Quando la Commedia è donna
di Giovanni Longo
2 Mag 2023 - Approfondimenti cinema
Nel saggio che vi proponiamo l’autore ripercorre la Storia del Cinema italiano, dal dopoguerra in poi, presentando le protagoniste della commedia all’italiana.
LE DONNE NEL GENERE PER ECCELLENZA DEL CINEMA ITALIANO
È ancora considerato il genere più rappresentativo del cinema italiano, il più studiato e indagato da storici e critici, eppure ancora ricco di motivi da esplorare e approfondire, oltre che fonte di ispirazione o comunque momento ineludibile di confronto per molti cineasti contemporanei. La commedia all’italiana ha rappresentato lo specchio della storia e del costume di un popolo, raccontandone pregi e difetti, vizi e virtù, nobili slanci e amare contraddizioni e facendo quindi convivere – da qui la sua ricchezza – il registro comico con il drammatico. Al tempo stesso figlia di un’epoca connotata dai caratteri dell’eccezionalità – il secondo dopoguerra – e frutto moderno di un genio con radici secolari nella cultura italiana, risalenti alla Commedia dell’Arte e più in generale alla saggezza di un popolo che con le armi dell’ironia, dello sberleffo, del disincanto e della satira aveva trovato la forza di sopravvivere a vicende storiche a dir poco tormentate. Ne fu all’origine e la accompagnò una straordinaria fioritura di talenti, un’irripetibile generazione di registi, produttori, sceneggiatori e attori.
Capitolo imprescindibile di questa cinematografia epica è il ruolo che vi rivestì l’universo femminile, se si considera che il nucleo tematico intorno al quale autori e registi esercitarono maggiormente i loro sforzi creativi fu il rapporto di coppia e più in generale tra i sessi. Così, tra le figure attoriali, la cifra d’artista e la grande popolarità acquisita dai maggiori rappresentanti maschili del genere come Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi, Marcello Mastroianni, Giancarlo Giannini, trova la sua misura anche nelle dinamiche recitative che con costoro furono in grado di agire le coprotagoniste di tanti film indimenticabili. Si pensi, solo per fare qualche esempio, all’alchimia che legò davanti alla macchina da presa Alberto Sordi a Monica Vitti, Marcello Mastroianni a Sophia Loren, Giancarlo Giannini a Mariangela Melato.
Un affascinante percorso, attraverso un’antologia delle sequenze più significative tra quelle con le quali la filmografia qui in esame ha messo in scena il rapporto uomo-donna, consente di dar risalto alle grandi personalità di quelle attrici capaci di tener testa e di rivaleggiare in bravura con “i mostri sacri” sopra citati.
Spesso assai differenti per formazione, esperienze, stili interpretativi e presenza scenica, per molte di esse la commedia fu soltanto uno dei generi nei quali si cimentò un talento eclettico e multiforme; ci fu in particolare chi virò al comico-brillante dopo un periodo nel cinema drammatico e d’autore (è il caso di Monica Vitti) e chi si spese con pari credibilità ed esiti lusinghieri nei generi più diversi lungo tutta la propria carriera (come Sophia Loren, Stefania Sandrelli e Mariangela Melato). Le loro parole i loro volti, i loro gesti e anche i loro corpi hanno permeato di sé, al pari dei loro partners, i primordi, l’evoluzione e il declino, nella prima metà degli anni Settanta, di una ben precisa e caratterizzata fase del nostro cinema e di un modo peculiare di raccontare la realtà italiana.
AGLI ALBORI DELLA COMMEDIA ALL’ITALIANA: IL “NEOREALISMO ROSA”
1. Il dopoguerra: dal Neorealismo al cinema della speranza e dell’ottimismo.
Nel 1945 l’Italia deve fare i conti con le miserie materiali e morali nelle quali la guerra l’ha precipitata. Il nostro cinema, che durante gli anni della dittatura fascista ha dovuto piegarsi a una narrazione intrisa di conformismo e al servizio della propaganda, capisce, in alcuni tra i suoi migliori rappresentanti, come accostarsi alla tragica realtà di un Paese miserabile e in preda al caos e provare a raccontarla senza infingimenti sia l’occasione per una ritrovata dignità artistica. È la poetica del Neorealismo di maestri come Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti. Roma Città aperta (1945), Sciuscià (1946), Ladri di Biciclette (1948), La terra trema (1948) sono tra i più significativi lavori di un cinema povero di mezzi, girato spesso con attori non professionisti e con approccio documentaristico, che nel volgere di pochi anni finisce però con l’esaurire la sua spinta creativa a causa del progressivo mutare del clima politico e del contesto economico e sociale. Il prevalere, infatti, di forze politiche e culturali che mostrano una certa impazienza di veder rappresentato sul grande schermo un Paese meno fragile e meno povero -quale in effetti sta lentamente diventando (anche grazie ai massicci aiuti economici conseguenza del posizionamento dell’Italia in un nuovo sistema di alleanze) -finiscono con il mettere in minoranza quegli ambienti intellettuali dai quali l’afflato neorealista era scaturito. In ogni caso, all’alba degli anni Cinquanta l’Italia, faticosamente, si rialza e comincia ad avere la forza di immaginare e di costruire un futuro che si spera migliore. Tutto ciò concorre al prender corpo di una forma narrativa che dal Neorealismo eredita il tratto distintivo di una descrizione che vuol essere il più possibile fedele e vicina ad ambienti e situazioni schiettamente popolari, ma se ne distingue per l’abbandono dei contenuti più drammatici e tragici- col fine di renderla più “accettabile” al pubblico. Così, spesso all’interno di una innocua e tranquillizzante cornice folkloristica, quando non idillica, vengono costruite trame e situazioni in cui si fanno prevalere, in linea con i tempi che stanno cambiando, la speranza e una visione finalmente ottimistica del futuro. Il tutto all’insegna dei buoni sentimenti, della leggerezza, di un pizzico di malizia e soprattutto del lieto fine. Viene coniata, con accezione non propriamente elogiativa, la definizione di Neorealismo Rosa, che evidentemente ne denuncia la perdita della tensione etica e di quello spessore di denuncia sociale che erano connaturati ai migliori lavori della stagione neorealista. Si tratta tuttavia di uno snodo fondamentale del nostro cinema perché racconta un’Italia che non è più quella derelitta del primissimo dopoguerra (“fotografata” dal Neorealismo) e non è ancora quella imborghesita e un po’ cinica del miracolo economico.
Le pellicole più significative del Neorealismo Rosa presentano tra i maggiori motivi di interesse un nuovo protagonismo della figura femminile. Si impone in particolar modo il modello di una bellezza procace (quella delle attrici cosiddette “maggiorate”, rivelatesi soprattutto nei concorsi di bellezza) che, in quanto incarnato dalle eroine di queste storie con piena consapevolezza e disinvoltura, va oltre l’espediente cinematografico di far facilmente presa sull’immaginario maschile; finisce con l’essere infatti anche un lontano riflesso di quella ricerca, da parte delle donne, di sempre maggiori spazi per esprimere la propria soggettività, che sta già dando i primi frutti nella società di quel periodo (basti pensare alla recente conquista del diritto di voto).
2. Tre pellicole rappresentative.
Alcuni lavori sono paradigmatici del Neorealismo Rosa, condensandone tutte le principali caratteristiche citate. Si tratta di storie ambientate sovente in ameni scenari, sia rurali sia urbani; in questo secondo caso quasi sempre un’irriconoscibile Roma, ancora vivibile e a misura d’uomo. Un’Italia che sta per scomparire, a causa di quell’impetuoso sviluppo industriale e urbanistico che ne stravolgerà paesaggi e antropologia.
In Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini coprotagonista accanto a Vittorio De Sica è Gina Lollobrigida (1927-2023). Nei panni della popolana soprannominata Pizzicarella la Bersagliera la Lollobrigida fa “perdere la testa” con il suo fascino fresco e “selvaggio” al galante ma attempato maresciallo dei Carabinieri Carotenuto (De Sica), il quale dovrà rassegnarsi a vedergli preferito un suo sottoposto assai più giovane e timido, salvo alla fine consolarsi con una donna più matura. Scenario della vicenda è Sagliena, immaginario, sperduto borgo contadino dell’Italia centro-meridionale, simbolo di un Paese, che nel suo paesaggio porta ancora le ferite della guerra, eppure è immerso in un’atmosfera di amenità.
La Lollobrigida conoscerà una brillante carriera, anche internazionale, che la porterà a condividere con Sophia Loren e poche altre il rango di autentica “diva” del nostro cinema.
