Sam Peckinpah grande protagonista del cinema americano


di Alberto Pellegrino

4 Mar 2025 - Approfondimenti cinema

In occasione del centenario dalla nascita del grande regista americano Sam Peckinpah, Alberto Pellegrino analizza l’opera cinematografica del grande innovatore del cinema degli anni Sessanta/Settanta.

Ricorre il centenario della nascita di Sam Peckinpah, autore di un cinema demoniaco, perverso, violento che ha trasformato in epopea il degrado e il disfacimento della Frontiera americana, dove vincitori e vinti sono accomunati dallo stesso destino. Egocentrico, anarchico, alcolista, egli rimane il più grande innovatore del cinema degli anni Sessanta/Settanta perché, con il suo talento, ha costretto lo spettatore ad assistere a scene infernali che rappresentano il disfacimento della dimensione umana in un continuo conflitto tra valori e ideali, tra corruzione e violenza in un affresco della società in cui i personaggi sono dei perdenti costretti ad accettare  ogni tipo di compromesso per sopravvivere in un mondo dominato dal nichilismo e dalla brutalità.

David Samuel Peckinpah detto Sam (1925 – 1984) è stato un regista e sceneggiatore considerato il principale rinnovatore del western per il suo stile rivoluzionario caratterizzato da una connessione di lirismo fantasioso e violenza realistica, da una capacità di conferire ai personaggi una particolare profondità psicologica, da una sensibilità e creatività che hanno consentito di girare degli autentici capolavori cinematografici.

S’iscrive alla Fresno State University (1947-1949) e alla University of Southern California (1949-50) per studiare arte drammatica; si diploma nel 1950 e inizia a lavorare per la televisione, scrivendo e dirigendo alcune serie western. Entra nel mondo del cinema come sceneggiatore e aiuto-regista di un mitico film di fantascienza L’invasione degli ultracorpi (1956). Nel 1961 debutta finalmente come regista, iniziando un percorso artistico che lo farà diventare il simbolo di un cinema aggressivo e anticonformista spesso contestato dalla critica statunitense, ma valorizzato dalla critica europea che ha visto nelle sue opere un rinnovamento e un’evoluzione del cinema capace d’incidere sull’immaginario collettivo del secondo Novecento grazie a una figuratività iperrealistica e barocca, politicamente scorretta in linea con gli ideali libertari del “Sessantotto”.

L’inventore del post-western

Peckinpah diventa il “profeta” di un nuovo western capace di evidenziare il lato oscuro del mito americano della Frontiera, un cinema che si presenta come un affresco dai toni epici e nostalgici, segnato da una brutalità che indica il disfacimento fisico e morale di una società non più abitata da eroi, sostituiti da personaggi tormentati o crudeli. Il regista impone un suo stile caratterizzato da un montaggio frenetico e frammentato, dall’impiego quasi maniacale il ralenti per favorire la destabilizzazione e la catarsi dello spettatore, dalla rappresentazione di una violenza che non ha precedenti nel cinema statunitense e che spiana la strada alla “Nuova Hollywood”. Peckinpah, a proposito della violenza, ritiene sbagliato e pericoloso non riconoscerne la presenza nella natura umana: “Tutti mi vogliono inchiodare alla violenza. Pensano che l’abbia inventata io. Pensano che la mia opera riguardi solo la violenza. Pensano che io goda quando nei miei film la gente viene decapitata dalle esplosioni. Sono stanco fino alla nausea di questo argomento… La violenza che è in tutti noi deve essere espressa costruttivamente, altrimenti ci distrugge… l’antica struttura della catarsi era la purificazione delle emozioni attraverso la pietà e la paura. La gente andava a vedere le tragedie di Euripide e Sofocle e degli altri greci; gli attori recitavano e gli spettatori vivevano la situazione con loro. Cosa c’è di più violento dei drammi di Shakespeare? E l’opera? Cosa c’è di più sanguigno di un’opera romantica?… Questi drammi, opere, storie erano dei divertimenti popolari dell’epoca. Per far vedere veramente la violenza agli spettatori d’oggi, bisogna sbattergli il muso dentro. Tutti i giorni in televisione vediamo guerre, uomini che muoiono, ma non ci sembra reale. Non ci sembra gente vera. Siamo tutti anestetizzati dai mezzi di comunicazione di massa”. Spesso Peckinpah adotta uno schema classico del western inventato da John Ford fin da Ombre rosse (1939): la presenza di un eroe positivo contrapposto a un eroe negativo; un omicidio che genera odio e desiderio di vendetta; la minaccia indiana; la sconfitta del “cattivo” e il riscatto dell’eroe che trova anche l’amore. Il regista introduce in questo universo un pessimismo derivante dal prevalere della forza distruttiva dell’uomo; il simbolismo di una civiltà disgregata, dove si scontrano istinto di morte e istinto di vita; un viaggio-odissea che non approda a nulla o si conclude con una reazione liberatoria contro ogni violenza e ingiustizia. Peckinpah reinventa l’epopea del West e diventa il padre di un post-western contrassegnato da un nuovo impiego degli antichi topos (l’assalto, l’assedio, la fuga e l’inseguimento, l’agguato, il duello, la morte). Accusato di sadismo, immoralità, antifemminismo e fascismo, questo autore è stato in realtà un liberal al di fuori degli schemi tradizionali, capace di disegnare personaggi femminili che hanno un rilievo pari a quelli maschili; orientato a usare la violenza come un’esplosione liberatoria che mira non solo alla catarsi dello spettatore, ma esorta a prendere coscienza delle pulsioni che determinano le azioni degli esseri umani.

