Rocco Scotellaro a cento anni dalla nascita


di Alberto Pellegrino

25 Set 2023 - Letteratura, Libri

In occasione del centenario dalla nascita, Alberto Pellegrino ci presenta la figura del poeta e scrittore Rocco Scotellaro, uomo impegnato politicamente, appartenente alla grande letteratura meridionale della prima metà del ‘900.

Rocco Scotellaro (1923-1953) è un poeta e scrittore che appartiene alla grande letteratura del Mezzogiorno iniziata a partire da Verga, Capuana e Federico De Roberto, sviluppatasi con Francesco Jovine con i due grandi romanzi La signora Ava (1942) e Le terre del Sacramento (1950), Corrado Alvaro, Il canto dei nuovi emigranti del poeta calabrese Franco Costabile tradotto in un mirabile racconto fotografico da Mario Giacomelli. L’opera più vicina ai temi trattati da Scotellaro è Cristo si è fermato ad Eboli (1945) di Carlo Levi, autore di un vero e proprio affresco della civiltà e del dolore della terra lucana. Alla letteratura bisogna aggiungere la pittura dello stesso Levi e di Renato Guttuso, gli studi di antropologia di Ernesto De Martino e le fotografie di Franco Pinna con suo bellissimo Viaggio nelle terre del silenzio il cinema neorealista e in particolare quello di Luchino Visconti che ha amato la sua poesia e gli ha dedicato il film-capolavoro Rocco e i suoi fratelli.

Dopo avere frequentato la scuola elementare, all’età di dodici anni entra in collegio in varie località (Cava de’ Tirreni, Matera, Roma, Potenza, Trento e Tivoli) fino al compimento degli studi classici. Nel 1942 frequenta la facoltà di giurisprudenza a Roma senza riuscire a conseguirne la laurea. Trova un posto a Tivoli come istitutore ma a causa della guerra deve rientrare a Tricarico. Pur continuando gli studi (prima a Napoli, poi a Bari) inizia un’intensa attività sindacale e s’iscrive prima al Comitato di Liberazione Nazionale poi al Partito Socialista Italiano. Nel 1946, a soli ventitré anni, viene eletto sindaco di Tricarico, ma nel 1950 è accusato di concussione, truffa e associazione a delinquere dai suoi avversari politici, deve passare 45 giorni nel carcere di Matera prima di essere assolto con formula piena per non aver commesso il fatto. A causa di questa vicenda e di alcune delusioni, abbandona l’attività politica per dedicarsi alla letteratura continuando a lottare per i diritti del popolo meridionale. Sempre nel 1950 accetta la proposta di Manlio Rossi Doria per un incarico all’Osservatorio Agrario di Portici, dove compie ricerche e studi sociologici, cura un’inchiesta sulla cultura e sulle condizioni di vita delle popolazioni del sud interrotta dalla sua morte improvvisa il 15 dicembre 1953, quando è stroncato da un infarto.

Rocco Scotellaro sceglie il Partito Socialista Italiano come strumento di lotta per il miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei contadini, costretti a condizioni di vita disumane, tormentati da carenze alimentari e igienico-sanitarie, oppressi da un caporalato spietato e intransigente. Partecipa attivamente all’occupazione delle terre incolte di proprietà dei latifondisti ed è uno dei maggiori promotori della Riforma Agraria nel Mezzogiorno e in particolare nella Basilicata. Durante il suo impegno politica cerca sempre di coinvolgere la popolazione per la soluzione dei problemi, come accade per la costruzione dell’Ospedale Civile di Tricarico, realizzato nel 1947 con il contributo economico e umano dei cittadini.

Rocco Scotellaro è stato un cantore di quella civiltà contadina intesa come un valore imprescindibile per lo sviluppo di un Paese. Circondato spesso da una generale incomprensione e vittima di una industrializzazione diffusa sul territorio e valida per ogni tipo di cultura, messaggio antropologico, sociale e politico di Scotellaro è ancora attuale, perché ripropone una concezione di vita che può indicare una nuova visione dello sviluppo, una rinnovata “ruralità” capace di migliorare la nostra qualità della vita. Rocco è stato cantore della libertà contadina e dei valori incarnati da quel mondo, un intellettuale che è sempre rimasto vicino al popolo, anzi si è immerso nella cultura popolare affinché il suo paese e la sua regione potessero affrancarsi da una sudditanza culturale ed economica. Con la sua vita artistica e affettiva animata da un fervore quasi religioso può ancora aiutarci a riscoprire il valore della comunità e della solidarietà, del ritorno alla terra; può farci scoprire una sensibilità ecologica che non consideri la natura una nemica da dominare e sconfiggere.