In Poveri ma belli (1956) di Dino Risi una Roma solare fa da sfondo alle vicende sentimentali di un gruppo di giovani: Giovanna, interpretata da Marisa Allasio (1936), è corteggiata da due simpatici “perditempo”, Romolo (Maurizio Arena) e Salvatore (Renato Salvatori), legati tra loro da forte amicizia. Li illuderà entrambi (facendoli anche litigare) per tornare alla fine con un suo ex fidanzato. Il lieto fine è comunque assicurato perché Romolo e Salvatore troveranno conforto ciascuno nella sorella dell’altro. Trama assai semplice, per un gradevole e spiritoso ritratto di una gioventù ancora ingenua e spensierata.
Quella di Marisa Allasio sarà una carriera molto breve, pur nella sua intensità. Belle ma povere (ancora di Risi,1957), Susanna tutta panna (di Steno, 1957), Marisa la civetta, (di Mauro Bolognini, 1957), Venezia, la luna e tu (1958, ancora di Risi, con Alberto Sordi e Nino Manfredi) sono alcuni degli altri film che la vedono protagonista prima di lasciare le scene, per dedicarsi esclusivamente alla famiglia.
Ancora un’attrice dalla notevole presenza fisica -e dal radioso futuro – è protagonista di Peccato che sia una canaglia (1954) di Alessandro Blasetti. Questa pellicola si caratterizza, tra quelle che abbiamo scelto di menzionare come rappresentative del Neorealismo Rosa, per una peculiarità. Essa segna l’inizio di un sodalizio artistico che caratterizzerà gli anni a venire della storia del cinema italiano, quello tra Sophia Loren e Marcello Mastroianni. Vi partecipa inoltre lo stesso Vittorio De Sica, pigmalione della Loren e maggiore artefice della valorizzazione del suddetto connubio.
Paolo (Mastroianni) è un giovane tassista, che un giorno si imbatte in Lina (Loren), un’affascinante ragazza con un piccolo difetto: proviene da una famiglia di ladri e ladruncoli guidata dal padre, il “Professor” Stroppiani (De Sica, qui nel ruolo di un irresistibile truffatore). A causa della ragazza, della quale finisce ovviamente per innamorarsi, Paolo è coinvolto in una serie di disavventure e situazioni imbarazzanti che approderanno a un lieto fine.
La differenza d’età – dieci anni – e i diversi temperamenti della Loren e di Mastroianni (sornione e riflessivo lui, solare e spigliata lei) si intrecciano armoniosamente nei toni della commedia leggera.
GLI ANNI DEL BOOM: L’ETÀ D’ORO DELLA COMMEDIA ALL’ITALIANA
1. LA CARICA DELLE ADOLESCENTI: STEFANIA SANDRELLI E CATHERINE SPAAK
Gli anni Sessanta vedono l’irrompere, sulla scena del cinema italiano, e della commedia in particolare, di due giovanissimi talenti femminili che, sotto la guida di eccellenti registi, sanno sfruttare appieno l’opportunità loro offerta di misurarsi con attori sulla via della piena consacrazione quali Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi e Nino Manfredi. E ciò coincide, oltretutto, con lavori destinati ad assurgere a grandi classici della commedia all’italiana, nei quali lucidamente gli autori si soffermano sull’analisi delle problematiche e delle contraddizioni di una società divenuta assai più complessa nel breve volgere di pochi anni. Nasce una vera satira di costume, che non “fa sconti”; ci si allontana dai toni “buonisti” e “innocui” del Neorealismo Rosa. Si ride anche, certamente, ma si ride amaro e si è indotti a riflettere: è la cifra più autentica della migliore commedia all’italiana.
Le due figure in argomento sono quelle di Stefania Sandrelli e Catherine Spaak, che incarnano, tra l’altro, un nuovo ideale di bellezza, dopo l’epoca delle maggiorate che aveva imperversato nel decennio precedente. (Notevole eccezione è quella della Loren, come un caso a sé sono le giunoniche eroine dell’ineffabile mondo felliniano).
Divorzio all’italiana (1961) e Sedotta e abbandonata (1964), entrambe di Pietro Germi sono le due pellicole in cui si afferma Stefania Sandrelli (1946), che ha già alle spalle due esperienze, rispettivamente in Gioventù di notte, di Mario Sequi e ne Il Federale, di Luciano Salce. Nei lavori di Germi “bersaglio” di una mordace satira di costume sono alcune tradizioni e usanze ormai anacronistiche ma dure a morire, come “matrimonio riparatore”, “delitto d’onore” e famiglia rigidamente patriarcale. Le vicende sono entrambe ambientate in Sicilia, ma essendo quei retaggi pienamente legittimati nel quadro normativo dell’epoca essi rappresentano, a ben vedere, le contraddizioni dell’Italia tutta; dietro la Sicilia si cela dunque un’intera nazione, che in molti aspetti della sua cultura e del suo diritto resiste al “vento” della modernizzazione. Bisognerà attendere il1970 per l’introduzione del divorzio e addirittura il 1981 per l’abrogazione delle norme che prevedevano l’attenuante per il “delitto d’onore” e l’estinzione del reato di stupro nel caso il responsabile avesse sposato la vittima.
Divorzio all’italiana è ambientato nell’immaginaria cittadina di Agromonte. Il barone Fefè Cefalù (Marcello Mastroianni), che trascina ormai da parecchi anni un monotono matrimonio con Rosalia (Daniela Rocca), sempre innamoratissima di lui e stucchevolmente premurosa, viene preso da passione per Angela (Sandrelli), la propria cugina sedicenne. Non potendo divorziare, come vorrebbe, elabora un “diabolico” piano, ossia spingere Rosalia nelle braccia di un vecchio spasimante, Carmelo (Leopoldo Trieste) per sorprenderli in flagrante adulterio, ucciderli ricorrendo al “delitto d’onore” e, una volta scontato in carcere un breve periodo di pena (grazie alle attenuanti previste dalla legge), sposare Angela. Il piano va, rocambolescamente, in porto.
Germi fustiga i costumi senza lesinare, attingendo a piene mani al grottesco e al caricaturale, servendosi allo scopo di un folto stuolo di caratteristi (che al cinema italiano non sono mai mancati), abbrutendo gli uomini (soffocante e possessivo è il padre di Angela, infoiato è il padre di Fefè), mortificando spesso l’aspetto delle donne e accanendosi in particolare sul viso di Daniela Rocca– per inciso, donna di grande bellezza- di cui stravolge i lineamenti con un pesante trucco. In questo scenario emerge, per contrasto, l’acerba ma sensuale bellezza di una poco più che adolescente Stefania Sandrelli. Molte delle situazioni comiche del film sono innescate dalla Sandrelli, nei panni di Angela, grazie agli estenuati languori e ai senili appetiti che la sua irresistibile sensualità produce nel cugino Fefé e nel di lui padre.
Il piano di Fefè, si diceva, approda, pur tra mille ostacoli, all’esito desiderato. Il barone sposa Angela. Ma la sequenza finale del film insinua negli spettatori ragionevoli dubbi sulla futura fedeltà della giovane consorte: è l’ultima stoccata inferta da Germi.
Dopo Divorzio all’italiana, film divenuto proverbiale sin dal titolo – da esso venne mutuata infatti la definizione dell’intero genere -, il sodalizio Germi-Sandrelli proseguirà con Sedotta e abbandonata, “gemello” del precedente per ambientazioni, tematiche e personaggi, con L’immorale (1967, al fianco di Ugo Tognazzi) e con Alfredo Alfredo,del1972, insieme a Dustin Hoffman, ultimo lavoro del regista, che morirà prematuramente qualche anno dopo.
Attrice in cui convivono un’indole tranquilla e quasi ingenua e una forte carica seduttiva, la Sandrelli ha conosciuto una fortunata e interessante carriera; da un lato ha saputo intrigare alcuni tra i più “pensosi” autori del nostro cinema, da Antonio Pietrangeli (Io la conoscevo bene, 1965) a Bernardo Bertolucci (Il conformista, 1970, Novecento, 1976) a Ettore Scola (C’eravamo tanto amati, 1974, La Terrazza, 1980, La famiglia, 1986) dall’altro ha continuato a frequentare gli ambiti della commedia più tradizionale, e si è concessa anche, alle soglie dei quarant’anni, una parentesi nel genere erotico (es. La chiave, 1983, Tinto Brass).
L’altra giovane rivelazione di quegli anni è la belga naturalizzata italiana Catherine Spaak (1945-2022). L’acerba ma sofisticata bellezza, l’eleganza, la disinvoltura, la piena consapevolezza del suo fascino, ne fanno l’interprete ideale soprattutto in una serie di pellicole con protagoniste provocanti adolescenti che agitano i sogni di uomini maturi. Una sorta di lolita italiana dalla spiccata personalità, in questo molto diversa, per fare un esempio, dalla seducente ma timida e remissiva Angela di Divorzio all’italiana.