I primi western

Il primo film western, La morte cavalca a Rio Bravo, (1961), è attraversato da un cupo desiderio di vendetta, da un senso angoscioso della vita che solo alla fine sfoceranno nel perdono, nell’amore e nella redenzione del protagonista. Lo segue Sfida nell’Alta Sierra (1962) che porta nel western una ventata di novità con la storia di due anziani sceriffi che vivono un’avventura segnata da atmosfere crepuscolari e da momenti di realistica violenza. Il regista si propone di affrontare due grandi temi dell’esistenza: come invecchiare e come morire. Immersi in una selvaggia e cruenta conflittualità, i due protagonisti mantengono il loro spirito guerriero che non vuole adeguarsi ai tempi poco eroici di un West dove tutto sta cambiando, per cui l’unico rifugio è un’amicizia virile e solidale costretta a confrontarsi con il mondo violento dei minatori, dal quale emerge la figura di Elsa, una ragazza piena di energia vitale, destinata a unirsi in matrimonio con un uomo spietato e dedito all’alcol che vuole dividerla con i suoi quattro fratelli. I due cavallereschi cow boy riescono ad annullare il matrimonio, ma scatenano l’odio dei cinque energumeni fino allo scontro finale che porterà alla morte di uno degli eroi, mentre la ragazza potrà rifarsi una vita con un onesto coetaneo. In un mondo senza onore e pietà spiccano le figure di questi due anziani combattenti di stampo hemingwayano che hanno ancora voglia di battersi contro la sopraffazione e l’ingiustizia

