Nell’”Astarto” di Bononcini a Innsbruck la musica diviene un optional
di Andrea Zepponi
29 Ago 2022 - Commenti classica
La messa in scena al Tiroler Landestheater di Innsbruck, il 25 agosto, dell’opera di Giovanni Bononcini Astarto, è stata molto discutibile per le soluzioni scenoregistiche e direttoriali. Un po’ penalizzate le ottime voci degli interpreti.
(Ph di © Birgit Gufler)
Ho sempre ritenuto che sia perfettamente inutile, da parte di chi si occupa dello spettacolo nell’esecuzione di un’opera barocca, ricordare di continuo e ossessivamente allo spettatore che tutto quanto c’è sulla scena è falso. Obiettivo della regia che ottempera alla funzione musicale degli affetti barocchi sarebbe semmai quello di mostrare la verità di una situazione da cui scaturiscono emozioni, siano pure astratte, tradotte in musica dal compositore e dagli esecutori. Se questo è compito della direzione orchestrale, ciò che si richiede è correttezza e onestà soprattutto quando si ripesca un titolo sepolto dal tempo e rarissimo sul teatro lirico. La prima ripresa in questo secolo di Astarto di Giovanni Bononcini (Modena 1670- Vienna 1747), operain tre atti su libretto di Paolo Rolli, Apostolo Zeno e Pietro Pariati, è stata già fatta nel 2014 al Teatro Bonci di Cesena a opera del Dipartimento di Musica Antica del Conservatorio Bruno Maderna di Cesena con criteri filologici rispettosi del testo musicale e librettistico. La riproposizione del titolo Bononcini, andata in scena al Tiroler Landestheater di Innsbruck il 25 agosto alle ore 19, è risultata invece quanto di peggio possa oggi offrire il mondo operistico “baroccaro” sia per gli arbitri operati dal responsabile della esecuzione orchestrale sia per gli eccessi insopportabili di una scenoregia votata alla narrazione di qualcos’altro rispetto al testo nello spirito e nella forma. Esclusi da ogni responsabilità i cantanti, vittime disprezzate di operatori musicali e teatrali i quali obbediscono a una governance di chiare mire ideologiche, l’operazione non aveva nulla di filologico perché l’opera era soggetta a interventi ingiustificati e ingiustificabili da parte della direzione oltre a una deformante narrazione aggiuntiva rispetto a quella della trama. Se la musica nell’opera lirica è quanto rimane di vero, in questo deplorevole spettacolo anche quella veniva manomessa.
Bisogna sapere che con Astarto, G. Bononcini raggiunse l’apice della propria maturità artistica. Nella stesura della partitura egli attinse alle idee di maggior successo dei suoi precedenti anni viennesi e le combinò con nuova musica altrettanto brillante. L’operafu presentata in prima assoluta al teatro Capranica di Roma durante il Carnevale del 1715. Le numerose riprese che seguirono confermano il felice esito delle rappresentazioni romane e forse anche il particolare affetto del compositore per quest’opera. Anche riprese a Londra (1720-1722 e 1734), ad Amburgo (1721) e a Kroměříž (1730) confermano il successo dell’opera. Tra il 1701 e il 1720, la musica di Bononcini fu onnipresente nella vita musicale di Londra. Brani di sua invenzione risultano incorporati in diversi pastiche, eseguiti in concerti e persino usati per travestimenti musicali in lingua inglese. Nell’autunno del 1720, il pubblico londinese poté finalmente ascoltare la nuova musica di Bononcini. L’Astarto fu rappresentato al King’s Theatre di Haymarket, in una nuova versione e una compagnia di cantanti che comprendeva alcune delle star più richieste dell’epoca, prime fra tutte il soprano Margherita Durastanti e il castrato Francesco Bernardi, detto Senesino. Lo stesso Haendel, l’impresario Johann Jacob Heidegger e altri membri dell’Accademia Reale impiegarono tre anni per convincere la cantante ad accettare l’ingaggio. L’Astarto segnò il debutto londinese di Senesino e fu il primo dei suoi numerosi successi come “primo uomo”, almeno fino al 1734. Bononcini, da esperto compositore teatrale, prese particolarmente a cuore l’ingaggio di Senesino e modificò la partitura romana dell’Astarto per renderla più appetibile al pubblico londinese nel senso di una lunghezza minore e una maggiore agilità nei recitativi. In ogni caso, la partitura del 1715 non era adatta al cast londinese del 1720, sia per la diversità delle parti vocali o della tessitura, sia per lo stile vocale tanto è vero che alcuni ruoli vocali cambiarono radicalmente come risulta dal primo cast romano del 1715:
Elisa Innocenzo Baldini soprano, Clearco Francesco Vitali (contralto), Sidonia Domenico Genovesi (soprano), Fenicio Domenico Tempesti (contralto), Nino Giovanni Antonio Archi (soprano), Agenore Giovanni Paita (tenore), Geronzio Francesco Braganti (contralto), mentre in quello londinese del 1720 si nota la centralità del Senesino:
Elisa Margherita Durastanti (soprano), Clearco Francesco Bernardi detto Senesino (contralto), Sidonia Maria Maddalena Salvai (soprano), Fenicio Giuseppe Maria Boschi (contralto), Nino Matteo Berselli (soprano), Agenore Caterina Gallarati (soprano).
