Sandro Sansoni in mostra “Dal microcosmo al macrocosmo. Percezioni dell’indicibile”
di Flavia Orsati
9 Lug 2019 - Altre Arti, Eventi e..., Arti Visive
Anche se tardivamente Ascoli Piceno, dal 15 giugno al 14 luglio 2019, omaggia l’artista concittadino di nascita Sandro Sansoni, scomparso cinque anni fa, con la mostra “Dal microcosmo al macrocosmo. Percezioni dell’indicibile”, allestita nella Sala Cola dell’Amatrice, nel Chiostro di San Francesco. Flavia Orsati ne fa una lettura puntuale e approfondita.
«Anima mia, dove sei? Mi senti? Io parlo, ti chiamo… Ci sei? Sono tornato, sono di nuovo qui. Ho scosso dai miei calzari la polvere di ogni paese e sono venuto da te, sono a te vicino; dopo lunghi anni di lunghe peregrinazioni sono ritornato da te. Vuoi che ti racconti tutto ciò che ho visto, vissuto, assorbito in me? Oppure non vuoi sentire nulla di tutto il rumore della vita e del mondo? Ma una cosa devi sapere: una cosa ho imparato, ossia che questa vita va vissuta.
Questa vita è la via, la via a lungo cercata verso ciò che è inconoscibile e che noi chiamiamo divino. Non c’è altra via» C.G. Jung – Il Libro Rosso
È difficile narrare l’indicibile, mostrarlo all’Altro per far sì che gli anfratti di diverse solitudini comuni entrino in risonanza, filtrate attraverso il mito, la leggenda, e tutto quanto c’è di meraviglioso nel nostro mondo. Riuscirci – almeno in parte – significa fare un salto, passare dal microcosmo al macrocosmo, dall’inconscio individuale all’inconscio collettivo. Probabilmente è questo l’obiettivo che Sandro Sansoni si è prefissato per tutto il corso della sua vita artistica, il cui risultato è possibile ammirare in parte nella mostra “Dal microcosmo al macrocosmo. Percezioni dell’indicibile” aperta per un mese, dal 15 giugno al 14 luglio 2019 presso la Sala Cola dell’Amatrice, nel Chiostro di San Francesco, ad Ascoli Piceno. Si tratta della prima mostra in patria del pittore, omaggio dovuto che, finalmente, la sua città gli riconosce, sebbene tardivamente.
Nativo proprio della Città delle Cento Torri, classe 1953, Sansoni si trasferisce ad Ancona all’età di sette anni. Frequenta a Bologna il Liceo Artistico e, successivamente, l’Accademia di Belle Arti, conseguendo, poi, un secondo diploma di pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata. Insegna disegno dal vivo all’Istituto d’Arte di Ascoli Piceno e al Liceo Artistico di Ancona. Si spegne prematuramente cinque anni fa, nel 2014.
Nel corso della sua vita sarà pittore, scultore e incisore, alternando una grande competenza e perizia tecnica, contornate da una solidissima conoscenza della Storia dell’Arte e della Cultura, specie antica, greca e rinascimentale, un po’ per studi e un po’ per inclinazione, a una problematicità tipicamente moderna e contemporanea; il Classicismo, su cui si basa la civiltà occidentale, e le sue riprese, vengono interpretati in maniera originale, uniti ad un amore incommensurabile per la Natura, intesa propriamente come Madre Terra, entità femminile, vivificata da elementi primordiali, in un afflato panico e dionisiaco che sfocia nella luce, nella commistione con il sacro e l’etereo. Costante, nella sua opera, è il senso dell’innalzamento, dell’elevarsi verticalmente verso Dio, per andare ad incontrare e scoprire il mistero che ci circonda. Il misticismo di Sansoni è sicuramente manifesto: nelle sue opere traspare il senso di immensità del mondo, del visibile e dell’invisibile, della dimensione mitica, nella quale la questione del credere o meno perde di spessore gnoseologico, essendo i miti veri di per sé in quanto annoverabili ad una categoria ontologica che prescinde dal reale. Sansoni, in bilico tra lo stupore degli antichi e il moderno scetticismo ad oltranza, ha intelligentemente capito che ciò che va indagato non è la fattualità della verità in sé, ma il suo lato simbolico – in ultima analisi archetipico. Proprio come per i miti e le leggende. L’atmosfera che si respira nelle sue opere è onirica e surreale, sovrabbondante di significato rispetto al significante, come se ogni mistero immortalato ne celasse una moltitudine dietro. Si è lontani dall’astrattismo, tutto è fortemente e plasticamente definito in senso figurativo, specie le figure umane, ma anche in senso figurale: c’è un forte sostrato di consapevolezza psicanalitica dietro ai dipinti di Sansoni e, se è vero che i Greci sono stati i primi ad aver preceduto Freud, tutte le pulsioni umane, anche le più nefande ed aberranti, sono sublimate artisticamente come stimolo morale per chi guarda, nell’ottica che anche la corporeità può portare ad attingere la Conoscenza, come spiegato da Julius Evola, conscio del fatto che la conoscenza dei Misteri, nelle Età del Ferro e del Bronzo, sia possibile solo attraverso l’erotismo e la fisicità. Nella sua attitudine di prodigioso disegnatore (sebbene il virtuosismo illusionistico non gli appartenga), Sansoni ha saputo cogliere e trasmettere i lati seduttivi dell’illusorietà del disegno, in un processo senza filtri che fa passare l’immagine mentale direttamente alla mano operante, senza sovrastrutture o rielaborazioni, che allontanano il vero nucleo della ricerca.