Il suo mondo poetico

Nel 1954 la casa editrice Mondadori manda in stampa nella prestigiosa collana dello Specchio la raccolta di versi È fatto giorno che esce pochi mesi dopo la morte dell’autore. Il volume, diviso in quattordici sezioni tematiche, riunisce le composizioni scritte tra il 1940 e il 1953 e contiene una prefazione di Carlo Levi che ha sempre ammirato il poeta lucano come l’esponente più autorevole della nuova cultura contadina meridionale. Dopo varie edizione ora l’opera è stata integrata e analizzata criticamente da Franco Vitelli che l’ha collocata nel quadro culturale degli anni Cinquanta. Il libro rappresenta una specie di testamento spirituale di un autore dalla vita troppo breve, l’inizio di un percorso artistico che non si è potuto realizzare completamente, ma che ha comunque segnato la storia del Mezzogiorno e dell’Italia, con versi divisi tra sentimenti personali e impegno politico, scritti con uno stile volutamente semplice, con una ricerca lessicale rivolta soprattutto a quel mondo rurale composto da braccianti, artigiani, emigranti e donne in una continua relazione con la natura, i paesaggi, i centri abitati e la loro storia. Queste poesie segnano l’ingresso nella nostra Storia di quanti ne erano stati esclusi; affermano l’esistenza di un popolo ricco di tradizioni, portatore di una cultura identitaria, sono l’apertura verso un mondo considerato ai “margini della storia”. Senza cadere nel bucolico questi versi parlano della terra e della stagioni, delle feste paesane e delle danze popolari; raccontano la vita di braccianti e di donne condannati a estenuanti fatiche, soggetti a violenze e morti feroci. Nonostante alcuni richiami al Crepuscolarismo, che la critica ha ravvisato nei primi versi come in La mia bella Patria (Io sono un filo d’erba/un filo d’erba che trema/E la mia Patria è dove l’erba trema. /Un alito può trapiantare/il mio seme lontano), Scotellaro non è mai un poeta naif che guarda al passato con nostalgia, ma è un autore impegnato nel sociale, attendo al presente e al suo evolversi. Rivendica di appartenere a una “gioventù cresciuta al lamento del jazz”; stabilisce un rapporto di amore-odio con la città che lo attrae e lo respinge (Ho perduto la schiavitù contadina, /non mi farò più un bicchiere contento, /ho perduto la mia libertà), condanna la solitudine urbana che non esiste nel suo paese verso il quale non ha però una visione idilliaca, perché “nell’ombra delle nubi sperduto, /giace in frantumi un paese lucano. Il poeta sente di vivere in un mondo in transizione, in una società complessa fatta di soggetti in movimento; sente la presenza attiva e costante di braccianti, calzolai, fabbri, falegnami. Immerso in una condizione difficile perché sente di non appartenere al vecchio mondo della sua terra e di essere estraneo al nuovo mondo che avanza (Ognuno solo si preoccupa/del proprio oggetto da vendere. /Ognuno fa sentire la sua voce. /Io sono meno di niente/in questa folla di stracci/ presa nel gorgo dei propri affanni. /Sono un uomo di passaggio).

Quando parla del suo “esilio” cittadino a Bari, Trento, Roma, Napoli, quando parla del dissidio tra città e campagna, quando parla di militanza politica, i suoi versi sono urlati, escono fuori dalla pagina per denunciare violenze e soprusi quando parlano di emigranti, di pastori, di salariati e padroni in un rapporto di forze che una riforma agraria controversa e parziale non ha sostanzialmente modificato, per cui la sua poesia diventa un canto fiero e disperato (E se ci affoga la morte/nessuno sarà con noi/I portoni ce li hanno sbarrati/si sono spalancati i burroni.  /Oggi e ancora duemila anni/porteremo gli stessi panni. /Noi siamo rimasti la turba/la turba dei pezzenti, /quelli che strappano ai padroni/le maschere coi denti).

