“Thesauros” di Agostino Arrivabene a Palazzo dei Diamanti e intervista
di Flavia Orsati
27 Set 2023 - Arti Visive, Interviste
Abbiamo visitato, a Ferrara, la splendida mostra “Thesauros” di Agostino Arrivabene e abbiamo intervistato l’artista. Potete leggere la trascrizione della stessa o ascoltarla, in calce all’articolo, dalla viva voce dell’artista.
(Le didascalie complete delle opere inserite nell’articolo sono a pié pagina)
L’uomo accende a se stesso una luce nella notte, quando essa è spenta nei suoi occhi: vivo è a contatto col morto quando dorme, desto è a contatto col dormente. Eraclito, frammento XXVI
Il raffinato Palazzo dei Diamanti di Ferrara ospiterà, fino al 1° ottobre, la personale antologica di Agostino Arrivabene, a cura di Vittorio Sgarbi, promossa dalla Fondazione Ferrara Arte e dal Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara, intitolata Thesauros. Nello stesso Palazzo, è attualmente possibile visitare la mostra Incontri del fotografo Guido Harari.
Le quaranta opere di Arrivabene esposte – tra disegni, dipinti e oggetti di mirabilia – coprono un arco cronologico che va dal 1985 fino ad oggi. Per quel che riguarda il titolo, il termine “Thesauros” indicava i doni votivi offerti agli dèi nell’antica Grecia e – su parole dell’artista stesso – la mostra realizzata si propone come un dono, un’offerta di sé e della propria Arte al prossimo, ritrovando la sua storica funzione edificante e di testimonianza ai posteri. Chi si trova davanti alle opere di Arrivabene è, infatti, obbligato a riflettere su ciò che osserva, costretto a fare i conti con se stesso, con il proprio passato, con il proprio futuro, ma anche con i propri tormenti, le proprie lacerazioni.
Il visitatore che si immerge nelle sale della mostra sembra catapultato in una Wunderkammer: ogni dipinto cela un numero infinitesimale di dettagli, di rimandi colti, di segreti nascosti e di celate corrispondenze che potrebbero costruire un micromondo, o un intramondo, a sé stante. Si è obbligati a passare per ciò che è occulto, sondando anche i lati più esecrabili del proprio animo, nascosti in bui recessi ma in attesa di essere riportati alla luce. L’anacronismo, in questo mondo sincretico, regna sovrano: in una dialettica tra Inferno e Paradiso, tra male e bene, luce e ombra, ogni parte si afferma come frammento unitario necessario a ricomporre un Uno, che l’uomo deve necessariamente arrivare a conoscere, per scoprire chi egli sia.
L’arte di Arrivabene si nutre di una fervida ispirazione, attinta alla memoria della grande Storia dell’Arte, che non scade mai nel citazionismo e tantomeno nel manierismo, e di un fertile dialogo con i grandi del passato, studiati alacremente e osservati a lungo: da Leonardo da Vinci a Michelangelo, da Albrecht Dürer a Jan Van Eyck, da Rembrandt ai primitivisti fiamminghi, da suggestioni simboliste e decadenti alla Gustave Moreau a richiami al Surrealismo di Max Ernst. Si tratta, precipuamente, per l’artista, di riuscire a percepire l’essenza del bello presente nel contemporaneo ed elevarlo alla sfera dell’eterno, rendendolo prettamente moderno, come avviene ogni volta che passato e presente si incontrano e si amalgamano dialetticamente, l’uno indispensabile all’altro. Apparentemente, l’estetica di Arrivabene parrebbe porsi in totale antitesi con le ultime tendenze che permeano l’arte contemporanea, tutte tese all’annullamento dell’immagine, all’evanescenza; per l’artista si tratta, invece, di affermare anche la fisicità dell’arte, tutta la sua assertività, piena e a volte anche tracotante, in un mare magnum di allegorie e contraddizioni, che rispecchiano tutti i lati dell’umano. Il linguaggio è onirico, visionario e simbolico, atemporale, anche a partire dalla preparazione artigianale dei colori e all’uso di antiche tecniche pittoriche. In questa pittura liminale, che si muove in buio non assoluto, ma tra modulazioni cromatiche dalle quali emergono sparuti frammenti di luce, si effettua un vero e proprio squarcio nei confronti del reale, come se un velo venisse sollevato e una quinta si aprisse su ciò che esiste dietro il palco della vita e delle sue finzioni. Ed è così che le suggestioni artistiche risultano sublimate in una sorta di catarsi dionisiaca, che provoca uno sconfinato allargamento dell’orizzonte ermeneutico e dello sguardo gettato sul reale.