Nel 1964 Peckinpah dirige Sierra Charriba, un film ambizioso e di enormi proporzioni, tagliato e massacrato dalla produzione, dove sono già presenti tutti i presupposti che porteranno a futuri capolavori: la nostalgia che diventa disperazione; le frustrazioni individuali e collettive che sfociano in una violenza furiosa e in un bagno di sangue, che coinvolge inseguitori e inseguiti, patrioti e banditi, bianchi e pellerossa. Al centro della vicenda c’è un reparto dell’esercito statunitense che viola ogni regola per esaltare quel vitalismo che considera la morte la prova suprema per dare un significato alla propria vita di essere umani tormentati da fantasmi storico-esistenziali, i quali si trovano coinvolti in scontri sanguinosi con i nativi pellerossa, l’esercito francese, i rivoltosi messicani, gli ultimi superstiti del Sud sconfitto. Nonostante le apparenze, questa opera è la negazione della “guerra di civiltà” considerata un mezzo per risolvere le contraddizioni sociali; è l’espressione di un antimilitarismo che vuole fare da contrappeso a un abnorme uso della violenza. A capo di un drappello di disperati c’è il maggiore Amos Charlie Dundee, tormentato da una colpa di cui non si conoscerà mai la natura, un uomo tragico e fanatico, divorato dall’autoannientamento e da uno straziante istinto di morte, che appare a volte un eroe, a volte un criminale, a metà strada tra un gigante in uniforme e un assassino che perseguita i propri nemici, che trascina nel fango la bandiera per la cui dignità dice di battersi. Intorno a lui ruotano gli altri personaggi: Teresa che cerca di dargli un po’ d’amore; il tenente sudista Tyreen di origini irlandesi che si sente estraneo alla terra e alla bandiera per cui si batte; lo scout Potts che riassume tutte le contraddizioni dell’uomo di frontiera, amico degli Apaches e dei bianchi, selvaggio e integrato, diviso tra il fanatismo del maggiore e il nichilismo di Tyreen. Tutti sono vittime di una “scissione della personalità”, di un’alienazione legata a paure e tensioni profonde. Solo gli indiani, che si battono con la stessa violenza delle “giacche blu” e degli altri “bianchi”, hanno la giustificazione di difendere la loro terra e la loro cultura. 

Il ciclo dei capolavori

Nel 1969 Peckinpah realizza Il mucchio selvaggio, un film considerato uno dei migliori western della storia del cinema, dove si raccontano le vicende di un gruppo di ex militari divenuti degli spietati banditi e impegnati in una guerra “di tutti contro tutti” costellata di stragi sanguinarie che coinvolgono colpevoli e innocenti. Questo “mucchio selvaggio”, guidato da Pike Bishop, è costantemente in lotta contro i sicari ingaggiati dalle Ferrovie al comando di Deke Thornton un ex collega e amico di Bishop, l’esercito americano, la cavalleria francese, le truppe federali del generale Mapache, le truppe ribelli di Pancho Villa, i partigiani messicani in un mondo dominato da rapine, agguati, omicidi, tradimenti e stragi sanguinose, dove non vige nessun codice etico. Peckinpah, con una efficace sceneggiatura, riesce a dominare una storia complicatissima, affollata di personaggi, sostenuta dal ritmo forsennato delle inquadrature e del montaggio, dall’uso esplicitamente narrativo del ralenti. Tutti i personaggi si muovono in un clima dominato dal principio della lotta, segnato da una amarezza e ironia che servono a mitigare la psicosi di una ostinata e sanguinaria violenza, a cui si aggiunge un senso del fallimento che tormenta uomini disadattati e sopravvissuti all’epoca d’oro della Frontiera, dei perdenti alla deriva e devastati da un presentimento di morte, di fronte al quale reagiscono con una spregiudicata e furibonda aggressività che sfocia in scontri dalle dimensioni apocalittiche che travolge vecchi e bambini innocenti, militari e civili. Persino le donne, anonime prostitute o soldaderas, sono oggetto di violenza o dispensatrici di morte in un universo dominato dall’odio che mette tutti alla pari in una tragica “normalità” dominata dalla solitudine, degradazione, tortura e morte. Questo western “sporco” cancella il mito di un’America nobile e felice, il sogno di una ferrovia civilizzatrice, il destino di eroici soldati che sono diventati dei banditi amorali ed egoisti. Le ragioni patriottiche della nazione statunitense sono corrose da una conflittualità endemica e sono sostituite dalla condanna di un’America divenuta un “Paradiso perduto” che rimpiange la primigenia purezza del suo popolo, che assiste impotente alla frantumazione del leggendario West, dove la brutalità del presente cancella l’eroismo d’un tempo per proporre una nuova visione (“Bisogna ragionare col cervello – dice Bishop – le pistole non bastano più”) in chiave decisamente antimilitarista.