La Spaak si rivela in pellicole come I dolci inganni di Alberto Lattuada del 1960, La voglia matta, del 1962, di Luciano Salce, La Parmigiana, del 1963, di Antonio Pietrangeli (con Nino Manfredi)Il film di Salce è quello più noto tra i tre appena citati. Un ingegnere milanese quarantenne (Ugo Tognazzi) si imbatte, un giorno d’estate, in una compagnia di giovanissimi, di cui fa parte Francesca (interpretata dalla Spaak). L’uomo si invaghisce della ragazza, che prima lo illude, poi, insieme a tutti i suoi amici, si farà beffe di lui. Al quarantenne non resterà che prendere amaramente atto che la giovinezza non può tornare.
Il film è un contenitore dei principali motivi e dello stile che nutrono l’anima più autentica della commedia all’italiana degli anni del boom. La pungente satira di Salce mette a nudo l’altra faccia dell’acquisito benessere della borghesia del miracolo economico, i suoi frutti malati. E nessuno ne esce indenne, perché di un sostanziale vuoto di valori, di un approccio alla vita superficiale ed edonistico sono affetti sia il mondo adulto (il personaggio del quarantenne Tognazzi) sia quelle nuove generazioni che Francesca e i suoi amici rappresentano.
Dimenticato e probabilmente sconosciuto ai più, come il suo regista, La Parmigiana, è un originale ritratto che Antonio Pietrangeli dedica al mondo femminile, contrassegnato da un amaro disincanto, come sarà per il successivo Io la conoscevo bene con la Sandrelli. Le sue giovani protagoniste si confrontano con un campionario miserabile di figure maschili, vili, meschine e opportuniste. Ne La Parmigiana (che vede tra gli interpreti anche Nino Manfredi) Dora (Spaak), una ragazza che cerca nell’universo maschile la via di fuga maestra dalla vita di provincia che le sta stretta, dovrà approdare ad una amara disillusione sugli uomini. Adriana invece, la protagonista di Io la conoscevo bene interpretata dalla Sandrelli, vedendo frustrati i propri sogni di entrare nel mondo dello spettacolo, sceglie il suicidio come unica via d’uscita dopo aver provato tutte le umiliazioni possibili. Tra i due lavori è La Parmigiana, pur con il suo finale anch’esso amaro, a poter essere inscritto a buon diritto nel genere commedia, per il prevalere dei toni ironici e le sapide allusioni disseminate lungo tutto il film, momenti dei quali è parte attiva soprattutto la stessa protagonista, che -contrariamente alla passiva rassegnazione dell’Adriana di Io la conoscevo bene– ha dalla sua anche un forte temperamento. Un’opera assolutamente da riscoprire.
Della Spaak non si può non citare la partecipazione a Il sorpasso, di Dino Risi, del 1962, caposaldo del genere, il più famoso road movie del nostro cinema, esemplare ritratto dell’Italia del miracolo economico, e descrizione di un certo tipo di italiano, un po’ “spaccone” ed esibizionista-che in quegli anni iniziò a popolare il nostro paesaggio umano, impersonato come meglio non si sarebbe potuto da Vittorio Gassman. Qui la Spaak è Lilly, la figlia del protagonista Bruno Cortona-Gassman.
L’attrice di origine belga sarà ancora a fianco di Gassman in un altro memorabile lavoro di quegli anni, L’Armata Brancaleone, del 1966, di Mario Monicelli.
Il periodo migliore della carriera cinematografica della Spaak sembra concentrarsi proprio in questa manciata di titoli coincidenti con la prima giovinezza, il prosieguo non essendo sempre all’altezza di questi folgoranti inizi. È innegabile, tuttavia, il segno che la sua classe e il suo charme hanno lasciato nell’immaginario del pubblico italiano.
2. DE SICA CONSACRA LA COPPIA LOREN-MASTROIANNI
Se c’è un’attrice italiana a proposito della quale non appare retorico utilizzare l’appellativo di “diva”, questa è Sophia Loren (al secolo Sofia Scicolone, 1934), anche in virtù della fama acquisita fuori dai nostri confini. La prorompente bellezza mediterranea, una vocazione naturale per la recitazione e un forte carisma sono le qualità che hanno “stregato” e ispirato diversi cineasti della scena internazionale e le hanno permesso, insieme a un progressivo affinamento delle capacità interpretative, di tracciare una parabola artistica di assoluto rilevo e di guadagnarsi un forte radicamento nell’immaginario degli appassionati di cinema. Non molto rilevante, quantitativamente, il suo apporto alla storia della commedia all’italiana, ma l’indiscusso status di “diva” vale comunque una rapida sintesi della sua carriera. Senza una formazione accademica alle spalle, la Loren si fa notare in alcuni concorsi di bellezza a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta e approda nel mondo del cinema in alcune parti minori. Nel frattempo, si è anche affermata nel mondo del fotoromanzo. In questi anni utilizza lo pseudonimo di Sofia Lazzaro. Decisivi sono l’incontro con il produttore Carlo Ponti, che diventerà anche compagno di vita e, sul versante artistico, con Vittorio De Sica, cui la lega il comune retroterra culturale di stampo partenopeo e una conseguente affinità di sensibilità e linguaggio, che dà i suoi frutti sin da L’oro di Napoli, del 1954, film a episodi che De Sica trae dall’omonima raccolta di racconti di Giuseppe Marotta. Il cast annovera, nei vari episodi, personalità quali Totò, Eduardo De Filippo, lo stesso De Sica. La Loren è presente nell’episodio Pizze a credito, nei panni di una pizzaiola la cui avvenenza calamita l’attenzione dei clienti. Già da qualche tempo la sua carriera è ben instradata, ma dalla metà degli anni Cinquanta l’ascesa diventa inarrestabile, sia in Italia (Alessandro Blasetti, Dino Risi, Mario Soldati, Mario Camerini) sia con le prime esperienze in ambito internazionale (Stanley Kramer, Henry Hathaway, George Cukor, tra gli altri). Negli anni Sessanta spicca, del sodalizio con De Sica, l’Oscar del 1962 come migliore attrice protagonista per il drammatico La Ciociara.
Nel genere oggetto nella nostra trattazione, spiccano due lavori. Ieri oggi domani (1963), premio Oscar 1965 per il miglior film straniero, è diviso in tre episodi, ciascuno intitolato con i nomi delle rispettive protagoniste, Adelina, Anna e Mara (quest’ultimo rimane nella memoria soprattutto per lo striptease della Loren sulle note di Abat-jour). Adelina, scritto da Eduardo De Filippo e ispirato a una storia vera, racconta di una venditrice di sigarette di contrabbando nella Napoli dei quartieri popolari, che ricorre a continue gravidanze per evitare il carcere. Siamo di fronte a una di quelle caratterizzazioni che confermano come il lato veramente comico della Loren venga efficacemente allo scoperto quando l’attrice si esprime sulle corde più vicine alle sue radici regionali. In particolare, qui, lo spunto comico si sviluppa quando un “provato” Carmine (Mastroianni), il marito di Adelina, comincia a non essere più in grado di assolvere ai propri doveri coniugali e a poter di conseguenza ingravidare Adelina. La donna decide quindi di rivolgersi al medico per una cura che riesca a “sbloccare” il suo Carmine.
Matrimonio all’italiana, (1964), esempio di crossover tra commedia e dramma sentimentale – è basato su Filumena Marturano, uno dei classici del teatro di Eduardo De Filippo. Anche qui giovarono, nella performance della Loren, oltre all’intesa ormai perfetta con Mastroianni, le ricordate radici partenopee, che la Loren condivideva con De Sica e De Filippo. Tema centrale del film è la lunga lotta – con annesse sofferenze e umiliazioni – che Filumena ingaggia con Domenico Soriano (Mastroianni), l’uomo conosciuto quando faceva la prostituta, per dare dignità, attraverso il matrimonio, al sentimento che pur li lega ormai da anni. Riuscirà alla fine nell’impresa dopo aver vissuto a lungo in casa di Domenico alla stregua di una donna di servizio.
Uno dei momenti topici del film è quello dell’inganno che Filumena mette in atto una volta saputo che Domenico intende sposare una giovane cassiera della pasticceria di cui è titolare. Finge un grave malore che la sta portando alla morte e comunica al prete chiamato per darle l’estrema unzione un ultimo desiderio: sposare Domenico prima di morire. Il sacerdote riesce a convincere l’uomo ad assecondare il volere della “moribonda”.
Il prosieguo della filmografia della Loren si popola di nomi sempre più prestigiosi: Peter Ustinov (Lady L, 1965, con Paul Newman), Stanley Donen, (Arabesque, 1966, con Gregory Peck) Charlie Chaplin (La contessa di Hong Kong, con Marlon Brando, 1967). Divenuta a questo punto una star mondiale, la Loren regalerà ancora, di quando in quando, momenti significativi al cinema di casa nostra, sia nel genere drammatico con I girasoli ,1970, di De Sica e Una giornata particolare 1977, di Ettore Scola, sia nella commedia (La moglie del prete, 1970, di Dino Risi). Tutte, non casualmente, ancora con quello che rimane il suo partner ideale, ovvero Marcello Mastroianni.
