Stagione lirica 2012/2013 al Teatro delle Muse
Alberto Pellegrino
20 Gen 2013 - Commenti classica
Ancona. La Stagione lirica 2012/2013 del Teatro delle Muse di Ancona si è aperta con un dittico del tutto inedito ideato dall'inventiva musicale del direttore artistico Alessio Vlad. L'11 e il 13 gennaio è andato in scena uno spettacolo di alto valore musicale e di forte impatto visivo nato dall'incontro tra il maestro dell'Impressionismo Claude Debussy (allora giovanissimo compositore di 22 anni) con la sua cantata L'enfant prodigue scritta a Roma nel 1884 e il maestro del Verismo Pietro Mascagni con il suo capolavoro Cavalleria rusticana scritto nel 1890 a soli 27 anni.
L'autore della cantata Edouard Guinand si è vagamente ispirato alla parabola evangelica del Figliol Prodigo, collocando la vicenda in un villaggio nei pressi di Nazareth dal quale il giovane Azael si è allontanato senza dare più notizie al padre (Simèon) e alla madre (Lia), la quale invoca disperata l'aiuto di Dio senza tuttavia perdere la speranza di rivedere il figlio che ritorna povero, lacero, affamato. I genitori lo accolgono felici, lo perdonano e invitano tutto il villaggio a festeggiare il ritorno della pecorella smarrita.
Il francese Arnaud Bernard, che ha curato regia, scenografia e costumi, elimina da questo Enfant prodigue ogni riferimento religioso (unico segnale un piccolo crocefisso nella penombra sopra il letto) e la trasforma in una pièce laica ambientata nel 1884 con una forte impronta freudiana (siamo nel periodo in cui Freud inizia gli studi di psicanalisi e la pratica medica). All'interno di una camera completamente nera, in un grande letto matrimoniale dorme una coppia borghese; tutto sembra assumere da quel momento le dimensioni del sogno, quando questa giovane madre si sveglia e, avvolta in una bianca camicia da notte, vede materializzarsi davanti a sè il figlio, che ha amato in modo appassionato e morboso; quindi lo abbraccia e lo ascolta rievocare un tempo per sempre perduto , un tempo della gioia e della purezza, ma anche il tempo di un impossibile ritorno. Invano trattenuta dalla madre, l'immagine si dissolve e lascia la donna nella disperazione per poi riapparire come un ectoplasma sulla grande parete nera che diventa lo schermo su cui si proiettano sia le pulsioni materne, sia la voglia di pentimento e di riscatto del figlio. Quando però il padre si appresta a festeggiare il ritorno del giovane, tutto sparisce e alla coppia non resta che ritornare nel letto-rifugio dove cercare conforto nel sonno e forse ancora nel sogno. Bernard ha condotto in porto con pieno successo questo progetto di spettacolarizzazione della cantata, grazie anche alla puntuale direzione di Carla Delfrate, cui si aggiunge l'appassionata interpretazione di Elisabetta Martorana bene affiancata dal giovane tenore Davide Giusti.
In linea con la prima parte dello spettacolo Arnaud Bernard abbandona per Cavalleria Rusticana la strada maestra del Verismo per seguire le vie tortuose della psicanalisi, mettendo in scena un'idea del tutto inedita di questa opera, che per la sua originalità segna una svolta nell'interpretazione del capolavoro di Mascagni. Il regista ha voluto sottolineare il rapporto viscerale e sensuale che lega la carnalità di un plurimo tradimento alla religiosità della Pasqua-Resurrezione del Cristo e, pur nel rispetto delle unità di luogo, tempo e azione, ha spazzato dalla vicenda ogni riferimento alla sicilianità , ai campi dalle spighe d'oro, al sole che acceca e riscalda le menti, per trasportare la vicenda in un cupo ambiente claustrofobico dove l'azione si svolge alla luce di ceri e candelabri, mentre al centro della scena domina il cero pasquale intorno al quale ruota quasi tutta la vicenda. Egli abbandona il chiuso mondo contadino di fine Ottocento per collocare la storia nei primi anni Sessanta più liberi, anche se ancora legati alle tradizioni popolari e al culto dell'onore, indicando come chiave di lettura una commistione di erotismo e sacralità che si manifesta fin dall'inizio con l'amplesso in scena tra Turiddu e Lola, subito seguito dalla presenza di Mamma Lucia che prega con il rosario in mano (elemento ricorrente per tutto lo spettacolo) dinanzi all'immagine del Crocefisso ai cui piedi è appoggiata una bicicletta, citazione di quel mondo contadino raffigurato dalla fotografia neorealista di metà secolo, prima fotografia di una serie di immagini-metafora che punteggeranno tutta la rappresentazione.
