Totem rupestri e spiriti dei boschi nel mondo della Regina Sibilla
a cura della Redazione
30 Gen 2025 - Arti Visive, Libri
È stato recentemente pubblicato il volume di Stefano Bonifazi “Nel regno della regina Sibilla. Presenze antropomorfe tra mito, natura e mistero” a cura di Alberto Pellegrino, un originale racconto fotografico su alcune tracce presenti nel mitico mondo della Regina Sibilla individuabili nel cuore dei Monti Sibillini.
La fotografia di Stefano Bonifazi e i Monti Sibillini
L’avvento della fotografia digitale – sostiene nella sua introduzione Alberto Pellegrino – ha influito sulle abitudini percettive e sulle caratteristiche psicologiche che sono alla base dei nostri processi cognitivi, sia per l’immediata possibilità di manipolazione dell’immagine, sia per l’enorme quantità d’immagini che possono essere comunicate ed elaborate. Si è aperta pertanto una strada a nuovi processi visivi caratterizzati da una dimensione virtuale che determina una perdita di fisicità delle creazioni artistiche definite “immateriali”. La fotografia supera così confini un tempo ritenuti impossibili da oltrepassare e si pone alla ricerca di nuove forme espressive e di nuovi modi di comunicare capaci di penetrare nel regno dell’immaginario in un continuo confronto tra “verità vera” e “verità apparente” fino a diventare una fotografia “visionaria” capace di tradurre in immagini un mondo magico e segreto.
Stefano Bonifazi, medico psichiatra con una decisa passione per la fotografia, si è impegnato in una ricerca estetico-contenutistica per superare le rigide convenzioni del realismo e arrivare alla rappresentazione di una realtà rielaborata attraverso l’invenzione e la fantasia. Ha scelto pertanto d’immergersi in un universo mitologico dal quale è riuscito a far emergere dei totem ancora presenti nella natura come misteriosi segni incisi dal tempo, i quali, secondo l’antropologia culturale, possono rappresentare un consolidato e secolare rapporto mistico tra gli uomini e la Natura.
Nel compiere un suo “viaggio” all’interno dei Monti Sibillini, Bonifazi ha avvertito la “necessità” d’immergersi in un mondo magico e misterico e ha finito per imbattersi in questi totem rupestri, acquatici e boscherecci che si sono materializzati dinanzi al suo “occhio fotografico” e che sono stati “imprigionati” dentro immagini che, a un primo livello di lettura, possono apparire improbabili e inattendibili, ma che vanno accettate e comprese come qualcosa di “miracoloso” per come la sensibilità dell’autore sia riuscito a “catturarle” attraverso l’obiettivo della sua macchina.
I “totem” di Bonifazi nel Regno della Sibilla
L’autore vuole proporre qualcosa di particolare mosso dal bisogno di trovare nuovi spazi di libertà creativa e dalla spinta ad entrare in sintonia con alcuni aspetti “misteriosi” che la natura sembra voler nascondere a l’occhio distratto del viaggiatore, mentre non sono sfuggiti a un Bonifazi “viaggiatore dell’ignoto” che l’ha portato alla scoperta di uno “stupefacente” popolo di maschere che affiorano in modo drammatico dalle concrezioni rupestri come dei fantasmi imprigionati nella pietra, visi dai quali sembra sprigionarsi un grido solidificato che invoca una impossibile liberazione. Sono figure che formano un evanescente e inquietante popolo delle rocce, oppure sono “spiriti del bosco” che affiorano da un tronco o si lasciano intravedere sotto le limpide acque di un ruscello. Stefano Bonifazi sostiene che, per riprendere queste misteriose “presenze”, bisogna cogliere l’attimo di luce che le disegna su una rugosa parete di roccia o nelle trasparenti luminescenze delle acque, perché esse sono talmente labili ed evanescenti che si devono “sorprender” in una determinata e ineludibile frazione di tempo racchiusa in uno scatto, perché basta un diverso taglio di luce, l’improvviso passaggio di una nuvola, il sopraggiungere del tramonto per cambiare il “punto di vista”, per far sparire questi fantasmi di pietra o di legno che solo la mente dell’autore e l’occhio velocissimo della macchina fotografica riescono a “imprigionare” per dare vita a un popolo fantastico e immateriale, che viene “strappato” alla sua labile realtà per entrare nell’immaginario di un fotografo. Accanto al “popolo delle rocce”, appaiono altre presenze, ugualmente affascinanti e che sono esili corpi imprigionati nello spazio angusto di un albero, drammatici volti che emergono da radici arboree, figure che appaiono in un intrigo di luci e ombre, che appartengono al mondo animale, oppure sono affascinanti e sensuali corpi femminili i quali mostrano la loro natura antropomorfa in un chiaroscuro di ombre o di morbide luci.