LA COMMEDIA DEL DOPO BOOM E GLI ANNI SETTANTA
1. MONICA VITTI: REGINA DELLA COMMEDIA MA ANTIDIVA
Monica Vitti (Maria Luisa Ceciarelli 1931-2022) è sicuramente la figura attoriale femminile più dotata di vis comica della commedia all’italiana. Talento comico già evidente negli anni di frequentazione dell’Accademia di Arte Drammatica di Roma-vi si diplomerà nel 1953-, la Vitti si fa apprezzare in un variegato repertorio teatrale (Machiavelli, Shakespeare, Moliére, Brecht, tra gli altri). Risale a questi anni la scelta del nome d’arte, per il quale si ispira al cognome della madre, Vittiglia. Nel frattempo, inizia a lavorare anche nel doppiaggio cinematografico, contesto nel quale risalta il suo timbro vocale rauco e graffiante, che diventerà uno dei suoi tratti espressivi più riconoscibili. Sono del periodo compreso tra il 1954 e il 1958 le prime esperienze davanti alla macchina da presa, soprattutto in commedie leggere, prima dell’’incontro con Michelangelo Antonioni che la segue e apprezza da qualche tempo. È l’inizio di un rapporto sentimentale e di un sodalizio artistico che durerà qualche anno. Lo sguardo d’autore di Antonioni si appunta sul lato oscuro della neoborghesia italiana degli anni del boom, raccontandone il disagio esistenziale e un malessere che può sfociare nell’incomunicabilità e nella nevrosi. La Vitti diventa la “musa” del regista ferrarese, girando con lui L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962) e Deserto rosso (1964). È un cinema di nicchia, che convince la critica più esigente e raffinata ma non incontra il gusto e il favore delle grandi platee. La Vitti saprà mettere a frutto questa esperienza, giovandosene di lì a qualche anno, quando potrà- e ne sarà capace come poche-, arricchire di sfumature malinconiche anche i suoi personaggi più brillanti e comici. Già fra L’eclisse e Deserto rosso si concede alcune escursioni nella commedia ma sarà un maestro del calibro di Mario Monicelli a regalarle la consacrazione nel genere. Siamo nel 1968, il “miracolo economico” comincia a essere soltanto un ricordo, le contraddizioni, ormai venute alla luce, provocate da una rapidissima modernizzazione, stanno per esplodere in tutta la loro virulenza e il genere-commedia continua a raccontarne con gli strumenti della satira. Uno dei fronti più “caldi”, specchio delle inquietudini che ormai percorrono apertamente la società e ne scuotono dalle fondamenta alcuni capisaldi, è quello delle lotte femministe e proprio un sofferto percorso di emancipazione è il tema de La ragazza con la pistola. Qui la Vitti è Assunta, una giovane donna siciliana che, sedotta da un proprio compaesano (Carlo Giuffré) senza che ne sia seguito il classico “matrimonio riparatore”, decide di lavare l’onta partendo alla ricerca dell’uomo, che è fuggito in Inghilterra, con l’intento di ucciderlo. Dopo qualche tempo, lo ritrova ma nel frattempo la conoscenza della realtà socialmente più evoluta di quei luoghi l’hanno cambiata e le hanno aperto gli occhi, finendo per farla desistere dall’originario proposito, abbandonando lei, questa volta, l’uomo, che adesso manifesta intenzioni serie e vorrebbe sposarla. Il tema non è del tutto nuovo, ma l’ironia con la quale la Vitti affronta il personaggio è il valore aggiunto del film e le regala una grande popolarità. Il suo talento comico viene finalmente esaltato e l’attrice lo declina-in modo assai originale, arricchendo il suo personaggio con venature malinconiche, di donna fragile e tormentata. Doti che confermerà in occasione del nuovo ma questa volta più intenso incontro con Alberto Sordi. I due avevano infatti già condiviso il set per la prima volta nel 1964 ne Il disco volante, originale lavoro di un giovane Tinto Brass. Stavolta però è l’occasione per la Vitti di misurarsi in modo più diretto col grande attore romano. In Amore mio aiutami (1969), regia dello stesso Sordi, i due attori ben interagiscono e si muovono con disinvoltura in un continuo alternarsi tra comico e patetico. Giovanni, il personaggio interpretato da Sordi, si picca di essere uomo e marito di mentalità aperta e moderna, ma entra decisamente in crisi allorché la consorte Raffaella (Vitti) gli confessa la sbandata per un altro.
Raffaella gli chiede comprensione e aiuto per capire quanto profondi siano i sentimenti che la stanno turbando. Giovanni lotta faticosamente per rimanere coerente e fedele ai suoi principi e fa di tutto pur di non perdere la moglie, cercando anche un confronto sincero con il rivale e sperando che l’infatuazione di Raffaella prima o poi si dissolva. Alla fine, però, lungo un percorso emotivo non privo di momenti di intemperanza (celebre e discussa la lunga sequenza in cui prende selvaggiamente a schiaffi la moglie in un accesso d’ira) Giovanni deve arrendersi all’evidenza dei fatti e proprio per amore della donna decide di lasciarle vivere la nuova storia. Il film è quanto mai in linea con l’attualità del sempre più acceso, in quegli anni, dibattito sull’indissolubilità del matrimonio, destinato a sfociare nel dicembre del 1970, lo si è detto, nella legge che introdurrà in Italia l’istituto del divorzio.
L’intesa sul set così affinata tra Sordi e la Vitti vivrà ancora due momenti. Nel 1973 per Polvere di stelle, nostalgico sguardo al vecchio mondo dell’avanspettacolo, in cui il giovane Sordi si era peraltro formato, e in Io so che tu sai che io so (1982), amaro racconto sulle ipocrisie e i drammi che si celano dietro l’apparente banalità della vita di una famiglia borghese.
Altra pagina memorabile della carriera della Vitti è rappresentata dall’incontro con Ettore Scola, cineasta ispirato a una ben precisa visione della società, che muove da una posizione onestamente militante. Scola dirige la Vitti nella storia di un triangolo sentimentale di ambientazione sottoproletaria, la “tragicommedia” Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca), 1970. Al fianco della Vitti, questa volta, Marcello Mastroianni e un giovane Giancarlo Giannini. La fioraia Adelaide (Vitti) inizia una relazione col non più giovane muratore Oreste (Mastroianni). Un giorno però entra nella sua vita, presentatole dallo stesso Oreste, Nello (Giannini) un pizzaiolo toscano di cui si innamora, pienamente ricambiata. Adelaide, tuttavia, non sa decidersi tra i due uomini e si inventa persino una relazione a tre, fino a quando Oreste non viene travolto da una folle gelosia, che esplode una volta scoperto che Adelaide ha deciso di scegliere Nello e di sposarlo. Ormai non più in sé, Oreste, durante una lite con Nello, nella foga uccide involontariamente Adelaide mentre questa cerca di separare i due contendenti. Ritenuto infermo di mente, Oreste viene condannato a una pena minore, ma quando uscirà dal carcere sarà un uomo ormai totalmente alienato.
L’Adelaide alla quale Monica Vitti dà voce e corpo è una donna che sogna l’amore romantico e sembra voler vivere una storia da fotoromanzo, genere di cui è avida consumatrice e che rappresenta una delle sue poche fonti di conoscenza del mondo, insieme alle canzonette, modelli vissuti come strumenti di emancipazione. Adelaide rappresenta così quel proletariato o meglio sub-proletariato che dal miracolo economico non ha ottenuto il riscatto sperato e al quale, continuando a essere negato l’unico vero strumento di emancipazione che è la cultura, non resta che scimmiottare gli ingannevoli modelli imposti dai mass media. Questi aspetti vengono declinati stilisticamente nel film con una particolare attenzione al linguaggio dei protagonisti. Il “parlato” del film, lo stile dei dialoghi, rendono efficacemente il milieu sottoproletario e la conseguente scarsa padronanza linguistica dei protagonisti, capaci di esprimersi soltanto in un italiano improbabile, infarcito oltretutto di espressioni da fotoromanzo e da canzonette. Si deve all’abilità degli sceneggiatori, ovvero allo stesso Scola e soprattutto ad Age&Scarpelli, (Agenore Incrocci e Furio Scarpelli),già artefici delle geniali invenzioni linguistiche de L’Armata Brancaleone) l’effetto comico di alcune trovate espressive, come risalta al meglio nella sequenza in cui Adelaide confessa a un distratto medico psichiatra della mutua un problematico vissuto e le presenti angosce di una complicata situazione sentimentale.
