agosto abbiamo visto rinascere.
L’ambientazione voluta dalla regista Valentina Carrasco sposta l’azione ai tempi del colonialismo, pone l’accento sul ruolo di sfruttatori e sfruttati ed ecco quindi apparire oleodotti dal nulla al seguito di popoli predatori a discapito di popoli predati, evocando razzie che ebbero allora il loro innesco ma le cui conseguenze tuttora aleggiano sulle nostre civiltà.
E questa in effetti è stata un’Aida delle evocazioni, si è evocata la prima rappresentazione allo Sferisterio spostando l’azione nel periodo in cui vide la luce, si è evocata la diva Francisca, anche se, sembra quasi per una metempsicosi fuori binario, l’abbiamo vista stavolta materializzarsi sul palco con gli abiti e le movenze di Amneris invece che con quelli di Aida, si è evocata la divinità ancestrale e archetipica che sovrintende la vita di tutti noi e alla quale ognuno dà il nome che meglio crede nella magnifica, solenne e ieratica scena della sacerdotessa, con gli jinn della sabbia che prendono vita e danzano il loro presagio su un destino già scritto.
La direzione di Francesco Lanzillotta ci è sembrata impeccabile, senza personalismi ma con molta personalità, solenne e coinvolgente ma anche elegante e capace di entrare nelle sottili fessure delle pene individuali ed intime, e non solo quelle di Aida ma anche quelle di Amneris, personaggio spesso ridotto al ruolo di elemento di contrasto e dotato invece, di grande peso specifico, lo abbiamo visto stavolta grazie anche all’enorme talento scenico di Veronica Simeoni. Il mezzosoprano romano possiede oltre ad una voce potente e che si proietta senza ostacoli nello spazio aperto dello Sferisterio anche doti recitative rare, che peraltro abbiamo avuto modo di apprezzare nella Cavalleria Rusticana ambientata tra i sassi di Matera e ritrasmessa anche recentemente dalla Rai, messa in scena con diverse pecche in altri campi, ma che mette in risalto le innegabili doti di questa artista.
L’Aida di Maria Teresa Leva è stata vocalmente apprezzabile, le modulazioni, i pianissimi sospesi ma incisivi, il fraseggio di grande eleganza e controllo hanno disegnato un personaggio che va via via rassegnandosi al proprio destino schiacciato dal peso di soprusi sociali prima ancora che individuali.
Il Radames di Luciano Ganci ci è sembrato forse poco coinvolto sotto il profilo emotivo ma vocalmente buono seppur con qualche impurità nell’emissione nel registro acuto, certamente un potenziale ottimo Radames limando qui e là.
Stupefacente la sacerdotessa di Maritina Tampakopoulos, ma sappiamo che dai soprani greci possiamo aspettarci molto.
Buono il re di Fabrizio Beggi, potente, inquietante e solenne il Ramfis di Alessio Cacciamani.
Ottimo L’Amonasro di Marco Caria che ha reso incisivo e fornito del giusto peso drammatico un bellissimo terzo atto.
Francesco Fortes ha dato vita ad un ottimo messaggero.
Un plauso particolare va all’Orchestra Filarmonica Marchigiana impeccabile e duttile sotto la guida di Lanzillotta e al Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini” diretto da Martino Faggiani, coeso al millimetro, preciso e brillante. Aggiungiamo l’apprezzamento per la Banda Salvadei, il “complesso di palcoscenico” come sempre indispensabile supporto, tanto più questa volta.
Le coreografie di Massimiliano Volpini ci sono sembrate uno spettacolo nello spettacolo, originali, divertenti, al servizio della drammaturgia.
Le scene di Carles Berga, essenziali, soprattutto trattandosi di Aida, ma efficaci e capaci di mirare al punto.
Last but not least: i magnifici costumi di Silvia Aymonino, un po’ Orient Express, un po’ Sorolla, un po’ Bakst, un lavoro prima di concetto e poi manuale possibile solo grazie alle maestranze figlie di una tradizione marchigiana di grande orgoglio.
Grande successo di pubblico, qualcuno ha gridato addirittura “Bis”, agli applausi finali e non si è capito se volesse rivedere tutta l’opera da capo, certo è che questa serata allo Sferisterio, complice anche una temperatura perfetta è stata molto ma molto piacevole.
Aida allo Sferisterio ha il sentore di un simbolo vitale dicevamo, speriamo dunque che rinascita sia dopo i tragici mesi che abbiamo trascorso. Ci è sembrato anche di veder sorridere Francisca in un angolo tra le ombre delle dune.
Ottima la recensione di Roberta Rocchetti