Nei suoi versi si avverte l’amarezza e il dolore di una sconfitta politica annunciata e accolta con un misto di rabbia e disperazione come si evince dalla celebre Pozzanghera nera il diciotto aprile, quando sente di essere uno dei tanti ormai sperduti in questo Mezzogiorno destinato a rimanere “truppa di riserva” di chi regge le fila del potere dopo la sconfitta elettorale del Fronte Popolare: Carte abbaglianti e pozzanghere nere/Hanno pittato la luna/Sui nostri muri scalcinati/I padroni hanno dato da mangiare/Quel giorno si era fratelli, /Come nelle feste dei santi/Abbiamo avuto il fuoco e la banda. /Ma è finita, è finita è finita/Quest’altra torrida festa/Siamo qui soli a gridarci la vita/Siamo soli nella tempesta. /E se ci affoga la morte/Nessuno sarà come noi. /I portoni ce li hanno sbarrati/Si sono spalancati i burroni. /Oggi ancora e duemila anni/Porteremo gli stessi panni. /Noi siamo rimasti la turba/La turba dei pezzenti, /Quelli che strappano ai padroni/La maschera coi denti.

A questo un canto disperato si aggiunge Sempre nuova è l’alba che Carlo Levi ha definito “la Marsigliese del movimento contadino”: Non gridatemi più dentro, /Non soffiatemi in cuore/I vostri fiati caldi, contadini. /Beviamoci insieme una tazza colma di vino! /Che all’ilare tempo della sera/S’acquieti il nostro vento disperato. /Spuntano ai pali ancora/Le teste dei briganti, e la caverna – /L’oasi verde della triste speranza – /Lindo conserva un guanciale di pietra. /Ma nei sentieri non si torna indietro. /Altre ali fuggiranno/Dalle paglie della cova, /Perché lungo il perire dei tempi/L’alba è nuova, è nuova.

Allo stesso modo la composizione È fatto giorno” diventa il manifesto politico di tutta la sua poetica:

È fatto giorno, siamo entrati in gioco anche noi/Con le facce e i panni che abbiamo. /Vanno i più robusti zappatori/A legare il battaglio alle campane; /oggi deve bastare questo canto/Dei cortei vagabondi/Versi le piccole croci di legno…/Sappiamo tutti la tua vera gloria/Signore della Croce/che non hai bisogno d’incensi. /E voi risentirete un canto nuovo/Che è il più antico gemito di un Fanciullo/Il pazzo strillo di una donna. /E voi imparerete la via sottomessa/che viene da un paese dove bisogna andare/Con la felicità della paura/Di andare incontro all’amore. /Noi patiremo la nostra crudeltà/Tanto più infausta perché non vi crediamo. /Allungate i passi, papi e governanti/alla luce degli scalzacani che vi hanno smentito: /Perché nel cielo si alza il sole/E dice tutte le verità, anche di voi, /Che per farvi accettare/ci togliete il cuore e la lingua.

Dopo questo momento di crisi non si spegne il suo impegno a favore dei contadini che si concentra nell’attività letteraria e, insieme al suo impegno verso il mondo contadino, ampio spazio è riservato alla figura dei genitori, sia al padre, verso il quale nutre sentimenti di affetto e profondo rispetto (“Mio padre”, “Al padre”), sia alla madre vista in maniera ambivalente: a volte ha per lei comprensione e compassione per la vita che è costretta a vivere; le dedica parole colme di amore, ne esalta le virtù ed evidenzia i limiti della sua condizione sociale (“Tu sola sei vera”, “Casa”), mentre in altre poesie il tono si fa aspro e il rapporto diventa conflittuale (“A una madre”, “Il grano del sepolcro”). Vi sono poi dei componimenti che hanno un notevole interesse letterario e sociologico (“Ti rubarono a noi come una spiga”, “La luna piena”, “Giovani come te”), che offrono numerosi spunti per un’analisi del modo di vivere e di concepire il mondo non solo di contadini e braccianti, ma anche di giovani che hanno poche prospettive circa il loro futuro.

Si fornirebbe infine una visione parziale del mondo poetico di Scotellaro, limitandosi alla sola componente socio-politica, perché diverse sue composizioni riflettono una passione e una sessualità dichiarata (“È calda così la malva”: È rimasto l’odore/della tua carne nel mio letto. /È calda così la malva/che ci teniamo ad essiccare/per i dolori dell’inverno), una carnalità coniugata con una forte umanità (“L’amica di città”: Hai tu la veste succinta dell’alba, / hai le labbra di carne macellata, /i seni divaricati. / Sono stato con te. Ciao, me ne vado. /Non ti scordar di me/dei braccianti impiccioliti/nel fascio dei fanali/ che scappano nei campi come lepri).