E non da meno sono i personaggi che popolano le tele di Arrivabene: dannati danteschi, coppie infernali come Ade e Persefone, corpi smembrati, ma anche salvifiche figure femminili, quali la Vergine o Minerva. Ecco allora che la dimensione del tempo pare annullarsi: l’artista mette in scena personaggi eterni, in quanto materializzazione di archetipi, che parlano in maniera silente, ineloquente, per dirla con le parole di Bernard Berenson, a chi le interroga. Osservandole, sembra di conoscere da sempre, non con la ragione ma in maniera noetica, prediscorsiva ed intuitiva, quale sia il loro tormento, la loro angoscia, ma pare, al contempo, che la risposta ultima sfugga, che non ci sia un fine escatologico più alto ma che, quasi dantescamente, ogni figura si sublimi in se stessa e nel proprio dolore, non potendo entificarsi altrimenti. E in una società che cancella il dolore e tutto ciò che sia conturbante, Arrivabene invece ci suggerisce che questo va attraversato, non rimosso perché al di fuori dei confini familiari; certo, l’attraversamento può essere abissale, ricco di traumi, ma necessario. La formazione interiore dell’uomo si pone, quindi, come un vero e proprio percorso alchemico di perfezionamento e autoregolazione spirituale, tutto tendente alla trasformazione del materiale grezzo in materiale nobile, dato che la realizzazione del Magnum Opus può essere sì materiale, ma anche intangibile e spirituale.
Nel modus pingendi dell’artista si evidenzia una costante: il dominio onnipresente del mito, come engramma psichico di una memoria collettiva che forma il presente, intessendolo di passati multipli che si incontrano e si intrecciano, secondo un’estetica e un’ottica che lo storico e critico d’arte tedesco Aby Warburg avevo chiamato Nachleben der Antike: ritorno dell’antico. Con questa espressione non si intende un ritorno all’antico solo estetico e formale, ma che sia anche gnoseologico e – soprattutto – ontologico, che attenga alla reale sfera dell’Essere e che sveli tutta la sua capacità taumaturgica.
In ultima analisi, è proprio in queste atmosfere perturbanti, enigmatiche e oniriche che l’uomo può arrivare ad attraversare la mezzanotte del proprio animo, abitata spesso da inquietanti personaggi, in cui un seducente buio prevale sulla luce senza tuttavia annichilirla, lasciandole sempre la possibilità di splendere, in un mondo in cui – ormai – sono stati uccisi tutti gli dèi. Ma l’uccisione di Apollo non sancisce la sua scomparsa: “Per aver noi spezzato i simulacri loro, per averli scacciati dai loro templi, non morirono affatto, per ciò, gli dèi” scrive il poeta alessandrino K. Kavafis, per indicare come essi abitino ancora nel nostro inconscio, in un anfratto grigio che attende di essere di nuovo esperito ed illuminato.
Riportiamo, di seguito, la trascrizione di un’intervista fatta ad Agostino Arrivabene il 23 settembre 2023, in occasione di una visita guidata alla mostra a Palazzo dei Diamanti.
D. Partiamo con una domanda, che forse è anche una curiosità personale: il tempo, nella sua opera, come si inscrive? Intendo, qual è il ruolo del tempo? E come viene vissuto?
R. Il mio tempo viene vissuto in modo decisamente relativo. Avendone molta padronanza, lo gestisco a seconda dei progetti che devo realizzare. Solitamente, il mattino è molto più dedicato allo studio e alla lettura. Lo dedico solitamente ad una colazione piuttosto prolungata, ma in quel tempo io approfitto proprio per la lettura e l’approfondimento umanistico. Poi c’è il pomeriggio… il pomeriggio è il tempo più del lavoro vero e proprio, che prosegue oltre l’orario dei pasti, anche verso la sera e la tarda notte. Quindi diciamo che c’è una dimensione quasi monastica nel mio tipo di vita. Sono molto geloso del mio tempo, infatti gli eventi che mi distraggono da quello spazio temporale che è casa mia, il mio studio, dove vivo in mezzo ai campi, in questa vecchia magione, per me è sempre più una dimensione di fastidio. Se fosse per me io sarei più per gli arresti domiciliari [risata].