Il mito della Sibilla Appenninica nella tradizione e nella letteratura
Il “racconto” fotografico di Bonifazi è quasi sempre racchiuso nel contesto naturalistico e culturale dei Monti Sibillini, i quali sono stati per secoli al centro di riti esoterici e di leggende legate al culto della Regina Sibilla, personaggio mitologico metà maga e metà profetessa, il quale ha lasciato profonde tracce letterarie e antropologiche in Italia e nell’Europa centro-meridionale. Il baricentro mitologico è naturalmente il Monte Sibilla sotto la cui cima un tempo si apriva l’ingresso alla Grotta della Regina Sibilla o Grotta delle Fate, un antro interamente crollato a causa di movimenti naturali e di scriteriati interventi dell’uomo. Intorno a questo luogo mitico vi è un complesso montano le cui cime contribuiscono a creare un’atmosfera sacrale e misterica con le loro denominazioni di chiara ispirazione religiosa o esoterica: Pizzo della Regina, Cima del Redentore, Poggio del Paradiso, Scoglio del Miracolo, Aia della Regina, Pizzo del Diavolo, Gola dell’Infernaccio e Val di Panico. Si tratta di un ulteriore segnale dell’esistenza di un filo sottile ma indistruttibile che lega Natura e mito.
La figura della Sibilla Appenninica è legata all’antico culto della Magna Mater diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo; praticato lungo la grande via fluviale danubiana e in tutta l’area appenninica, dove vivevano piccole comunità che praticavano l’agricoltura e il commercio. Secondo la scrittrice Joyce Lussu, in questi nuclei sociali non vi erano differenze di classe, ma solo una divisione e specializzazione del lavoro; nelle famiglie la parentela si trasmetteva per la linea materna e il governo delle comunità era affidato alle donne, mentre gli uomini avevano il compito della caccia e della raccolta dei frutti della terra. La Regina Sibilla era una sacerdotessa depositaria di un sapere legato all’agricoltura e all’allevamento, all’artigianato, alle conoscenze della medicina naturale, una donna saggia di stabili norme sociali, l’ordine dei lavori agricoli, le regole per la difesa del territorio dagli animali selvatici e dalle razzie di nomadi avventurieri.
Con l’avvento del cristianesimo, questa sacerdotessa perde il suo ruolo sociale, religioso e culturale per trasformarsi in una corruttrice maliarda o una terribile strega e con il passare degli anni fioriscono leggende e opere letterarie di illustri scrittori italiani (Cecco d’Ascoli, Flavio Biondo, Giorgio Trissino, Luigi Pulci, Andrea da Barberino con il suo Guerrin Meschino). Di particolare importanza – come sottolinea Alberto Pellegrino nel suo saggio conclusivo – è l’influsso esercitato dal mito della Regina Sibilla sui poemi di Ludovico Ariosto e Torquato Tasso; il grande rilievo che ha avuto questa figura sui romanzi del ciclo bretone, su scrittori francesi (si pensi al celebre Le Paradis de la Reine Sybilla di Antoine De la Sale), svizzeri e soprattutto tedeschi che si sono occupati delle avventure degli amori tra il trovatore Tannhauser e la dea Venere che, dopo il crollo del mondo classico, si era rifugiata sul Mons Veneris, divenuto luogo di delizie e di passioni sessuali che ha ispirato diversi autori fino al giovane Wagner che nel 1845 compone il melodramma Tannhauser.