Il lavoro di Scola si segnala ancora per l’utilizzo dell’espediente di derivazione “brechtiana” di far parlare spesso protagonisti e comprimari guardando in direzione della macchina da presa-pubblico, questi ultimi rappresentando simbolicamente il tribunale che raccoglie le testimonianze nel processo cui sarà sottoposto Oreste, testimonianze che costituiscono l’oggetto del racconto. Merita una menzione anche la colonna sonora di Armando Trovajoli: il Maestro si sintonizza alla perfezione sulle “frequenze emotive” della storia, soprattutto nei suoi momenti più malinconici.
L’interpretazione della Vitti è la riprova della duttilità dell’attrice, capace di gestire con assoluta padronanza sia il registro comico sia quello patetico-drammatico, sia le frustrazioni e i raffinati turbamenti di una borghese (in Amore mio aiutami), sia la disperazione e la confusione di una sprovveduta proletaria (in Dramma della gelosia). Sempre convincente, e con in più, al fondo, quell’innata, irresistibile autoironia che, unita a una bellezza discreta, non appariscente, ne fanno quanto di più distante si possa pensare dall’immagine della “diva”.
2. GLI INOSSIDABILI LOREN E MASTROIANNI.
Nel 1970 Dino Risi porta sul grande schermo un tema particolarmente pruriginoso in una nazione dalle solide tradizioni cattoliche come l’Italia ma che si presta, in un periodo segnato dalla messa in discussione di molti aspetti della società e dalla caduta di altrettanti tabù, ad essere efficacemente trattato con il linguaggio della satira di costume. Il tema è quello dell’”amor profano” dei religiosi e il regista milanese decide di puntare sulla collaudata coppia Loren-Mastroianni, cercando di valorizzare la differenza temperamentale tra i due, che qui risulta particolarmente funzionale alla storia della relazione sentimentale tra un timido sacerdote veneto e una passionale ex cantante di balera.
L’ex cantante Valeria (Loren), dopo un tentativo di suicidio dovuto all’ennesimo fallimento sentimentale, riesce a rintracciare e a conoscere di persona il telefonista di una “Voce amica”, che aveva cercato di confortarla e di farla desistere dai suoi fatali propositi. Dopo l’iniziale sorpresa della scoperta, da parte della donna, dello stato sacerdotale di Mario (Don Mario-Mastroianni), la conoscenza tra i due si approfondisce. Valeria finisce per essere sempre più attratta dal sacerdote, accendendo in quest’ultimo forti turbamenti.
La relazione che nasce sarà destinata a fallire perché il sacerdote, quando otterrà udienza dai suoi superiori per manifestare l’intenzione di sposarsi, ne otterrà in risposta la “promozione” a monsignore. A quel punto cerca di convincere Valeria ad aspettare qualche tempo, offrendole di continuare il rapporto con discrezione ma la donna, che oltretutto vorrebbe dargli un’importante notizia, preferisce uscire di scena.
Per la critica certamente non tra i film più memorabili di Risi ma, oltre ad avere il merito di trattare un tema sensibile come quello del celibato sacerdotale, appare l’ultimo episodio davvero gradevole della coppia Loren-Mastroianni nelle vesti di commedianti.
3. LA SANDRELLI TRA L’ULTIMO GERMI E IL CINEMA MILITANTE DI ETTORE SCOLA
In Alfredo Alfredo (1972), l’ultimo lavoro di Pietro Germi, Stefania Sandrelli è la petulante e possessiva MariaRosa che, prima da fidanzata, quindi da moglie, rende un inferno la vita del protagonista, interpretato da Dustin Hoffman. Una volta liberatosi, di MariaRosa (Alfredo, nel frattempo, ha imparato a odiare il matrimonio ed è divenuto un militante pro-divorzio) la ragazza in cui crede di aver trovato la donna ideale, Carolina (Carla Gravina), lo costringe a convolare di nuovo a nozze. Qui Germi torna sul tema del matrimonio, dopo qualche anno, quasi a confermare una visione irrimediabilmente pessimistica sulla vita di coppia.
A suggellare l’importanza che un’interprete dalle attitudini non precisamente comiche come la Sandrelli riveste nella storia della commedia all’italiana è la sua partecipazione al capolavoro di Ettore Scola, quello splendido film corale che è C’eravamo tanto amati, del 1974, nel quale l’attrice toscana ha modo di confrontarsi con i “mostri sacri” Vittorio Gassman e Nino Manfredi. Un’opera ricchissima di motivi, in cui i toni della commedia si intrecciano con quelli drammatico-sentimentali e le vicende personali con i mutamenti epocali. C’eravamo tanto amati copre infatti trent’anni di storia italiana, attraverso il racconto dell’amicizia fra Gianni (Gassman), Antonio (Manfredi) e Nicola (Stefano Satta Flores) militanti nella Resistenza, e delle loro vicende nei decenni successivi al dopoguerra, fino agli anni Settanta. Luciana, interpretata dalla Sandrelli, è la donna che entra nelle loro vite, intrecciando in tempi diversi legami sentimentali con tutti e tre e trovando infine il compagno della vita in Antonio, che era stato il primo del terzetto ad aver conosciuto e amato. Mentre Antonio e Nicola sono rimasti negli anni fedeli ai propri ideali e ne hanno anche pagato in certo modo il prezzo, Gianni sembra aver dilapidato il patrimonio morale acquisito durante la lotta partigiana, divenendo un cinico affarista, e sposando, opportunisticamente, la figlia di un ricchissimo, potente ma rozzo “palazzinaro, motivo per il quale aveva interrotto il rapporto con Luciana, continuando tuttavia a nutrire per lei un forte sentimento. Un giorno, siamo arrivati agli anni Settanta, Antonio incontra casualmente Gianni e gli propone una rimpatriata con Nicola. È l’occasione per rispolverare i ricordi, discutere-fino al litigio- di politica e tracciare un inevitabile bilancio, senza però che Gianni riesca a rivelare agli altri due quale sia stato il suo percorso di vita. Si arriva così a una delle sequenze più importanti del film, in cui Gianni rivede dopo molti anni Luciana.
Solo alla fine del film Antonio, Nicola e Luciana scoprono quanto Gianni non era riuscito prima a confessare e come quindi l’amico abbia finito con il tradire i valori per i quali avevano lottato in gioventù.
La Sandrelli lega così il suo nome a un’opera per certi versi epica del nostro cinema, forse la migliore testimonianza dell’impegno civile e politico che Scola ha identificato con il senso più profondo del suo mestiere di cineasta e nella quale il regista sembra voler denunciare la sconfitta di quella generazione che aveva lottato per fare dell’Italia un Paese molto diverso da quello, malato di conformismo e corrotto dall’affarismo e dalla malapolitica, che invece gli sembra essere diventato.
4. LINA WERTMÜLLER E MARIANGELA MELATO
Gli anni Settanta coincidono con la definitiva affermazione di una delle più importanti registe italiane e dell’unica che può figurare all’interno di una rassegna delle presenze femminili nella commedia all’italiana. Lina Wertmüller (Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Egg Espaňol von Brauchich,1928-2021), dopo gli anni della formazione nell’Accademia Teatrale di Pietro Sharoff a Roma e le esperienze, tra gli altri, con Pietro Garinei e Sandro Giovannini, approda al cinema lavorando come assistente di Federico Fellini ne La dolce vita (1960) e 8 e ½ (1963).Sempre del 1963è l’esordio alla regia con I basilischi, ironico ritratto di un gruppo di “vitelloni”, ambientato in un paesino del sud Italia. Seguono la regia televisiva del fortunato Il Giornalino di Gian Burrasca (1964) con Rita Pavone, un film a episodi con Nino Manfredi (Questa volta parliamo di uomini, 1965)e un paio di “musicarelli” ancora con la Pavone, prima di quel Mimi metallurgico ferito nell’onore(1972), con il quale imprime una svolta alla sua carriera. A cominciare dai lunghi titoli dei suoi film, la Wertmüller è artefice di uno stile inconfondibile, che le conferiscono una forte specificità tra i registi della commedia. Quasi portando alle estreme conseguenze la “lezione” di Pietro Germi, la Wertmüller fa del grottesco e del caricaturale le cifre espressive principali del suo cinema, fino ad approdare ad esiti parossistici, di tale “eccessività” da mettere quasi in secondo piano il contenuto, ovvero il bersaglio della satira; ciò per una serie di particolarità quali un uso quanto mai spregiudicato del linguaggio (siamo negli anni Settanta, i tempi sono cambiati), uno stile di regia volto a ottenere dagli attori una recitazione spesso sopra le righe, un uso abbondante di primi e primissimi piani e ancora un trucco che esalta con particolare intensità lineamenti ed espressioni dei volti. È con tale armamentario espressivo che la Wertmüller imprime la sua presenza nel cinema italiano, in un periodo “bollente” della nostra storia, nel quale vengono al pettine i nodi e giungono al culmine le tensioni e le criticità degli anni precedenti: le lotte femministe per la piena emancipazione, le rivendicazioni operaie e studentesche, la non facile gestione del processo di emigrazione interna. Nella filmografia della Wertmüller sono soprattutto due i lavori emblematici sia dei tratti stilistici sia della stringente attualità di alcune delle suggestioni tematiche cui si è appena fatto cenno: il citato Mimi metallurgico ferito nell’onore (1972) e Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974).Sono due dei tre film, (l’altro è Film d’amore e d’anarchia ovvero “Stamattina in via dei Fiori alle 10 nella nota casa di tolleranza…”) nei quali è protagonista un’altra grande coppia del cinema italiano. La Wertmüller decide infatti di puntare su due giovani attori come Giancarlo Giannini, la cui popolarità era in ascesa dopo Dramma della gelosia e soprattutto sulla milanese Mariangela Melato (1941-2013). Quest’ultima, dopo importanti esperienze nel teatro (tra gli altri, con Luca Ronconi nell’Orlando Furioso, nel 1969) aveva già dato ottima prova di sé nel cinema con Luciano Salce (Basta guardarla, 1970), Nino Manfredi (Per grazia ricevuta) ed Elio Petri (La classe operaia va in paradiso), entrambi del 1971.
