Omaggio di Franco Cecchini alla “Calamita Cosmica” di Gino De Dominicis


di Alberto Pellegrino

29 Gen 2019 - Altre Arti, Eventi e..., Arti Visive

Gino De Dominicis (Ancona 1947–Roma 1998) deve essere considerato uno dei grandi protagonisti dell’arte italiana del secondo dopoguerra. Nel 1988 realizza la Calamita cosmica, un gigantesco scheletro umano lungo 24 metri, che nel 2011 viene collocato nella Ex Chiesa della Santissima Trinità in Annunziata a cura del Centro Italiano Arte Contemporanea di Foligno.   Questo monumentale scheletro antropomorfo, che al posto del naso ha un grande becco di uccello, emana un fascino straordinario che probabilmente deriva dal suo misterioso significato. Si può avanzare l’ipotesi che la scultura possa riflettere alcune tematiche particolarmente care all’artista: l’immortalità del corpo, il mistero della creazione, il demoniaco, le tradizioni occulte, la nascita dell’universo, il senso ultimo della vita, il significato della materia e dell’esistenza umana, la capacità della creazione artistica di arrestare l’irreversibilità del tempo, la necessità per gli uomini di perseguire l’immortalità del corpo nonostante essa appaia impossibile da raggiungere, la possibilità che tutti gli esseri rimangano eterni anche quando non sono più percepibili con i sensi e solo uno sguardo senza pregiudizi può interpretare ciò che si è reso invisibile.
Questa specie di mostro monumentale con la sua forza espressiva sembra racchiudere in sé un universo capace di esaurire in se stesso le ragioni del suo essere, riesce a provocare un senso d’inferiorità e di piccolezza dell’essere umano di fronte a qualcosa di palesemente sovrumano e quindi inaccessibile. L’ipotesi più fondata è che il suo nome derivi dalla relazione tra lo scheletro e l’asta dorata infissa sulla punta del dito medio della mano destra, che potrebbe rappresentare una calamita destinata a scandire il tempo, a creare un contatto diretto tra lo scheletro e il cosiddetto mondo cosmico che lo circonda. Non a caso quest’asta costituisce il centro di tutta l’opera cioè quel legame tra l’uomo e la realtà, creando una sorta di campo magnetico che ingloba l’intero scheletro, il quale è un raccordo tra il tempo terreno e il tempo soprannaturale, un invito alla riflessione sulla connessione tra il cielo e la terra, sulla fragilità e l’immortalità dell’esistenza.

La Calamita Cosmica nelle fotografie di Franco Cecchini
Il fotografo jesino Franco Cecchini dal 2011 si è dedicato alla realizzazione di progetti fotografici che hanno affrontato, attraverso delle sequenze narrative, uno specifico tema esistenziale con delle vere e proprie “messe in scena” iconiche. Questo racconto fotografico rappresenta l’incontro tra due sensibilità e due generi artistici profondamente diversi eppure convergenti: da un lato la fotografia con il suo linguaggio solo apparentemente realistico, dall’altro il misterioso e per certi versi inquietante linguaggio di De Dominicis.
Cecchini ha detto di essere rimasto folgorato da questo grande scheletro fin dal 2005: “Da allora quell’icona bianca è diventata anche per me una Calamita: per gli occhi, per il cervello, per l’anima. Un’opera inquietante quanto attraente, drammatica ma anche ironica e quindi rasserenante, complessa e pura, naturale e metafisica, singolare e universale: Cosmica… Cogliendo quell’oggetto nello spazio da diversi punti di vista, appropriandomi di esso con lo scatto, scomponendolo e ricomponendolo, perfino trasformandone e alterandone in alcuni casi la visione, con la totale libertà e l’autonomia espressiva consentite dal linguaggio fotografico”.
Franco Cecchini ha quindi maturato negli anni l’idea di “raccontare” con le immagini un solo “oggetto” immobile nel tentativo di trasformarlo in qualcosa di “vivente”, usando la fotografia per circumnavigare questa scultura, per penetrare nei suoi meandri, per cercare di dare un senso ai suoi significati più profondi e l’ha fatto con 43 fotografie di grande formato che sono state esposte dal 17 novembre 2018 al 6 gennaio 2019 nel Centro Italiano di Arte Contemporanea di Foligno e quindi pubblicate nel volume intitolato L’oggetto vivente (Edizioni CIAC) a cura di Italo Tommasoni.
Alla fine di questo percorso narrativo ci si renderà conto come il senso di mistero sprigionato da quest’opera sia rimasto inviolato, nonostante Cecchini si avvicini alle soglie del mistero e riesca persino a lambirne i confini, comunicandoci quel senso di smarrimento, d’inquietudine ma anche di esaltazione che il suo obiettivo riesce a trasmettere, facendoci scoprire prospettive e dettagli irraggiungibili per l’occhio umano, il quale non è in grado di penetrare là dove arriva l’occhio fotografico.

