“Traviata” nello splendido ritrovato Teatro Galli di Rimini
di Roberta Rocchetti
10 Mar 2019 - Commenti classica, Musica classica
Quale miglior protagonista per la serata dell’8 marzo che Violetta? Donna coraggiosa, anticonformista, vera e appassionata. E proprio Violetta è stata scelta dal bellissimo Teatro Galli di Rimini per questa ricorrenza. Un teatro che è tornato da poco a riveder le stelle, dopo un sonno durato 75 anni causa eventi bellici e che è stato finalmente restituito ai riminesi come centralissimo luogo di incontro, cultura e perché no, mondanità.
Questa Traviata ha visto mettersi in gioco come regista nientemeno che il grande baritono Leo Nucci, ma ci ha lasciato abbastanza perplessi. Nelle note di regia Nucci ci informa di aver voluto omaggiare la Traviata della Callas, il ricordo di Visconti e la rivoluzione che la sua regia di questa opera fece nascere, ma soprattutto la Callas stessa e sicuramente questo si evince dal look della bellissima protagonista che rinuncia al suo chignon callasiano solo in punto di morte, dai suoi abiti, anche se con la vestaglia del secondo atto, sagomata sul corpo slanciato, ricorda più una Uta Von Naumburg senza corona. Ma dove il riferimento alla divina Maria è più incisivo è soprattutto nell’estremo finale, quando Violetta invece di morire, decide di andare alla finestra e posare come appunto la Callas in una delle sue foto più celebri e malinconiche, quando a pochissimo tempo dalla morte si affaccia triste e sola dalla sua finestra al numero 36 di Avenue Georges-Mandel e viene catturata dal solito paparazzo appostato e resa eterna anche nella sua disperazione. Una regia che però non ha portato nei gesti, nelle interazioni tra i protagonisti nulla di veramente convincente, abbiamo visto una gestualità scontata, abbastanza impersonale e quasi nulla che esprimesse vero dolore, vera passione, vero amore, vera morte. Alcune scene ci hanno lasciato un gusto amaro di occasione perduta, come quando, complice Verdi che carica le proprie note di tensione crescente nella celeberrima “scena dei soldi” ci si aspetta una sequenza altamente ricca di pathos e tutto si sgonfia in un impacciato Alfredo che paga Violetta infilandole con calma le banconote arrotolate nel décolleté e lei se ne va come se avesse ricevuto il giusto compenso. Anche le scene di Carlo Cantolavigna e i costumi di Artemio Cabassi non ci hanno soddisfatto del tutto, dopo un preludio a sipario chiuso la scena si apre su una dimora di gusto ottocentesco nella quale troneggia un agghiacciante camino con il bagliore elettrico di un fuoco finto che ci ha ricordato quelli che arredavano alcune case degli anni ’70 e che celavano in realtà dei mobili – bar. Il secondo atto diventa squisitamente liberty nelle architetture d’interni, la campagna fuori Parigi è abbastanza stucchevole nel suo trionfo di vasi colmi di fiori colorati appoggiati alle balaustre e fondale dipinto. L’ultimo atto più sobrio e neutro cronologicamente, liberato dai vari orpelli è stato quello che abbiamo apprezzato di più. I costumi anagraficamente eterogenei almeno quanto la scenografia vanno dai capi anni ’50 e ’60 di Violetta, all’abito carnascialesco tutto ruches e paillettes di Flora che fa la zingarella nel primo atto, al pigiama palazzo glitterato di alcune coriste, allo smoking nero degli uomini, e Alfredo che sfoggia abiti di gusto cromatico crediamo volutamente discutibile, elegante in grigio classico invece il vecchio Germont, sicuramente si è voluto mettere in scena una società multiforme, a volte volgare, identificabile più o meno con l’epoca attuale, ma abbiamo un po’ sentito la mancanza di un filo conduttore armonico tra i costumi e la scenografia, tra tutto questo e la narrazione, sia la narrazione di Piave, che quella relativa a Maria Callas che Nucci ha infilato tra le trame.
Veniamo ora alla parte musicale, la direzione di Pier Giorgio Morandi è stata equilibrata ed elegante, non ha mai prevaricato le voci , anche se è mancata un po’ l’ incisività drammaturgica nelle agogiche. Un “Sempre libera” senza mi bemolle ed anche un “O mio rimorso o infamia” filologicamente senza puntatura finale non sono un problema, meno apprezzabile invece l’aver tagliato la meravigliosa e secondo noi fondamentale seconda strofa di “Addio del passato” dove Piave rende tutta la terrificante consapevolezza di Violetta di cosa ne sarà di lei e del suo corpo già spaventosamente ghermito da una morte reale, dura e inesorabile e il da capo di “Gran Dio morir si giovine” che avremmo preferito rimanesse proprio per accentuare il senso di disperazione della povera Violetta che dovrebbe avere davanti solo amore, anni e primavere e invece ha una fossa. La protagonista Adriana Iozzia possiede una bella voce, di gradevolissimo timbro soprattutto nella tessitura centrale, il secondo atto è quello più agevole alla sua vocalità ed è qui che ha dato il meglio di sé, presenza scenica notevole ed eleganza innata hanno fatto il resto. L’Alfredo di Yvan Ayòn Rivas è stato buono sotto il profilo vocale, anche qui troviamo un bel colore di voce, potenza e capacità espressiva, sotto il profilo recitativo Rivas è però ancora un po’ immaturo e didascalico, non realmente partecipe all’azione e ricorre spesso a gestualità ed espressioni da melodramma d’antan, certo in questo caso forse non aiutato dalla regia, ma è molto giovane e avrà modo di perfezionarsi in questo senso, diamo tempo al tempo. Per quello che ci riguarda il membro del cast che abbiamo apprezzato maggiormente è stato il Germont padre di Benjamin Cho, il giovane baritono coreano ha esibito un fraseggio da manuale, una voce perfettamente dominata anche al servizio dell’espressione e dell’interpretazione, è entrato nel suo personaggio con convinzione e trasporto, cesellando un Germont inizialmente palesemente cinico e un uomo pentito senza ombra di ipocrisia nel tragico finale senza mai dover ricorrere ad usurati cliché, stati d’animo che ha trasmesso al pubblico in sala in maniera netta e che gli hanno fatto guadagnare un meritato consenso personale. Buona la Flora di Carlotta Vichi, ottima l’Annina di Luisa Tambaro, chiudono l’eccellente cast il Gastone di Raffaele Feo, Juliusz Loranzi (Barone Douphol), Stefano Marchisio (Marchese D’Obigny), Vincenzo Santoro (Dottor Grenvil), Francesco Cascione (Domestico di Flora). L’Orchestra Luigi Cherubini ha dimostrato tutta la propria preparazione e coesione così come ha completamente soddisfatto la prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza preparato da Corrado Casati.
La recita a cui abbiamo assistito è stata preceduta pochi giorni prima da una “anteprima giovani” alla quale si è dato accesso a 400 under 29, i quali hanno potuto avvalersi di un biglietto al costo di 5 euro, a dimostrazione della volontà del teatro di formare un sempre più numeroso pubblico che porti nuova linfa, nuovi entusiasmi e nuovi punti di vista.
Alla chiusura del sipario pubblico soddisfatto e applausi per tutti.