Si diceva, a proposito di Mimi metallurgico ferito nell’onore e di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, di come si tratti di opere emblematiche e dello stile della Wertmüller e dell’importanza rivestita in quel tempo da alcuni temi. In Mimi metallurgico ferito nell’onore, ambientato tra Torino e Catania, ai collaudati argomenti dell’onore come concepito dal “maschio siculo” e della crisi del matrimonio si affianca quello della politicizzazione delle masse operaie e dell’incontro-scontro tra mentalità e culture diverse in seguito al fenomeno della massiccia emigrazione interna. Il film, dalla trama assai intricata, si incentra sulle vicende del catanese Carmelo “Mimì” Mardocheo (Giannini) e sulla sostanziale impossibilità di liberarsi dai condizionamenti sociali e culturali dovuti alle proprie origini. Mimì è costretto a lasciare Catania e la giovane moglie Rosalia, perché le sue idee politiche lo hanno fatto entrare in rotta di collisione col potere mafioso della sua città. A Torino, sua nuova destinazione, deve ancora fare i conti con la mafia, ma riesce comunque a trovare lavoro in una fabbrica metalmeccanica, cercando di inserirsi nel mondo operaio e di vivere appieno un’esperienza di militanza politica. Vi conosce inoltre Fiore (Melato) una giovane sottoproletaria di origine lombarda, alla quale si lega sentimentalmente. Gli sviluppi della trama portano Mimì nuovamente a Catania, dove fa ritorno accompagnato da Fiore e dal bambino frutto della loro relazione. Mimì cerca di barcamenarsi tra Fiore e Rosalia, trascurando affettivamente però la legittima e ignara consorte, perché Fiore pretende fedeltà assoluta e non ammette quindi che Mimì possa toccare un’altra donna, neanche sua moglie. Rosalia, a questo punto, finisce per tradirlo e restare incinta di un brigadiere napoletano in servizio a Catania, sposato anch’egli e con numerosa prole. Mimì è scosso e furente di gelosia ma non volendo ricorrere al delitto d’onore (l’esperienza al nord gli fa credere di essersi evoluto civilmente) preferisce vendicarsi diversamente: sedurrà e ingraviderà la grossolana moglie del brigadiere. Nel convulso finale del film Mimì finirà ingiustamente in carcere per l’omicidio del brigadiere, ucciso in realtà dalla mafia, potere che riesce ad attrarre di nuovo nella sua orbita il protagonista perché questi, una volta scontata la pena, si metterà al servizio del boss della città. A Fiore non resterà che abbandonare Mimì, che non è più l’uomo che aveva conosciuto. Al proprio destino non si sfugge, si diceva prima: Mimì non si è davvero evoluto, non è riuscito a liberarsi dalle proprie tare culturali, che hanno finito per risucchiarlo, a differenza di quanto accade al personaggio di Assunta (Monica Vitti) ne La ragazza con la pistola.
Il film è rimasto nella memoria, oltre che per le “licenze linguistiche”, anche per talune oltranze delle immagini, coincidenti con la riuscita seduzione della moglie del brigadiere da parte di Mimì, quasi un’apoteosi del grottesco, in cui la regista dimostra di essersi divertita a provocare il pubblico. Ma altrettanto memorabili rimangono le schermaglie amorose tra Mimì e Fiore, con un Mimì preda di un sentimento che alla fine troverà piena corrispondenza in Fiore. Sul piano interpretativo stupisce la bravura della Melato nell’alternare il registro comico al patetico e al sentimentale, con i conseguenti effetti sulla sua mimica facciale, che agitano i tratti di una bellezza lunare.
In Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto tema portante è il conflitto di classe, che si scatena tra i personaggi interpretati dalla Melato e da Giannini, quest’ultimo qui ancora alle prese con la caratterizzazione del proletario siciliano. Su un lussuoso yacht viaggiano nel Mediterraneo la milanesissima ricca e snob borghese Raffaella Pavone Lanzetti con il consorte e alcuni amici. La donna non perde occasione per vessare il personale di bordo, accanendosi in particolare su Gennarino Carunchio, un “rustico” siciliano di orientamenti politici opposti a quelli della signora.
Carunchio sopporta con crescente insofferenza la protervia della Pavone Lanzetti, finché un giorno interviene l’”insolito destino” al quale fa riferimento il titolo del film. Una mattina Raffaella si sveglia più tardi del solito e, per raggiungere marito e amici sulla terraferma, dove costoro si sono diretti per un giro turistico, ordina a Gennarino di accompagnarla con un gommone, che però si guasta durante la traversata in mare aperto. I due finiscono così alla deriva su un’isola disabitata. Qui bisogna ingegnarsi per sopravvivere e ovviamente la signora si trova a mal partito, dovendo dipendere dal rozzo ma pratico marinaio. L’occasione è propizia per Gennarino per rifarsi delle umiliazioni subite: la “padrona” dovrà guadagnarsi il cibo lavorando e servendo lei, questa volta, l’uomo. Sono i frangenti più intensi ed esilaranti del film, l’interazione tra i due attori regala momenti pirotecnici, bello il contrasto tra lo stile flemmatico ma imperioso del Gennarino di Giannini e quello nervoso della logorroica Raffaella di Melato.
L’acredine personale e di classe del marinaio troverà sfogo in modo anche violento, come quando Gennarino picchierà selvaggiamente Raffaella identificando nella donna quella borghesia capitalista colpevole di rendere assai grama la vita del proletariato. La sequenza ricorda il “pestaggio” al quale Sordi – furente di gelosia – sottopone la Vitti in Amore mio aiutami. Momenti che hanno destato perplessità nella critica più avvertita e militante, che li ha additati come altrettanti esempi di una misoginia dura a morire nel cinema italiano.
Tanta violenza finisce però per tramutarsi in passione amorosa, alla quale si abbandona soprattutto Raffaella, che in essa sperimenta un’autenticità assente nella sua vita di tutti i giorni.
Ma le differenze sociali non possono annullarsi; quando i naufraghi verranno finalmente riportati sulla terraferma Raffaella sceglie di ritornare nel suo mondo e di separarsi dall’uomo che le ha regalato le più intense sensazioni mai provate.
Figura accostabile, per il proprio eclettismo, alla Vitti, Mariangela Melato ha dalla sua anche un fascino atipico, soffuso di un’”aura” intellettuale e impreziosito da un animo in ansiosa ricerca di profondità e teso all’esplorazione delle potenzialità del proprio talento, che l’ha portata, a un certo punto della propria carriera, a dedicarsi con più passione al teatro, anche d’avanguardia.
IN ORDINE SPARSO: ALTRE DIVE NEI TERRITORI DELLA COMMEDIA
Nella memoria e nella considerazione del pubblico il legame di alcune “stelle” del nostro cinema con la commedia all’italiana, pur avendone esse frequentato inevitabilmente gli ambiti, non è percepito come altrettanto stretto di quello dei nomi sui quali ci siamo fin qui soffermati. Incisero in tal senso temperamento e attitudini di queste personalità e conseguente orientamento delle rispettive carriere; talvolta anche la modesta popolarità di talune delle commedie in cui lavorarono e la loro presa sull’immaginario collettivo, non paragonabile a quelle dei grandi classici sopra esaminati.
