Ottima “Turandot” alle Terme di Caracalla di Roma


di Alma Torretta

19 Lug 2024 - Commenti classica

A Caracalla, sede estiva dell’Opera di Roma, una innovativa “Turandot” sull’installazione dei Fuksas. Ottimo debutto di Luciano Gangi come Calaf e di Maria Grazia Schiavo come Liù.

(Foto di Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma)

In un periodo in cui sono tanti gli allestimenti di Turandot, nell’anno commemorativo la morte di Puccini, l’Opera di Roma nella sua sede estiva delle Terme di Caracalla si è distinta presentando una delle nuove versioni più interessanti, grazie al progetto scenografico dei famosi architetti Massimiliano e Doriana Fuksas che supporta l’idea registica di Francesco Micheli, tra Cina fiabesca e un futuro già attuale, e grazie ad un cast di prim’ordine, malgrado le difficoltà di essere all’aperto, un coro e un’orchestra in ottima forma sotto la bacchetta del maestro Donato Renzetti.

Prova vinta per il tenore Luciano Ganci, al debutto nel ruolo di Calaf, spavaldo negli acuti ma anche dalle belle note basse piene e risonanti, che ha delineato il personaggio di giovane deciso, un guerriero, ma capace anche, con il suo bel timbro morbido, di quella dolcezza che sanno esprimere solo i più teneri degli innamorati. Ganci si alternerà nella parte del Principe Ignoto con Brian Jagde e Arsen Soghomonyan.

Debutto riuscitissimo anche per il soprano Maria Grazia Schiavo nella parte di Liù, in alternanza con Juliana Grigoryan. La Schiavo ha la necessaria dolcezza e delicatezza di voce e di carattere per essere una perfetta piccola Liù, impossibile non commuoversi ascoltandola e vedendola tanto dolente quanto ferma nei suoi propositi, meritatamente, pure molto applaudita.

Turandot è il soprano statunitense Angela Meade, che cederà il ruolo poi a Lise Lindstrom, purtroppo è sembrata particolarmente penalizzata dall’amplificazione e l’accento americano è ancora piuttosto marcato ed evidente nelle frasi più declamate, ma fa un’entrata in scena spettacolare esibendo tutta la sua potenza, tuona ma stridente come un grande ghiacciaio in movimento. E tale appare, come un grande ghiacciaio, ingabbiata in un vestito candido che è la sua corazza ma anche la sua prigione.

La regia di Micheli, coadiuvata dalla drammaturgia di Alberto Mattioli, ha immaginato una sorta di suo doppio, una ragazza d’oggi, una studentessa, il primo personaggio che si vede in scena, nella sua camera, isolata, in contatto con un mondo che teme e rifiuta, con cui è in contatto solo attraverso il computer, secondo l’uso moderno del ritiro sociale volontario che in Giappone è noto come “hikikomori”. Un atteggiamento, dicono le statistiche, sempre più diffuso anche in Italia. La piccola ragazza si è inventata un videogame in cui Turandot è il suo potente avatar ed il suo personaggio dà senso a tutto il visuale che oscilla tra cartoni animati e proiezioni di formule matematiche e suggestioni di galassie lontane. In un tale contesto, l’allestimento dei Fuksas, al loro debutto come scenografi d’opera, che hanno immaginato delle bianche geometriche collinette, in contrasto con gli antichi resti delle terme di Caracalla che fanno da sfondo, è funzionale e piace, mentre è stato criticato per l’altro titolo che pure lo utilizza, la Tosca, pure in cartellone in questi giorni in alternanza.

Il team creativo è tutto lo stesso di Tosca ed oltre ai già citati, molto suggestive le luci di Alessandro Carletti e i video di Luca Scarzella, Michele Innocente e Matteo Castiglioni, tanto importanti che sembra di assistere ad uno spettacolo di luci e suoni, e non è una considerazione sminuente, anche per il curatissimo coordinamento con la musica ed il coinvolgimento non soltanto delle superfici bianche ma anche dei più alti ruderi alle loro spalle che le luci trasformano in moderni grattacieli con insegne al neon, tutta la piattaforma bianca è il tablet in cui si gioca una partita. Molto bello l’effetto, in particolare, del popolo di Pechino mostrato attraverso proiezioni di fotogrammi in bianco e nero.

Qualche perplessità invece suscitano i costumi di Giada Masi, eccessivamente luccicante quello di Calaf e sembra poco da schiava quello di Liù, ma pure indubbiamente con delle buone idee come quella di presentare Ping, Pong e Pang, rispettivamente interpretati da Haris Adrianos, Marcello Nardis e Marco Miglietta, come delle palline colorate che ricordano un po’ i simpatici protagonisti del programma televisivo inglese per bambini Teletubbies. Ping, Pong e Pang sono proposti con ironia come dei ministri pupazzi, soggetti alla volontà di una ragazzina capricciosa e irragionevole, ma che si sanno trasformare, indossando un soprabito nero, anche in una sorta di colorati mefistofili tentatori quando cercano di far desistere Calaf. Peccato solo che non erano sempre ben coordinati e a volte singolarmente pure un po’ sfocati.

Il basso Alessio Cacciamani è poi il vecchio Timur, bravo il tenore Piero Giuliacci nella parte dell’imperatore Altoum, il Mandarino tutto di giallo vestito è Mattia Rossi dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program dell’Opera di Roma, e come Principe di Persia si alternano Giuseppe Ruggiero e Giordano Massaro. Merito di quest’allestimento è, tra l’altro, di presentare con eleganza la morte, appunto, del Principe di Persia, oppure la tortura di Liù, come invece si è visto in altri recenti allestimenti.

Gli accadimenti sono spesso solo suggeriti con un gesto e questo contribuisce all’apparente leggerezza che caratterizza nell’insieme la produzione, di un minimalismo che rischia a tratti di trasformarsi in freddezza anche per la distanza tra i personaggi che il regista sembra prediligere, ed è lo stesso anche per i movimenti coreografici di Mattia Agatiello, eseguiti comunque con la consueta eleganza e precisione.

Turandot, liberata dal suo vestito di ghiaccio e la giovane hikikomori che corre verso di lei per abbracciarla, sono comunque nella scena finale il contatto carico di speranza.

Molto godibile il coro, diretto da Ciro Visco, con la partecipazione della Scuola di Canto Corale dell’Opera di Roma, e lo stesso può dirsi dell’Orchestra che sotto la guida del maestro Renzetti suona compatta, a tratti con un ritmo quasi ossessivo, da rito collettivo, una linea interpretativa che non è piaciuta a tutti, ma che ha ben caratterizzato i diversi momenti del gioco visuale.

In replica sino al 10 agosto.

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One response

  1. Daniela ha detto:

    Non ho apprezzato…torno a casa molto delusa!

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