D. Le chiedevo come percepisce il tempo anche perché lei si basa molto sulla classicità, quando gli intellettuali si nutrivano anche della dimensione dell’otium, visione un po’ contrapposta al mondo di oggi.
R. Esattamente, hai colto il punto giusto. L’otium non deve essere visto come un non far nulla, è quel non far nulla che porta però ad un’edificazione dell’anima, anche culturale, quasi sempre data dallo studio, dall’approfondimento anche semplicemente contemplativo. A volte io mi soffermo a guardare i miei vecchi dipinti, e ciò avviene per caso fortuito: magari passo davanti ad un quadro appeso, anche perché io ho una mia collezione, e trascorro molto tempo ad osservare il mio lavoro del passato. Questo confronto per me è importante, perché diventa anche un metodo per approdare a nuovi sviluppi pratici. Serve molto il confronto… quindi il confronto che avviene anche con il passato della storia dell’arte, avviene anche con il mio passato.
D. Ha anticipato una mia domanda perché le avrei chiesto quale sia, per lei, il ruolo della contemplazione e della memoria.
R. Eh, sì… Io, avendo anche un grande amore per lo spazio naturale, soprattutto quando viene ripulito da tutto ciò che può essere urbanistico, faccio lunghe passeggiate, per esempio la mattina presto, lungo i campi e nei boschi, appunto per avere un contatto molto forte con questa energia che è tipica della natura, che sento molto presente. E si vede nella mia pittura, dove il tema naturale è tra quelli predominanti: c’è questa interpolazione tra mondo umano e naturale.
D. Le chiedo un’altra cosa. Uno dei grandi filosofi della Grecia antica, Eraclito, parla del concetto di “enantiodromia”, una sorta di movimento dialettico degli opposti: lui asserisce che ogni opposto si nutra della sua parte mancante. Cosa ne pensa a riguardo?
R. La coincidentia oppositorum è anche il principio che porta verso la Grande Opera degli alchimisti. Quindi, è nella coincidenza degli opposti appunto che l’essere umano contempla l’Uno, l’unità. Si tratta di una unità che non si può possedere, a cui non ci si può avvicinare se non attraverso uno stato contemplativo. Il mio momento migliore della mattina, ad esempio, è l’alba, come lo è il crepuscolo verso la sera, perché c’è questo incontro degli opposti di giorno e notte, questa soffusione crepuscolare che crea un momento simbolico di totale contemplazione.
D. Secondo lei, relativamente alla sua arte, il tema della morte e del terrifico come può stimolare una riflessione? O che cosa può suscitare?
R. Beh, la morte è sempre stata una grande compagna, sin da quando ero bambino, perché entra nella mia vita esattamente con la morte di mia madre, quando io avevo quattro anni. L’incontro è stato piuttosto violento per un bambino, anche se in realtà in qualche modo ho trovato delle valvole taumaturgiche, autorisolutive, che poi sono state anche l’arte, la pittura e il disegno, come metodo per medicare la mancanza e l’abbandono. Ma la morte per me equivale, oggi, non più a una dimensione di abbandono, ma ad una dimensione di vicinanza. Io spesso mi autodefinisco “Pontefice”, cioè colui che crea ponti: arrivando a 56 anni mi sono reso conto – ci pensavo proprio stamattina – che proprio la morte mi ha permesso di identificare questo lavoro di homo faber che costruisce un ponte, non solo con la memoria della storia dell’arte, ma anche con la memoria della mia infanzia. E quindi l’arte è stato anche un metodo, un elemento, come dire… una cementificazione per cercare di collegare questa mancanza con mia madre che non c’era più. Io a volte penso che tutto il mio processo artistico è come se fosse una lettera che va per risonanza e deve arrivare all’orecchio di mia madre. Mi viene molto facile fare un paragono anche con un romanzo di Herman Hesse che amo, Narciso e Boccadoro: tutto il percorso di Boccadoro è appunto il ricongiungimento con questa figura della madre mancante che ritrova nell’immagine della Vergine che poi scolpisce. Tra l’altro, pensa che una ragazza che è stata nella precedente visita mi ha veramente colpito, dicendomi che lei fosse del parere che tutto quello che sto costruendo con la mia pittura sia un’agevolazione nel mio cammino di avvicinamento all’immagine di mia madre. Questa cosa mi ha commosso, e non l’avevo mai pensata. Quindi, a volte arrivano delle voci lontane, delle presenze, che portano un messaggio che uno ha dentro senza esserne consapevole. Tante volte è importante uno sguardo esterno, perché io sono molto concentrato su me stesso e su questo tipo di vita monacale, molto chiusa, che spesso non permette di vedere con gli occhi degli altri. Anche questa è un’occasione di confronto.