Donna di indole riservata, bellezza e portamento aristocratici, Silvana Mangano (1930-1989) si impose giovanissima all’attenzione di pubblico e critica con Riso amaro di Giuseppe De Santis, del 1949. Limitatamente al genere della commedia la sua filmografia è caratterizzata soprattutto dal sodalizio con Alberto Sordi, con cui lavorò, tra l’altro, ne La grande guerra, 1959, di Mario Monicelli, in Scusi, lei è favorevole o contrario?,1966, diretto dallo stesso Sordi, nel film a episodi La mia signora del 1964, registi Tinto Brass, Mauro Bolognini e Luigi Comencini, Lo scopone scientifico, del 1972, ancora di Comencini. A un certo punto della sua carriera la Mangano divenne particolarmente selettiva nelle scelte artistiche, trovando particolare affinità in cineasti come Pier Paolo Pasolini (tra gli altri titoli, Edipo re,1967,Teorema, 1968) e Luchino Visconti (Morte a Venezia, 1971, Ludwig, 1972, Gruppo di famiglia in un interno, 1974).
Di Gina Lollobrigida (1927-2023) abbiamo già fatto cenno a proposito della sua partecipazione a uno dei film più rappresentativi del “Neorealismo Rosa”, ovvero Pane, amore e fantasia. La Lollobrigida interpretò anche il séguito, Pane, amore e gelosia (1954), sempre per la regia di Comencini, ma si rifiutò di partecipare, nel 1955, al terzo capitolo, Pane, amore e.., diretto da Dino Risi, e interpretato da Sophia Loren, che sfruttò l’occasione, incrementando la propria popolarità. Sono gli anni in cui la “stella” della Loren è in piena ascesa e le due attrici cominciarono a essere “raccontate” come rivali, ma non certo nel comico, per il quale la Loren aveva maggiore predisposizione. Ambedue, comunque, entrarono a pieno titolo nello star-system, e la Lollobrigida lavorò, tra gli altri, con Carol Reed (Trapezio, 1956), King Vidor (Salomone e la regina di Saba, 1959), John Sturges (Sacro e profano, 1959); Robert Mulligan (Torna a settembre, 1961) al suo fianco “divi “come Burt Lancaster, Tony Curtis, Yul Brynner, Frank Sinatra, Rock Hudson. Se si vogliono pescare nella sua filmografia dei titoli apparentabili alla commedia all’italiana, si può far riferimento a Io, io, io …e gli altri, 1965, di Alessandro Blasetti e al film a episodi Le bambole, sempre del 1965, nel quale l’attrice originaria di Subiaco interpretò Monsignor Cupido, per la regia di Mauro Bolognini. Il suo nome rimane legato anche all’interpretazione del personaggio della Fata turchina, nel fortunato sceneggiato televisivo Le avventure di Pinocchio, del 1971, nel quale la diresse ancora Comencini.
In una carriera come quella di Claudia Cardinale (1938), punteggiata di capolavori quali 8 e ½ (1963, di Federico Fellini), Il Gattopardo (1963, di Luchino Visconti), C’era una volta il west (1968, di Sergio Leone), il rapporto con la commedia all’italiana vive soprattutto dei seguenti titoli: I soliti ignoti, 1958, di Mario Monicelli, Il magnifico cornuto, 1964, di Antonio Pietrangeli, Le fate (episodio Fata Armenia, 1966), di Mario Monicelli, Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata, 1971, di Luigi Zampa.
Il nome di Sandra Milo (Elena Salvatrice Greco, 1933) e la sua giunonica bellezza evocano inevitabilmente l’universo creativo, estetico e narrativo di Federico Fellini, sebbene siano appena un paio i lavori in cui fu diretta dal regista riminese (8 e ½ e Giulietta degli spiriti, quest’ultimo del1965). Nella filmografia della Milo spiccano anche Il generale della Rovere, di Roberto Rossellini, 1959, Adua e le compagne, 1960 e La visita, 1963, entrambe di Antonio Pietrangeli. Più legate al feeling della commedia sono il film d’esordio, Lo scapolo, del 1955, ancora di Pietrangeli, con protagonista l’immancabile Sordi e, in pieno clima da commedia all’italiana, L’ombrellone del maestro Risi, 1965, accanto a Enrico Maria Salerno, sulle dinamiche di una coppia di coniugi la cui stabilità è messa a dura prova dalle tentazioni presenti in un contesto vacanziero.
Di Virna Lisi (Virna Pieralisi, 1937-2014) ai fini della nostra trattazione rilevano soprattutto Le bambole, (episodio La telefonata), regia di Risi, Casanova ’70, di Mario Monicelli, entrambi del 1965, Signore & Signori, 1966, uno dei film più riusciti di Pietro Germi, impietoso ritratto delle pubbliche virtù e dei vizi segreti di una cittadina della provincia veneta. Anche della Lisi va menzionata la carriera internazionale, due titoli su tutti: Come uccidere vostra moglie,1964, di Richard Quine, con Jack Lemmon e Due assi nella manica, 1966 di Norman Panama, con Tony Curtis.
LE CARATTERISTE: BREVE RASSEGNA DEI VOLTI PIÙ NOTI
Anche tra le donne, in Italia, il genere della commedia è stato popolato storicamente da decine di attrici che per peculiarità fisiche e temperamentali e stile interpretativo hanno incarnato tipologie di personaggi molto caratterizzati, che le hanno cristallizzate in ruoli ben definiti; così come vi sono state figure che, pur dotate di un’eccellente professionalità in grado di assicurare loro una discreta varietà di ruoli, non hanno posseduto quell’ineffabile carisma necessario a imporsi come “prime donne”. In ogni caso si è trattato di presenze importanti, alle quali va riconosciuto un giusto tributo. Sono state indispensabile supporto e spalla del o della protagonista e hanno arricchito le storie sul versante espressivo, spesso ricoprendo anche un ruolo funzionale nel tessuto narrativo.
Controversa è l’appartenenza al pur nobile rango delle caratteristiche di un’artista come Franca Valeri (nome d’arte di Alma Franca Maria Norsa, 1920-2020). Talento, personalità, presenza scenica non bastarono, limitatamente al cinema, a imporla come protagonista in modo duraturo, giocando in questo senso un ruolo limitante, paradossalmente, proprio l’impareggiabile maestria nel delineare un “tipo”, quella della signorina snob, caustica verso tutti coloro che non le vanno a genio, che spopolò invece in televisione.
Donna di grande cultura ed eleganza, la Valeri seppe giocare magistralmente le carte dell’intelligenza e dell’ironia, anche verso sé stessa, doti che fecero passare in secondo piano il suo non essere dotata di grande bellezza. Il suo periodo migliore sul grande schermo è stato quello tra la metà e la fine degli anni Cinquanta, in una fase di poco precedente l’”esplosione” della commedia all’italiana- La sua comicità “cerebrale” e venata di sarcasmo si esaltò particolarmente ne Il vedovo, 1959, di Dino Risi. Qui la Valeri è Elvira Almiraghi, ricca donna d’affari milanese che sostiene finanziariamente il marito, il commendator Alberto Nardi (Alberto Sordi), un piccolo industriale romano trasferitosi a Milano, oberato di debiti a causa dello scarso successo delle sue iniziative economiche. Elvira, a differenza del marito assai capace e scaltra negli affari, ha scarsa stima del consorte, non manca di maltrattarlo e metterlo in ridicolo, canzonandolo spesso con un umiliante “cretinetti.” Costantemente tormentato dai creditori, Nardi non può che fare buon viso a cattivo gioco, essendo la moglie la sua unica ancora di salvezza. Quando Elvira decide di non “salvarlo” più dagli esiti fallimentari delle sue iniziative, Nardi si vede costretto a ricorrere ad un usuraio. Ormai sull’orlo del baratro, lo sfortunato imprenditore apprende che la moglie è socia dell’uomo che gli sta prestando denaro a interessi astronomici. Architetta quindi un piano per eliminarla, in modo da incassarne l’eredità e pagare tutti i debiti. Sarà lui, invece, a perire. I due attori si trovano a meraviglia, e i “siparietti” che li vedono protagonisti sono il motivo conduttore e l’anima del film.
La coppia Valeri-Sordi funzionò assai bene anche in altri film, come Il segno di Venere, del 1955, sempre di Risi, dove è presente pure Sophia Loren, Piccola Posta, sempre del 1955, per la regia di Steno, e Il moralista, 1959, di Giorgio Bianchi. Della filmografia della Valeri si segnalano ancora Gli onorevoli, 1963, di Sergio Corbucci, Leoni al sole e Parigi o Cara, entrambi del 1962, diretti dall’allora marito Vittorio Caprioli, conosciuto all’epoca delle esperienze cabarettistiche del Teatro dei Gobbi. Pur proseguendo per tutti gli anni Sessanta e in parte nei Settanta, le sue apparizioni sul grande schermo non riscossero gli stessi consensi che la Valeri ottenne, come detto, in Tv e soprattutto in teatro, contesto a lei più congeniale sia come interprete, sia come autrice.