Da quel momento Peckinpah inanella una serie di capolavori a cominciare dal film La ballata di Cable Houge (1970), nel quale si diverte a dare il senso e il ritmo della commedia: “Si tratta di una nuova versione de Le Mosche di Sartre…È la storia di un uomo che sfida gli dèi, e quando si sfidano gli dèi se ne sopportano le conseguenze. Dato che si svolge nel deserto, posso riassumere il film dicendo che si tratta di una storia di dèi, d’amore e d’acqua. È certamente un western, ed è anche… una commedia e una storia d’amore”. Abbandonato nel deserto da due inaffidabili amici, Cable Hogue sul punto di morire trova un sorgente sotterranea e costruisce intorno ad essa la sua fortuna, il suo amore per l’ex prostituta Hildy fino alla morte causata da un incidente automobilistico, quando la bandiera americana sarà simbolicamente ammainata e gli animali del deserto riprenderanno possesso della piccola oasi di “Cable Springs”.

L’ultimo buscadero (1972) è un western “moderno”, interpretato da uno splendido Steve Mc Queen nel ruolo di Junior Bonner, un cow boy professionista che si guadagna da vivere cavalcando nell’arena cavalli selvaggi e i tori infuriati, girovagando per l’America in cerca di un rodeo, un’antica gara fra cow boy che è diventata uno spettacolo per attirare il turismo di massa, una parodia del leggendario West, opera di una società industriale nella quale suo fratello minore Curly si è perfettamente inserito, acquista e vende terreni lottizzabili compresa la proprietà della casa di famiglia che viene stritolata da un enorme bulldozer, costringendo il vecchio padre Ace a partire per l’Australia per riscoprire l’antico mestiere del cercatore d’oro. Junior continuerà la sua vita errabonda ma prima deve regolare un vecchio conto con la città natale, dove si celebra un famoso rodeo e si rivolge al più potente allevatore del posto per poter domare il toro Sunshine, una bestia furiosa che ha disarcionato 29 cow boy e che per Junior è una specie di ossessione al pari di Moby Dick: restare in groppa per otto secondi consecutivi di questo mostro significherebbe per lui non solo guadagnare una grossa somma, ma vendicare una precedente sconfitta. Junor riesce nell’impresa, regala la somma vinta al padre che parte per l’Australia, mentre lui continuerà con muta e malinconica rassegnazione a essere uno degli ultimi cow boy, simbolo di un mondo rurale ormai fatiscente.

Patt Garret e Billy Kid (973) è un altro grande western di un autore che ritorna sul tema della vecchiaia e della giovinezza, dell’amicizia e del tradimento: Patt Garret, un ex bandito compagno di Billy Kit, ha deciso di passare dalla parte della legge ed è diventato uno sceriffo impegnato a dare la caccia al suo ex amico. Nel reinterpretare un’antica saga popolare, il regista fissa con estrema accuratezza le atmosfere drammatiche che fanno da contenitore dello scontro mentale e fisico tra l’uomo della legge, che ha chiuso i conti con il passato e vuole invecchiare in pace, e il giovane bandito che, alla maniera degli antieroi di Peckinpah, si batte con spavalderia per la libertà di chi non vuole essere un perdente. Siamo nel Nuovo Messico e precisamente nel 1881 a Fort Summer, il palcoscenico su cui giostrano sbandati, banditi, prostitute per celebrare riti sanguinosi e violenti, dove anche i bambini sono “crudeli” e il potere è simboleggiato dalla selvaggia ferocia dei grandi allevatori. La tragedia passa prima nell’assedio di Billy in una casa circondata dallo sceriffo e dai suoi uomini; quindi, si consuma quando il giovane vive una notte di passione con una prostituta di nome Maria. Garret aspetta che il ricercato goda questi ultimi momenti di felicità, poi lo uccide a sangue freddo quando esce seminudo e disarmato. Dopo avere impedito che il suo corpo sia sfregiato, lo sceriffo si guarda in uno specchio e spara contro quel fantasma indigesto, quindi lascia il forte, mentre un bambino messicano lo prende a sassate con impresso sul volto l’odio contro la Legge.