Dai suoi lavori emerge una vera e propria visione del mondo, o Weltanschauung, non dell’immanenza ma della trascendenza; tutto questo non è stato puro vezzo artistico, ma profonda preparazione interiore, per lui e per gli altri, per un viaggio, per l’ultima Odissea, che sapeva, prima o poi, si sarebbe trovato ad affrontare. In quest’ottica, l’uso del disegno, dei pennelli, delle matite, dello scalpello e di tutti gli altri arnesi del mestiere sono stati solo un mezzo, senza mai parvenze di fine, accompagnati, a volte, da un’indifferenza di matrice orientale o dalla perfezione del filosofo greco che ha raggiunto atarassia e apatia.
Principio cardine che ha accompagnato il suo modus operandi è stato quello zen della comunione degli opposti, compiuta potentemente attraverso l’uso di coppie cromatiche e simboliche opposte, volte a destare sensazioni vive, considerando che il contenuto, alla fine, è sempre più denso rispetto a quello che una singola opera può veicolare. Nella difficile interpretazione dei quadri sansoniani, bisogna entrare in atmosfera, unico modo per comprendere il messaggio metafisico che si cela dietro di loro. L’Arte viene vista, dunque, come un percorso di ricerca interiore verso la conoscenza di sé e la trascendenza, unico modo per elevarsi e raggiungere l’Oltre, preparazione a ciò che verrà poi. La visione è tradizionale, ricca di citazioni colte, ma Sansoni è quanto più di lontano ci sia dal Manierismo: i personaggi dei miti antichi, greci o babilonesi, si muovono in un arcadico e onirico orizzonte che si riconferma del tutto simbolico e ultramondano.
Nel quadro (esposto in mostra) L’unione fra spirito e animaben si scorge il senso taoista dell’unione degli opposti, maschile e femminile, yin e yang, caldo e freddo. Prendendo per buona la suddivisione di R. Steiner fra corpo, anima e spirito, per cui l’anima è ciò che dà significato all’esperienza corporea, mentre lo spirito coglie in modo imparziale il significato intrinseco delle cose, qui, al cospetto di un’algida montagna ghiacciata e di un infuocato Albero della Vita, i due elementi si fondono in una cosa sola. L’unione fra i due, ad ogni modo, avviene in maniera fisica e corporea: i corpi fluttuanti dei giovani che si uniscono in una sensuale stretta provengono l’uno dal monte e l’altro dal suo contrario, la caverna, risvegliando insieme la Kuṇḍalinī, energia sopita e latente presente in ogni essere umano, rappresentata canonicamente come un serpente avvolto su di sé alla base della spina dorsale; proprio le fattezze ofidiche sono ricordate, tra l’altro, dall’albero/fiamma, calore del corpo e del sangue che spicca nella freddezza circostante.
Sansoni e l’archetipo montano come elevazione
Dall’alba dei tempi, e praticamente in tutte le culture che vi sono entrate in contatto, l’elemento montano ha sempre rimandato al Sacro, all’elevazione, fisica e metafisica; la montagna è stata vista, dunque, come un ambiente incutente timore, da guardare con riverenza dal basso prima, da sfidare con ogni mezzo poi. Sono molte le opere di Sandro Sansoni dove il Monte – inteso come iconema – viene rappresentato, carico di tutto il portato simbolico e delle stratificazioni culturali che esso reca in sé. Il sunto della sua opera potrebbe essere rappresentato da un dipinto (purtroppo non presente in mostra) intitolato I Monti Gemelli che, oltre ad essere il nome di due alture al di sopra di Ascoli, agglutinano tutta la sapienza tipica della terra picena, che si consustanzia in due poli: il montano inteso come principio assiale maschile e l’acqua, intesa come principio vitale femminile, sempre alternati o raffigurati dal pittore in concomitanza, poiché solo la loro unione porta alla Conoscenza. Nel dipinto si scorge chiaramente un mare, di un blu scuro e acceso, contrapposto a un cielo incendiato di rosso, dal quale (ri)sorge una figura, che sia angelo, spirito santo o araba fenice. Da qui, va da sé che esista un isomorfismo tra il simbolismo del volo, dell’ala, e quello della verticalità propria dei monti, che qui sembrano essere sua filiazione diretta, ergendosi al centro della scena. Il tutto è supervisionato dagli occhi penetranti di una figura femminile, uno spirito che ammanta tutto il mare, che sia una Sibilla (intesa come archetipo di Sposa celeste) o una delle Grandi Madri venerate in età pagana, comunque personificazione del principio cosmico dell’Eterno Femminino. Verso le due montagne si dirige un vascello, forse legno dantesco, metafora di conoscenza, possibile non totalmente in acqua, nella orizzontale dolcezza dell’oblio del liquido amniotico, ma solo dirigendosi verso la terra ferma. Proprio la direzione gioca un ruolo fondamentale: ha notato l’antropologo G. Durand in un rivoluzionario saggio del 1960, Le strutture antropologiche dell’immaginario, come anche gli archetipi junghiani abbiano una direzione e come le “metafore assiomatiche” dell’immaginario, ovvero quelle che regolano i movimenti cinetici e il verso degli archetipi, che non sono un punto fisso e fermo ma si muovono nello spazio, siano il punto di partenza psicologico per una classificazione dei simboli:
Lo sciamano, scrive Eliade, arrampicandosi sui gradini del palo, «stende le mani come un uccello le ali» – a riprova del vasto isomorfismo tra l’ascensione e l’ala […] e, arrivato in cima, grida: «Ho raggiunto il cielo, sono immortale», sottolineando così quella che è la preoccupazione fondamentale di tale simbolizzazione verticalizzante, prima di tutto scala drizzata contro il tempo e la morte.
