SUN STRUCTURES
di Francesco Treggiari
10 Feb 2014 - Dischi
Quale direzione avrebbero intrapreso i Beatles, se le loro strade non si fossero separate? Rispondere in modo definitivo potrebbe sembrare un esercizio superficiale, privo di attinenza alla realtà musicale attuale e ai cambiamenti subiti negli ultimi 40 anni. Decenni di musica pop-rock (nella sua accezione più ampia possibile) contraddistinti da innovazioni e involuzioni, da proposte rivoluzionarie e da band che hanno inseguito l’ultima tendenza dal forte accento revivalistico. Ma questa è un’altra storia… Chiedo al lettore di estraniarsi, per qualche istante, e di rifuggire dalle opportune obiezioni che si potrebbero sollevare dinanzi ad un quesito del genere; se il quartetto di Liverpool avesse resistito alle divergenze caratteriali e musicali, alla presenza ingombrante di Yoko Ono e alle tensioni esterne, ebbene, dopo questa serie di ipotesi inverosimili, cosa rispondereste? I Temples, band britannica nata nel Northamptonshire, con questo esordio sulla lunga distanza, intraprendono un viaggio a ritroso e ci conducono in una realtà parallela dove il rock psichedelico muove i suoi primi passi. Il contesto temporale è quello della Summer of love; in Inghilterra esordivano i Pink Floyd di Syd Barrett e gli Who di Pete Townshend si accingevano ad entrare in studio per registrare Tommy, la prima monumentale rock-opera della storia. Gli scarafaggi (o più correttamente coleotteri) licenziavano Sgt. Pepper’s e Magical Mystery Tour, traccia sonora dell’omonimo lungometraggio. Sun structures verrà liquidato da qualche critico disattento come l’ennesimo esercizio di stile di una band sfacciatamente retrò, ma sin dalle prime battute riesce a traghettare l’ascoltatore dove Lennon e soci avevano interrotto il loro percorso di iniziazione alla psichedelia. L’apertura è affidata a Shelter song, il brano psych-pop perfetto, incipit memorabile e manifesto della proposta sonora della band. La title-track esordisce con basso in primo piano e batteria che incede dettando la sezione ritmica, poi si abbandona a divagazioni orientaleggianti, memore della lezione impartita da Arthur Lee e i suoi Love, indimenticabili autori di uno dei più riusciti esperimenti musicali dei sixties. Keep in the dark è una pop-ballad con un ritornello che si attacca all’orecchio dell’ascoltatore sin dal primo ascolto. L’album scorre immune da cadute di stile e passi falsi, tra brani più smaccatamente power-pop, inserti di mellotron e virate improvvise verso un sound debitore al glam di Marc Bolan o all’hard rock primordiale dei Kinks. Il viaggio lisergico si interrompe con Fragment’s light, voce e chitarra in evidenza e arrangiamento minimale, l’intensità del brano è percepibile anche dall’ascoltatore più disattento e inesperto. Johnny Marr e Noel Gallagher li hanno promossi con lode. Certamente si candidano a protagonisti di un’eventuale chart, quella dei migliori esordi dell’anno musicale appena inaugurato.