La prima macro-sequenza intitolata “Interior”
Questo suo viaggio per immagini ha inizio con gli scatti fotografici realizzati all’interno dell’Ex Chiesa dell’Annunziata. La prima sequenza, una tra le più belle e suggestive dell’intero lavoro, parte dalla forma sferica del gigantesco cranio ripreso prima con un campo totale, poi con un dettaglio in campo medio. Successivamente egli sposta il suo interesse sul teschio e sull’enorme naso a becco d’uccello con immagini che assumono valenze particolarmente drammatiche, soprattutto quando egli aggiunge al bianco e nero il colore rosso per sottolineare il ghigno tragico della maschera e il buio angosciante di quelle occhiaie vuote, per poi stemperare questa violenta drammaticità usando uno sfondo dorato.
Segue una lunga, intensa e affascinante sequenza densa di significati, nella quale fa da protagonista quell’asta metallica che parte della mano destra dello scheletro per proiettarsi verso il cielo. Si tratta d’inquadrature diagonali che puntano verso l’oblò di luce del soffitto, che attraversano lo scheletro fino al dettaglio del dito medio perforato e quasi schiacciato da questa fatidica “lancia”, per poi quasi smarrirsi e annegare tra le ombre e le luci delle nicchie e dell’abside della chiesa.
L’importanza della sequenza deriva dal fatto che quest’asta rappresenta a nostro avviso (e crediamo che anche Cecchini lo pensi) l’unica cifra esplicativa di tutta l’opera scultorea senza tuttavia intaccare la sua sostanziale insondabilità. Con la sua sottile forma ascendente, l’asta punta decisamente verso il cielo come l’unico e possibile trait d’union tra l’umanità mortale e l’universo, una via dorata che può condurre verso il nulla, oppure verso quella immortalità che De Dominicis segretamente sognava di conquistare con la sua arte.
Cecchini penetra poi nei meandri del costato che appare come una specie di sottobosco osseo segnato da squarci di luce che si ritagliano un varco tra le costole, il bacino e i giganteschi piedi, il tutto scavato dalla luce in un continuo alternarsi di piani medi e dettagli in primissimo piano.
Una terza sequenza si apre con un siparietto di ombre seguito da un bianco assoluto (come non ricordare la lezione di Giuseppe Cavalli maestro assoluto del bianco su bianco) per sottolineare come sia l’autore sia gli spettatori si stiano muovendo sopra un palcoscenico avvolto nel mistero, prima di volgere lo sguardo verso il grande lucernario circolare, dal quale il dono della luce piove sull’immenso scheletro disteso nelle atmosfere semibuie della chiesa che lo ospita e che acuisce il senso del mistero con la sua giusta cornice di colonne, di pavimenti e di muri a mattoni, in un continuo gioco di luci e di ombre.

La seconda macro-sequenza intitolata “Exterior”
Queste immagini sono ambientate nel Forte Belvedere di Firenze, che nel 2017 ha ospitato sui suoi bastioni la grande scultura che biancheggia sotto il cielo, lontano dalle ombre arcaiche, inquietanti e affascinanti di Interior. Cecchini nella prima sequenza si lascia ancora attrarre dalla sfericità del cranio, dai dettagli della dentatura e del becco d’uccello, ma stavolta usa uno sfondo blu tendente al violaceo per ricordarci che, anche sotto la luce del sole o delle stelle, l’inquietante presenza di questa scultura rimane intatta nonostante cambi la cifra cromatica.
Nella seconda sequenza si ha un susseguirsi di cieli punteggiati di nubi e di panorami fiorentini contro i quali si staglia in campo totale o in dettaglio il capolavoro di De Dominicis. Ritornano il cranio e l’asta dorata che si rapportano con la cupola del Brunelleschi e il campanile di Giotto, oppure il corpo appare disteso sopra i camminamenti del Forte tra una trasparenza di ringhiere e una textura di mattoni. La sequenza termina con la bella immagine dello scheletro ripreso in prospettiva come il Cristo morto del Mantegna, mentre i due giganteschi piedi fanno da quinta scenica per questa ultima e drammatica rappresentazione.
La macro-sequenza si chiude con l’immagine di due innamorati che si abbracciano sorridenti per tramettere un messaggio di speranza, per sottolineare il valore dell’incontro e dell’amore, quasi a voler rimuovere l’inquietante presenza dello scheletro gigante. Il viaggio intorno e dentro la scultura con i “ritratti” dei due protagonisti che si guardano e “ci guardano”: la Calamita e l’artista che l’ha creata, Gino De Dominicis ci fissa e ci saluta con quel suo sguardo pieno d’ironia (immagine tratta dal video del 1970 Terza soluzione d’immortalità: Gino vi guarda).
Con il suo racconto fotografico Franco Cecchini mette in evidenza quel bisogno che aveva De Dominicis a sentirsi parte dell’universo, quell’ansia interiore che lo spingeva a conquistare una sua immortalità, a voler essere eterno anche quando sembra che tutto sia stato distrutto dalla morte e che nulla sia più percepibile con i nostri sensi. Un altro merito di Cecchini è quello di aver cercato con le sue luci e le sue ombre, con un variegato gioco di campi lunghi e medi, di primi piani e dettagli di penetrare il mistero che circonda questa gigantesca scultura e di gettare uno sguardo oltre la barriera del visibile.

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