Per cui, la barca che vaga nel mare aperto, finita la sua odissea, simboleggia l’uomo che vuole staccarsi, uscire dalla ruota dell’eterno ritorno dell’uguale, dal saṃsāra delle tradizioni orientali. La Sapienza, come scalata simbolica della Montagna Sacra, unita al femminile, è l’unico modo per giungere ad essa.
Passando ad altre delle opere in mostra, un’altra nave che si dirige verso il monte è quella del dipinto Verso l’isola dei Beati, che ricorda un po’ l’Isola dei Morti dello svizzero Böcklin: la morte è vista come fine ultimo, sollevamento del velo e svelamento del mistero, liberazione e beatitudine, raggiungibili unicamente dalla montagna intesa come axis mundi, pilastro cosmico e scala tesa verso il cielo. E in Sansoni e nella sua grande cura simbolica niente è a caso. Curioso notare come, in una citazione courbettiana de L’origine della vita, quest’ultima non provenga dal corpo femminile, ma proprio dalla montagna. In effetti, guardando meglio, si vede come la perfezione dell’altura rappresentata non possa produrre che vita: un sentiero si apre tra gli alberi a valle, sale verso la cima e sembra entrarvi dentro, come a farne parte, ricordando le sinuosità e le convessità del femminile, mentre la vetta, maschile, si staglia virile contro il cielo, poiché nell’immaginario montano la perfezione è data dall’unione della vetta e di una cavità, che è ventre e cuore del massiccio del quale va a fare parte.
Grande importanza all’elemento femminile – sibillino è data nell’opera Sophia. Quella del blu è l’unica gamma cromatica sulla quale il dipinto è costruito – il blu della Divina Sophia di Klein, della Sapienza Celeste. Una strada si dirige verso i monti, sullo sfondo, verso l’unico elemento di un colore caldo: un’apertura nel Monte, una grotta, ricettacolo di perfezione e sapienza; sulla stessa linea assiale, sopra caverna e picco più alto, il volto di una bellissima e misteriosa donna, circondato da un’aureola ovoidale di stelle, con lo sguardo assorto nel suo vaticinio. Ovviamente, il dato contingente raffigurato sulla tela può essere usato come exemplum per un discorso ben più ampio: il mitema sibillino, per molto tempo dimenticato, è sempre stato forte nella terra originaria di Sansoni come genius loci, presente inconsciamente nell’immaginario collettivo. La Sibilla Appenninica (a cui l’artista ha anche, tra l’altro, dedicato una splendida acquaforte) è una figura che concentra su di sé una grande potenza simbolica: sacerdotessa rinchiusa sulla grotta presente nel monte a cui dà nome, può essere considerata puro Simbolo, che poi la si voglia chiamare, di volta in volta, Cibele, Dea Cupra, Magna Mater, Bona Dea poco conta. Chiusa nella grotta collocata su un’altura, nel suo regno magico, vaticinava il futuro e rendeva noto il passato, le origini. le radici, il legame con la Terra. Elementi dei quali Sansoni è stato alla strenua ricerca tutta la vita. La caverna, poi, può essere considerata come Sacro Graal o Coppa Alchemica, che porta alla realizzazione del Magnus Opus. Tuttavia, la Grande Opera, la trasformazione dei metalli in oro tanto ricercata dall’alchimia, in montagna viene trasfigurata come elevazione metafisica ed esperienziale verso l’alto, possibile solo da punti sopraelevati, per cui la sapienza profonda viene sublimata in un’esperienza mistica non più ancorata al fenomenico. La Sibilla, dunque, come archetipo, si libra nel cielo, con vago ricordo delle Amalassunte liciniane, avendo raggiunto la Perfezione spirituale: dal ventre della terra alle infinità celesti.
A rendere esplicita la concezione di Sansoni dell’iconema e dell’archetipo montano, comunque, è il pittore stesso: ne La montagna sacra si evince la circolarità che si spezza dell’eterno ritorno dell’uguale, spirale dello spirito che nasce dal monte e si spegne in cielo, verso il sole, riprova di come la vita nasca dai monti e tenda ad essi.