Bononcini apportò quindi modifiche decisive allo spartito romano. In primo luogo, accorciò i recitativi, ridusse il numero dei numeri chiusi (da 37 a 33) e cancellò il ruolo di Geronzio. Nel riprendere i suoi materiali di volta in volta Bononcini arricchì l’orchestrazione delle arie come: “Mi dà crudel tormento”, “Spero, ma sempre peno”, ma lasciò che le voci cantanti avessero un maggiore risalto come in “M’insegna amor l’inganno”, “Sdegni tornate in petto” e cercò di adattare ancora di più la musica alle esigenze dei rispettivi cantanti. Compose nuove arie per Elisa: “Coglierò la bella rosa”, “Non mi seguire infido”, “Ah no, non m’ingannar”, per Clearco: “Torno alla patria”, Agenore “Con disperato sdegno”, Nino “Sapete che in amor” e un nuovo duetto per la coppia protagonista “Mai non potrei goder”. Clearco era il beneficiario di arie riservate ad altri nella versione romana e si trovò a cantare su una tessitura più acuta. (Originariamente, ad esempio, “La costanza, il timore, l’affetto” era stato assegnato ad Agenore). Un’altra aria, “L’onor severo brama”, gli fu assegnata nelle rappresentazioni del 1721. Per le due rappresentazioni dell’opera a Innsbruck del 25-27 agosto 2022 è stata scelta la versione originale del 1720 e quest’ultima aria di Clearco non è stata inclusa nella produzione.
Per la trama dell’opera potete vedere in “classica approfondimenti”, a questo link: https://www.musiculturaonline.it/astarto-opera-in-tre-atti-di-giovanni-bononcini/
Come dimostrano gli studi di Lowell Lindgren, molte delle arie dell’Astarto, scrive Giovanni Andrea Sechi nelle note di sala, riprendono motivi già presenti in alcune opere viennesi di quasi vent’anni prima e sappiamo quanto ciò fosse usuale per l’estetica astratta del barocco. In questo caso, però, sembra che Bononcini abbia voluto evocare un periodo particolarmente felice – non solo, ma anche per dimostrare la sua ininterrotta fedeltà agli Asburgo. In una lunga lettera del 1725 a Luigi Antonio Pio di Savoia, direttore della musica di corte a Vienna, Bononcini si schierò a favore di una ripresa, sostenendo che dal 1712 aveva servito solo i nobili e le città alleate degli Asburgo. Non senza un pizzico di sentimentalismo, il compositore descrisse la capitale dell’Impero asburgico come il suo “centro naturale”, al quale desiderava tornare prima possibile. Un autore italiano naturalizzato austriaco.