Sulla scena arriva una schiera di sacerdoti che guardano scandalizzati Santuzza giudicata una pubblica peccatrice; passa poi una lunga fila di donne che si apprestano ad arredare la chiesa per i riti della Pasqua con bianche lenzuola e con fasci di fiori bianchi, mentre il passaggio dall'esterno all'interno è segnato dal dettaglio del Vangelo con sopra un Crocefisso. Alle donne si aggiungono bambine in abito bianco e chierichetti, uomini con delle sedie, mentre alcuni sacerdoti introducono il grande cero pasquale. Con pochi elementi la scena si trasforma nell'osteria di Mamma Lucia che diventa il luogo deputato dell'azione: le donne che fanno i preparativi per la festa, l'arrivo spavaldo di Alfio, i drammatici incontri di Santuzza con Lucia, con Turiddu e infine con Alfio, con i quali si preannuncia la mala pasqua sotto una splendida foto di giovane donna che mostra la schiena nuda avvolta in un rosario (Woman with Large Crucifix di Ellen Denuto). Ricca di belle suggestioni è la notturna processione pasquale con ceri e lumini, che conduce all'interno della chiesa, segnato dalle mani giunte di alcuni chierichetti in preghiera con un crescendo luministico che trova la sua centralità nel cero pasquale, mentre all'esterno si consuma la tragedia di Santuzza condannata alla solitudine e all'emarginazione sociale.
La scena sarà dominata fino alla fine da due mani di donna intrecciate a un rosario (foto di Stèphane Barthe) e si trasforma di nuovo in chiesa con una serie di tavoli posti in croce per celebrare i riti pasquali per poi passare, senza soluzione di continuità , dal sacro al profano dell'osteria, dove appare la sensuale Lola con il suo bel vestito a fiori, dove si celebra il rito del brindisi e della sfida tra Alfio e Turiddu, dove si svolge lo struggente addio del figlio a Mamma Lucia. Una folla in chiaroscuro si raduna in attesa per accogliere sbigottita il grido di donna che prorompe dalla platea per annunciare il tragico epilogo del duello, mentre la foto delle mani con il rosario si copre di sangue. Per noi lo spettacolo termina qui, ma il regista ha voluto far morire in scena un Turiddu con la bianca camicia coperta di sangue, un tocco di contradditorio realismo in un mondo dominato da una serie di metafore, unico neo di uno spettacolo che rimane bellissimo per originalità e intensità drammaturgica.
La direzione di Carla Delfrate aggiunge spessore drammatico a tutta l'opera con punte di raffinatezza interpretativa nell'Intermezzo, che si caratterizza per una sua componente lirica di ampio respiro, mentre per il resto dell'opera si è pienamente rispettato sia il dominio della melodia voluto da Mascagni, sia la popolarità e la freschezza delle parti corali. Di buon livello la prestazione degli interpreti: la dolente presenza di Mamma Lucia (il contralto Giovanna Donadini), la sensualità arrogante di Lola (il mezzosoprano Aliona Staricova), la violenta presenza di Alfio (il baritono Gianfranco Montresor), la prorompente e giovanile passionalità di Turiddu (il tenore Kamen Chamev a volte tradito dalla troppa foga) e infine, su tutti, una splendida Santuzza interpretata dal soprano Anna Malavasi, che ha saputo fondere l'umanità e la passione, la rabbia e il dolore nel suo personaggio.
(Alberto Pellegrino)