Voglio la testa di Garcia (1974) è l’ultimo western di un Peckinpah con una vena ormai in esaurimento ma capace di mettere in scena nella campagna messicana una storia dalle atmosfere febbrili nel segno della vendetta, dell’avidità e dell’omicidio. Il protagonista Bennie partecipa con altri killer alla caccia di un certo Alfredo che ha messo incinta la giovane figlia di El Jefe, un ricco e onnipotente fazendero messicano, il quale ha stanziato una grossa taglia in dollari per vendicarsi del seduttore e avere la sua testa come prova della compiuta missione. Questo macabro dramma si svolge coniugando commedia nera, film d’azione e tragedia, mettendo al centro il personaggio di Bonnie che vuole sconfiggere il disegno infernale di un signorotto feudale con l’aggressività e la violenza usate come armi per riscattare una vita miserabile, avendo al fianco come compagna una prostituta indigena di nome Elita. Un ruolo fondamentale ha la testa –feticcio del defunto seduttore, che diventa la prova per riscuotere la taglia. La cupidigia per il denaro scatena una caccia all’uomo di cui sono vittime i due protagonisti assaliti da due killer che feriscono Bonnie e uccidono la sua ragazza. Allora l’uomo insegue e elimina i due assassini, fa strage dei mandanti dell’operazione, penetra nell’Hacienda del magnate messicano e, su istigazione della figlia, lo uccide insieme a gran parte delle guardie, ma i superstiti lo uccidono. È la conclusione di un western crepuscolare e violento, dove le moto e le automobili, hanno sostituito i cavalli, il segno del tramonto “apocalittico” di un’epopea vista con il pessimismo tipico dell’autore, in questo caso stemperato dagli stilemi del melodramma.

Peckinpah abbandona momentaneamente il western per creare due film importanti

Abbandonato dalla Warner Brothers, Peckinpah si trasferisce in Inghilterra per dirigere Cane di paglia (1971), uno dei suoi film più cupi e psicologicamente inquietanti, interpretato da Dustin Hoffman nel ruolo di David Sumner, un timido professore di matematica che lascia gli Stati Uniti per insegnare in un college e alloggiare nel villaggio natale di sua moglie Amy in Cornovaglia. Il risentimento della gente del posto per la presenza di David cresce lentamente fino a raggiungere un climax di sconvolgente violenza, quando il mite intellettuale è costretto a difendere la sua casa. Peckinpah ha scritto la sceneggiatura ispirandosi al saggio The Territorial Imperative di Robert Ardrey, dove sostiene che l’uomo è un  carnivoro che lotta istintivamente per il controllo del territorio; l’altra opera di riferimento è stata Il cosiddetto male di Lorenz, il quale elabora una teoria sull’aggressività dell’uomo determinata da un determinismo che a volte spinge l’individuo a uscire dalla condizione umana per il riemergere  dell’animalità che spinge ognuno a praticare l’etica tribale della forza. Si spiega così come un pacifico intellettuale rispettoso delle norme sociali ceda allo scatenarsi della violenza vista come un rito sacrale e demoniaco. David Sumner è schernito dagli abitanti del villaggio che lo considerano un invasore del loro territorio fino a quando la sua violenza repressa si scatena come risposta a una violenza esaltata dagli attaccanti che assediano la sua casa. Una volta attaccato, l’uomo reagisce con l’intelligenza e con quella forza bruta che emerge dal profondo quando un essere umano sente minacciata la propria sopravvivenza. I due coniugi vivono un periodo di “freddezza”, perché la giovane moglie dal sangue caldo ama essere ammirata, ha un atteggiamento sessualmente ambiguo e velatamente provocatorio anche con i quattro bruti che lavorano in un garage. Mentre il marito è impegnato in una battura di caccia da alcuni complici di Charlie, questo ex corteggiatore di Amy entra in casa e la ragazza gode la nuova esperienza di essere posseduta con la forza, ma poi deve subire l’umiliazione di essere violentata da un compagno del suo amico. Quando il piccolo e occhialuto professore accoglie in casa un povero giovane disadattato e perseguitato dai giganteschi contadini britannici, si batte contro di loro su un piano di parità grazie a strategie dettate da un’astuzia che si contrappone alla forza bruta contro la quale si ribella per ragioni umanitarie e per opporsi alla violazione della sua abitazione: “Questa casa è mia, è parte di me e non permetterò nessuna violenza a ciò che è mio”. David uccide a uno a uno gli assalitori con modi feroci e costringe la moglie, che vorrebbe arrendersi e fuggire, a battersi con lui e sarà lei a uccidere l’ultimo assalitore. Conclusasi la tragedia, David sembra soddisfatto del suo comportamento anche se non sa se potrà ritrovare la sua precedente “innocenza”. Al suo apparire il film ha diviso profondamente la critica: alcuni lo hanno considerato una celebrazione misogina e reazionaria della violenza; altri lo hanno giudicato un’opera d’arte che analizza le cause scatenanti della ferocia umana e delle sue tragiche conseguenze.