Le opere in prosa

Scotellaro ha lasciato anche alcune opere in prosa a cominciare da Uno si distrae al bivio, racconti scritti tra il 1942 e il 1943 che sono ancora immaturi e limitati nei contenuti, ma che costituiscono un punto di partenza, perché in essi sono già delineati valori e ideali presenti in tutta la sua produzione letteraria e nel suo impegno politico. Per esempio, il racconto, che dà il titolo alla raccolta, indica il passaggio dall’adolescenza all’età matura, quando si è chiamati a fare una scelta che richiede coraggio, perché si deve decidere la strada che può condurre verso un futuro proficuo oppure difficile e doloroso.

Giovani soli è un dramma in due atti scritta durante la permanenza dell’autore a Trento, 1984. “Sentirsi soli è come essere faccia a faccia con la morte” è la frase-chiave per interpretare i contenuti di questa opera che ha come sfondo la crisi nazionale degli anni 1942-1943. Il dramma riflette i dubbi e gli interrogativi che si pone il giovane Scotellaro, quando scopre la necessità di fare i conti con la realtà per comprendere come dover operare all’interno ella società e per sfuggire a qualunque tipo di alienazione.

L’uva puttanella è un romanzo autobiografico iniziato attorno al 1950 e rimasto incompiuto a causa dell’improvvisa morte dell’autore. La prima parte è dedicata alle vicende dell’infanzia, alle esperienze della prima adolescenza maturate in un piccolo paese di contadini, alla frequentazione della scuola, allo svolgersi della seconda guerra mondiale fino all’arrivo degli alleati. La seconda parte assume una dimensione più ampia, riporta le esperienze politiche fatte nel partito e da sindaco, la vicenda del carcere e la sua assoluzione. Si arricchisce di tanti personaggi conosciuti in situazioni diverse; presenta avvenimenti che diventano l’occasione di una riflessione più ampia e profonda, perché collocati in un preciso contesto storico con il sottoproletariato rurale che rimane il protagonista principale, poiché Scotellaro conosce bene angosce e sofferenze che sperimenta in prima persona. Egli resterà sempre un intellettuale legato al mondo contadino al quale sente di appartenere per nascita, costumi, lingua e cultura nonostante sia nato in una famiglia di artigiani che facevano i ciabattini, i fabbri, le sarte, (la nonna era la levatrice del paese), tutti però legati alla campagna, uniti nella povertà, nel tipo di cultura, dalla coscienza di servire la comunità. Rocco è un contadino senza essere un contadino, vive un rapporto profondo col mondo rurale (Il mondo dei Padri), di cui avverte la chiusura e l’immobilismo, ma anche quei fremiti innovativi che lo percorrono sotto la spinta di mutazioni politiche e sociologiche. Per questo cercherà sempre di far prendere coscienza a braccianti e contadini della loro condizione di classe subalterna se vogliono conquistare dignità e libertà di fronte ai “vecchi” padroni.

Contadini del Sud rimane un’opera fondamentale nel quadro culturale del Mezzogiorno, perché è un’indagine sociologica, iniziata nel 1950 e rimasta incompiuta, che presenta un metodo innovativo di approccio alla realtà. Si tratta di cinque storie individuali, narrate dagli stessi protagonisti: Michele Mulieri, coltivatore diretto, falegname e rivenditore di alimentari e benzina, anarchico; Andrea Di Grazia, coltivatore diretto, democristiano; Antonio Laurenzana, coltivatore diretto e piccolo affittuario; Francesco Chironna, mezzadro, innestatore, appartenente alla Chiesa evangelica; Cosimo Montefusco, mandriano di bufali. Per la prima volta sono le persone a esprimersi liberamente, a dare un senso alla loro vita, a prendere coscienza della loro condizione sociale. si tratta di una inchiesta condotta con rigore scientifico e in modo sistematico che ha un suo valore sociologico, ma presenta anche un sotto-testo poetico, perché crea dei personaggi e conferisce una consapevolezza alla loro vita. L’autore riesce a costruire in via indiretta il quadro di una civiltà contadina segnata dal dolore e dallo sconforto, ma anche capace di esprimere una voglia di riscatto e di “risveglio politico”; ci restituisce l’immagine di un’Italia frammentata, multiculturale e multilinguistica lontana da visioni sovraniste o neo-nazionaliste, nello stesso tempo priva di forme retoriche e consolatorie, ma profonda, vera e ricca di umanità.

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