Una “gatta sul tetto che scotta” poco convincente
di Elena Bartolucci
9 Feb 2015 - Commenti teatro
Fermo – Venerdì 6 febbraio 2015 sul palcoscenico del Teatro dell’Aquila è arrivata La gatta sul tetto che scotta, una delle pièce teatrali più famose che porta la firma del celebre drammaturgo statunitense Tennessee Williams.
Premio Pulitzer nel 1948 per Un tram che si chiama desiderio e nel 1955 con questa grande storia, portata anche sul grande schermo da due mostri del cinema come Liz Taylor e Paul Newman.
Maggie la gatta (Vittoria Puccini), è una donna conturbante e una moglie tenace, decisa a far qualsiasi cosa per ritornare nelle grazie del marito Brick (Vinicio Marchioni), ex sportivo e cronista disoccupato, ormai da tempo assente, che ha deciso di affogare le sue pene in un fiume di alcool.
Sullo sfondo di un matrimonio a pezzi si presentano all’appello un padre tiranno morente, che incarna l’uomo imprenditore che è riuscito a far tutto da sé; una madre di famiglia fragile e semplice e il fratello, un rampante avvocato e prolifico di prole, che insieme alla sua acida e falsa consorte, è deciso a impossessarsi dell’intera eredità. Il regista Arturo Cirillo spiega che “i personaggi di questo dramma si rompono, vanno in frantumi, facendo molto rumore, anche se ci sarà l’ipocrisia di chi dirà che non ha sentito niente, di chi non si è accorto che c’è una casa che brucia e sopra al tetto che scotta una gatta, che di saltare giù non ne vuol proprio sapere”.
Tra giochi passionali e abili caratterizzazioni, affiorano sensualità cariche di sottintesi e di contenuti inespressi o inesprimibili, in cui all’ideale della purezza dei sentimenti si contrappone la dura realtà di un mondo familiare e sociale pieno di ipocrisie.
Cirillo ha anche dichiarato che “la famiglia è ancora il luogo dove Williams fa risuonare le sue parole, il luogo dove, grazie alla sua capacità di narrare i sentimenti dei personaggi, un gruppo di attori possono dare vita ad una coralità di conflitti. È difficile trovare in questo autore dei personaggi non risolti, dei personaggi di cui sia difficile trovare una propria emotività, sarà anche perché lui non sembra avere paura del melodrammatico, dell’eccesso, del melò, anzi li usa come parte della nostra vita. Forse proprio perché non ha paura del falso e dell’esagerato riesce, per contrasto o completamento, a trovare il vero”.
Eppure tutte queste belle parole non sembrano affatto affiorare nella recitazione degli attori, bravi nelle capacità ma vuoti nei contenuti. Nessuno riesce ad apportare quel brio, quell’intensità di emozioni e quella potenza racchiuse in un testo di così magistrale bellezza, che risulta ancora molto attuale.
Per quasi metà dello spettacolo la Puccini sembra quasi intenta in un lungo e urlante monologo di fronte a un inerme Brick, interpretato da Marchioni, che, poco convincente persino quando è in silenzio o traballante sulla stampella, ha sfoggiato un accento assurdo che fortunatamente si è andato perdendo a fine serata.
Lo spettacolo è prodotto dalla compagnia Gli Ipocriti. In scena accanto ai due protagonisti sono saliti sul palco gli attori Paolo Musio (in una versione di Big Daddy a volte troppo sopra le righe), Franca Penone (forse la più convincente nei panni della madre), Salvatore Caruso (nelle dubbie vesti sia di un prete molto materiale che di un medico poco empatico e incurante del dolore), Clio Cipolletta (nelle scialbe vesti della cognata Mae) e Francesco Petruzzelli (in una piatta versione del fratello Cooper). La scenografia un po’ scontata dal colore verde opprimente alle pareti è di Dario Gessati, le ottime luci di Pasquale Mari e le musiche di Francesco De Melis (belle ma che poco si addicono al racconto).