Peckinpah lascia il terreno conosciuto del West e affronta una nuova avventura cinematografica dirigendo Getaway! (1972), un thriller poliziesco interpretato da un grande Steve McQueen affiancato da una grintosa e sensuale Alì MacGraw, protagonisti di una storia di fughe, inseguimenti in auto e sanguinose sparatorie. Doc McCoy sta scontando una pena per rapina e ottiene di essere rimesso in libertà per l’intervento di Jack Beynon, un ricco, potente e corrotto uomo politico, presidente della commissione per il condono e la libertà vigilata, il quale architetta insieme a Doc una nuova rapina in banca eseguita con professionalità. Doc scopre che la moglie ha avuto un rapporto sessuale con il magnate, al quale Carol spara a bruciapelo e giura al marito di aver tradito solo per amore. Ora che sono in possesso dell’intero bottino, i due si danno alla fuga inseguiti dagli altri criminali che hanno partecipato alla rapina, dopo una serie di apocalittiche sparatorie, nelle quali soccombono tutti i nemici, Doc e la moglie riescono a espatriare in Messico. Il primo tema del film è il rapporto d’amore che lega i due coniugi dopo separazioni, sospetti e tradimenti. Il secondo tema riguarda l’abilità di Doc nel gestire la rapina, nell’organizzare la fuga, nel fronteggiare la violenza, pur restando un perdente che segue un proprio codice d’onore tale da renderlo diverso dal mondo legale e dal mondo criminale. Inoltre, l’uomo ha come compagna ideale una donna eccezionale e affascinante, energica e disinibita, che rappresenta la risposta del regista alla frequente accusa di misoginia smentita anche da altre donne dei suoi film che hanno sempre un peso rilevante e convincente. Dopo la sequenza-feticcio della violenza, il regista sceglie di chiudere con un “lieto fine” nel segno dell’ironia: i due fuggitivi riescono a salire su uno scassato furgone guidato da un vecchietto, al quale donano 30 mila dollari per quel trabiccolo con cui corrono verso la libertà. È il ribaltamento del topos della “coppia maledetta” alla Bonnie e Clyde che attraversano l’America della Grande depressione mossi da una pulsione di morte che li spinge a lasciare dietro di loro una lunga scia di sangue. Doc e Carol non sono degli aspiranti suicidi, ma degli emarginati che vivono in un mondo di belve spinti da un sano istinto di conservazione. Il Messico è la loro terra promessa dove poter condurre una vita nel segno della ricchezza e della tranquillità. Peckinpah rinuncia al suo tragico catastrofismo per esaltare una contro-violenza che porta alla vittoria chi rinuncia a combattere contro la tronfia società del benessere per ritagliarsi una nicchia dove un nuovo tipo di perdente possa vivere “felice e contento” dopo essere sfuggito alla morte e avere recuperato una sua primordiale innocenza. È la fine di ogni speranza di rivolta dell’anarcoide Peckinpah ed è il definitivo annientamento di un’epopea, un punto di non-ritorno nel segno di un egocentrismo e di un odio antisociale che avvicina il regista al francese Céline. Con alcuni film mediocri si chiude il ciclo di un autore che ha esaurito la sua spinta creativa, ma che  rimane il protagonista di una stagione innovativa entrata nella storia del cinema, che ha influenzato registi di assoluto valore come Martin Scorsese, Walter Hill, John Milius, Oliver Stone, Michael Cimino e Quentin Tarantino.

Sam Peckinpah nel 1968
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