D. Le faccio la penultima domanda. Probabilmente è qualcosa che le hanno già chiesto in molti; perciò, se riesce a rispondere in maniera sintetica e lapidaria potrebbe essere più incisiva. Il mito, cos’è per lei?
R. Per me il mito è diventato un metodo per sugellare delle dimensioni arcane di qualcosa di irrisolto, appunto l’immagine della madre mancante, l’immagine della paura e della morte, della malattia… Tutte queste dimensioni esistenziali sono state sugellate attraverso metafore dal mito, che perciò diventa linguaggio per codificare attraverso un’immagine metaforica un simbolo, un racconto, che è sempre autobiografico. Ad esempio, Persefone ed Ade entrano nella mia vita durante un momento di dramma nella mia famiglia, la morte di mio padre, che muore per neoplasia, e quindi questa morte drammatica a seguito di una malattia della persona che mi ha aiutato a coltivare il mio talento sin da quando ero bambino è stata una grande perdita. Quindi, le figure di Persefone ed Ade sono entrate nella mia vita appunto per cercare di giustificare il dolore e la malattia.
D. Del resto, il mito può essere anche uno strumento identitario…
R. Persefone ero io, ma io ero anche Ade in qualche modo; quindi, sono diventati degli aghi che ricuciono delle ferite. Il mito può diventare anche occasione di ricucitura.
D. Mi viene in mente una massima di Freud in cui egli afferma, parafrasando, che i Greci sono stati i primi “analisti”, i primi, tramite il mito, a scandagliare l’interiorità umana.
R. Sì, e lo stesso è per la fiaba: è un’altra espressione che è collegata ad un linguaggio archetipico e che aiuta a decifrare delle pulsioni drammatiche legate alla vita e a momenti esistenziali, possono essere anche l’erotismo e la sessualità. Per esempio, io ricordo che durante la mia grande pulsione adolescenziale, il ratto di Ganimede diventa simbolo di questa pulsione sessuale.
D. L’ultima cosa, chiudiamo con un’altra curiosità: il mondo dei tarocchi nella sua arte entra?
R. Me lo chiedono tutti ma non l’ho mai sviluppato. Non ho mai illustrato tarocchi. Me lo chiedevano anche per la Divina Commedia e per Dante, e poi il suo momento è arrivato. Se deve arrivare, succederà lo stesso con i tarocchi.
Versione audio dell’intervista di Flavia Orsati ad Agostino Arrivabene:
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Didascalie complete delle opere inserite nell’articolo
Agostino Arrivabene Lucifero, 1997 Olio su lino, cm 60 x 50 Collezione Agostino Arrivabene Agostino Arrivabene Vergine fossile, 2020 Encausto su legno pietrificato fossile, cm 53 x 39 Collezione Agostino Arrivabene Agostino Arrivabene L’inaudibile II°, 2022 Olio su lino, cm 150 x 110 Collezione Agostino Arrivabene Agostino Arrivabene Le mosche d’oro, 2014 Olio, insetti e oro in polvere su lino trasportato su tavola, cm 44,2 x 40,5 Collezione privata, courtesy Galleria Giovanni Bonelli, Milano Agostino Arrivabene Angelo del versamento III°, 2016 Olio e foglia d’oro su tavola, cm 60 x 50 Collezione Agostino Arrivabene Agostino Arrivabene Ctesia Panax, 2012 Olio su lino, cm 73 x 56 Collezione Sergio Montoli Agostino Arrivabene Du mal II°, 2011 Olio su tela, cm 73 x 55 Collezione Michele Serini Agostino Arrivabene Il sogno di Asclepio, 2015 Olio su tavola antica, cm 74 x 127 Collezione Agostino Arrivabene Agostino Arrivabene La grande opera, 2016 Olio su lino, cm 150 x 250 Collezione Agostino Arrivabene