Tina Pica (1884-1968), napoletana verace, respirò l’aria del palcoscenico fin da bambina al seguito della compagnia teatrale del padre Giuseppe. Entrò quindi nella compagnia di Federico Stella, noto attore e drammaturgo del teatro napoletano, a quel tempo famoso alla pari di Eduardo Scarpetta. Collaborò quindi, negli anni Trenta, con i fratelli De Filippo. L’apprendistato nel teatro consentì alla Pica di acquistare un sicuro mestiere nel genere comico, valorizzando oltretutto anche il singolare contrasto tra un fisico minuto e una voce cavernosa. Nel cinema, dopo alcune sporadiche esperienze prima della guerra, tra le quali spicca, in compagnia di Totò, Fermo con le mani, del 1937, di Gero Zambuto, acquistò grande popolarità in età ormai avanzata con il ruolo di Caramella, la domestica del maresciallo Carotenuto (De Sica) in Pane amore e fantasia, dove seppe imporsi con il personaggio di energica popolana, burbera ma dal cuore tenero, che le calzava a pennello e che la rese in certo modo unica nel panorama delle caratteriste italiane. Interpretò anche alcuni ruoli da protagonista, tra cui La nonna Sabella di Dino Risi, del 1957.Si congedò dalle scene, ormai quasi ottuagenaria, in piena epoca d’oro della commedia all’italiana, con una partecipazione a Ieri, oggi, domani, nell’episodio Mara.
Marisa Merlini (1923-2008) ha incrociato lungo la sua carriera quasi tutti i grandi interpreti della commedia e del cinema comico in generale. Bellezza in linea con i canoni più in voga nell’epoca, dopo aver fatto il suo ingresso nel mondo dello spettacolo attraverso il teatro di rivista, approdò al cinema, divenendo presto una delle più ricercate e apprezzate caratteriste. Oltre alle esperienze al fianco di Totò (tra l’altro in Totò cerca casa,1949di Mario Monicelli e Totò cerca moglie,1950,di Carlo Ludovico Bragaglia), fu presente in importanti lavori, lungo quasi un ventennio che va da Pane amore e fantasia a Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca), dove interpretò con grande ironia il ruolo della prostituta che cerca, lei, di ricondurre sulla retta via la sorella Adelaide (Monica Vitti), alle prese con una disordinata vita amorosa. Ben caratterizzato anche il ruolo della ricca vedova, nella cui orbita finisce riluttante, dopo varie vicissitudini, il protagonista de Il Mantenuto, di e con Ugo Tognazzi (1961).
Elena Fabrizi (1915-1993), sorella di Aldo, meglio nota come “Sora Lella”, quint’essenza della romanità più genuina e sagace, apparve in pellicole come I soliti ignoti, Una vita difficile, (1961, di Dino Risi), Scusi, lei è favorevole o contrario?, C’eravamo tanto amati. Fu volto particolarmente popolare e amato anche negli anni Ottanta, grazie alla sua presenze in alcuni film di Carlo Verdone (Bianco, rosso e Verdone, 1981 e Acqua e sapone, 1983).
Altre figure dalla pur ricca e rispettabile carriera sono impresse nell’immaginario collettivo soprattutto grazie alla loro partecipazione a pellicole “iconiche” della commedia all’italiana. Nanda Primavera (1898-1995) fu madre del Dott. Guido Tersilli (Alberto Sordi), ne Il medico della Mutua di Luigi Zampa, 1968 e nel séguito Il prof. Dott. Guido Tersilli Primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue di Luciano Salce, 1969. Bice Valori (1927-1980),amante del Dott. Tersilli nel suddetto Il medico della Mutua. Elena Fiore (Eleonora Esposito, 1928-1999): in Mimi metallurgico ferito nell’onore nel ruolo di Amalia Finocchiaro, la moglie del brigadiere sedotta dal protagonista, si prestò con grande ironia a concretizzare plasticamente le grottesche, visionarie fantasie di Lina Wertmüller esponendo all’obiettivo della macchina da presa una prorompente fisicità. In un contesto più di nicchia ma assolutamente da riscoprire, come del resto l’intero film, è il ruolo che Didi (Aida) Perego (1935-1993) ricoprì ne La Parmigiana, come Amneris Pagliughi, amica di famiglia della protagonista Dora (Catherine Spaak). La Perego, allora piuttosto giovane, disegnò con sorprendente bravura, prestandogli in modo pienamente convincente volto e movenze, il personaggio di una pettegolissima signora di mezza età, dai capelli ingrigiti ma ancora piacente.
EPILOGO
Con gli anni Settanta il quadro politico-sociale si fa sempre più complesso. La crisi economica si acuisce, i conflitti sociali si radicalizzano e inizia uno dei periodi più turbolenti della storia della repubblica, coincidente, tra l’altro, con la nascita delle organizzazioni terroristiche e l’inizio dei cosiddetti anni di piombo. Anche l’industria cinematografica nazionale è investita da una profonda crisi, che finisce per riverberarsi in parte anche sulla qualità del prodotto filmico. Sul versante della commedia, i nostri migliori cineasti hanno pur sempre continuato, come abbiamo visto, a proporre delle storie non banali, raccontando la fine del miracolo economico e l’incombenza di un periodo “complicato”. Rimane tuttavia insoluta la questione, in cui peraltro è chiamata in causa l’intera storia della commedia all’italiana, se e come la rappresentazione della donna in questo cinema ne abbia raccontato fedelmente e magari utilmente testimoniato la lotta per la progressiva acquisizione dei diritti e l’emancipazione da una società patriarcale. Certo è che, paradossalmente proprio negli anni in cui le rivendicazioni femministe stanno iniziando a dare i loro primi frutti, o proprio per questo, ossia per una reazione di stampo misogino, l’immagine della donna, sul versante della commedia, comincia a essere proposta sempre più di frequente con un approccio spiccatamente “voyeuristico”. Fiorisce e dilaga la commedia sexy. Il corpo della donna è al centro dell’attenzione, il nudo femminile diventa una costante del linguaggio cinematografico; gli “sviluppi drammaturgici” sono finalizzati ad approdare alla situazione morbosamente piccante. Le nuove leve dei ranghi attoriali femminili sembra debbano attraversare questo passaggio obbligato, prima di poter forse approdare a un cinema qualitativamente migliore e per loro più gratificante professionalmente.
Intanto certe arditezze e soprattutto il turpiloquio sono ormai “sdoganati” e hanno iniziato a fare capolino anche nei lavori che coinvolgono molti dei protagonisti e delle protagoniste dei periodi migliori della commedia all’italiana. Un’epoca pare al tramonto. Gli storici maestri della regia continuano ad assestare ancora qualche colpo, si pensi a Mario Monicelli con Amici miei del 1975 e Un borghese piccolo piccolo del 1977, ma in quest’ultimo film i toni della commedia e la satira di costume, pur presenti, sono sopraffatti dal drammatico e addirittura dal tragico, segno dei tempi difficili. Ettore Scola, per ragioni anagrafiche, potrà dire la sua ancora a lungo. I Sordi, le Vitti, i Mastroianni, le Loren, i Tognazzi, i Gassman e i Manfredi saranno ancora attivi ma una parte di loro è già consegnata alla storia.
Già sul finire del decennio si affacciano però sulla scena nuove personalità che, intenzionalmente o meno, nel loro approccio narrativo si accosteranno a quel modo di “leggere” la realtà e di fare cinema, finendo col rinverdirlo, col “resuscitarlo” anche in contesti sociali e culturali via via sempre più mutati. Radici secolari –si diceva-, un discorso, in fondo, mai completamente interrotto. Ricomincia il racconto dell’Italia, delle donne e degli uomini.
BIBLIOGRAFIA
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Complimenti davvero un ottimo lavoro!
Molto gentile, Marco. Grazie
Ho letto “libenter” l’intero lavoro, a quattr’occhi con mia madre, testimone di quei tempi. Un ottimo saggio, che lascia a margine alcune “quaestiones” che, in modo vario si intrecciano con le vicende narrate. In primis, i referendum su divorzio e aborto, il cui esitò causò la fine traumatica del rapporto tra la Chiesa Cattolica e la DC, accusata di debolezza nel contrapporsi a tali “novità”. Ne consegue un’onda lunga che porta alla crisi della Dc e dei partiti della Prima Repubblica, ma anche a una profonda riforma del diritto di famiglia. Altra questione, adombrata dall’autore per la Melato (et alii), è quella della “parallela” carriera teatrale di molti grandi attori. E’ appena il caso di rimarcare che il “Belpaese” ha avuto almeno altrettanti “mattatori” e protagonisti nel genere teatrale
Gentile Giovanni, grazie per il suo gentile commento. Come ha esattamente intuito, le questioni storiche e sociali accennate nel saggio sono diverse; la filmografia in questione ha narrato infatti un Paese in profonda trasformazione. La trattazione, di per sè già abbastanza densa, si proponeva di offrire anche degli spunti per eventuli approfondimenti dei molto aspetti coinvolti, tra i quali quelli da Lei giustamente segnalati. Grazie ancora per l’attenzione e la paziente lettura.