Tornando alla messa in scena di Innsbruck le uniche note di sala riportate da Maria Scheunpflug sullo spettacolo consistevano in una intervista a scenografa e costumista. La regia ha preferito non esprimersi nelle note di sala. Da queste si ricava che in Astarto si scontrerebbero due mondi estremamente contrastanti. Il tema principale sarebbe dunque il conflitto che nasce dal desiderio di essere consapevoli della propria identità individuale all’interno di un regime dittatoriale e totalitario. Per questo è stato scelto un momento storico – la Guerra Fredda – che si vuole riportare all’attualità. Tuttavia, l’ambientazione non voleva definire un paese concreto, ma piuttosto suggerire un ipotetico Stato dell’Europa orientale degli anni Sessanta. La tematica del potere conteso era trattata con un tono volutamente ironico, in linea (secondo la scenoregia) con libretto e musica. Dal punto di vista scenico, questo significava l’uso di pareti che diventano gabbie e prigioni per i personaggi, con una texture di piastrelle che ricordava l’architettura esterna e interna dell’epoca citata. In questo “labirinto opprimente” (però in scena non c’era nulla di efficace che alludesse a ciò) e le uniformi dei personaggi con qualifica militare o di potere in un verde asfittico solo in relazione agli stridenti colori ideologicamente rilevanti di altri oggetti scenici, erano ispirate all’opera del regista Wes Anderson: imbottiture con variazione esagerata delle forme corporee e stilizzazioni di costumi settecenteschi formavano una certa monocromia di colore verde, puntando a una commistione tra le uniformi militari dell’epoca e il volume espansivo dei costumi barocchi. Non si capisce come due quinte laterali e uno sfondo a sipario con alcuni inserti di strutture a simulare interni della casa di Sidonia o il letto a baldacchino di Elisa che fungeva simbolicamente anche da trono potessero creare quello spazio claustrofobico invocato dalla scenografa, se non il detto che le stazioni della metropolitana tedesca sono state la sua fonte di ispirazione. L’intento dichiarato era quello di rappresentare la dittatura in “modo metaforico ironico” ma in realtà tutto sembrava una trasmissione televisiva tra il Muppet Show e la serie George e Mildred. Altra intenzione mancata per i costumi era quella di rendere una società militarizzata dove però, unificando i corpi delle figure attraverso la loro forma e il loro colore, si otteneva l’assurdità e il grottesco attraverso una deformazione esagerata e ironica dell’identità maschile e femminile. Questo sempre per mettere in ridicolo e in dubbio anche l’ultima verità che resiste.
Un direttore d’orchestra che viene a dirigere in maglietta grigio fumo, scarpe sportive e saluta il pubblico unendo dito medio e indice (un crampo alla mano? forse, ma lo ha ripetuto alla premiazione dopo lo spettacolo quando tutti gli artisti sono stati menzionati e premiati con una tavoletta di cioccolata nel foyer dallo staff del teatro dopo la rappresentazione) la dice lunga su questa che doveva essere una messa in scena di un’opera barocca rara in cui la musica avrebbe dovuto avere la preminenza per la sua bellezza che al tempo, a Londra, gareggiava con quella di Haendel. Una direzione orchestrale, che si permetteva invece di togliere la musica da sotto la voce dei cantanti perché “un direttore deve seguire il regista”, e la regia vuole/deve incidere anche sulla musica, la dice ancora lunga sul tipo di governance che si percepiva dietro l’operazione: da qui anche il ragtime inferto al solo clavicembalo prima del secondo atto, e, per unire l’utile al dilettevole dove l’utile (per la direzione) è quello di stupire gli spettatori che non sanno nulla di barocco e il dilettevole (sempre e solo per la direzione) è sempre quello di fare agguati agli spettatori, anche quelli che conoscono il barocco; tanto per dimostrare di essere il padrone assoluto della partitura e l’arbitro della esecuzione, il direttore, che ha dato anche il volto a Sicheo raffigurato su manifesti all’inizio sulla scena, ha anche deciso di sottrarre da sotto la voce degli interpreti (di Nino e di Elisa) la musica strumentale in alcuni punti, così, tanto per spandere il suo senso di onnipotenza e imporlo. Infatti, il direttore copriva bellamente i cantanti con il protagonistico e pompier suono dell’orchestra dove anch’egli si esibiva talvolta in veste di violinista tanto per rincarare la dose. Mai sentito un simile arbitrio perpetrato da un sedicente direttore di orchestra barocca (da me interpellato in merito) di sottrarre volutamente la musica scritta: fatto di una gravità inaudita. La filologia fa salti mortali pur di rintracciare o tentare di ricostruire musiche mancanti e qui un direttore, sua sponte, toglie di mezzo la musica di intere frasi da una partitura completa!? Si è veramente toccato il fondo.
Una regia spocchiosa e collusa ha giocato poi il tutto per tutto sulla immancabile e banale ambientazione cronologica multipla che aveva, a quanto risulta dalle note di sala, la sua base su indistinti anni 60 -70 del ‘900 (il solito cronotopo vintage), perché suppellettili e carta da parati di quegli anni, tv portatile e, nella casa di Sidonia nel secondo atto comparivano con i poster di Charlie’s Angels, manifesti dei film di 007, telefoni grigi fissi a cornetta e similia di modernariato, però immancabili erano gli squarci di attualità ovviamente inneggianti all’atlanticamente corretto e alla guerra fredda in corso, in una distorsione totale che ha reso l’opera seria di Bononcini un pasticcio buffo e contraddittorio in ogni aspetto dove alla trama, già macchinosa di suo, si accrocchiava una narrazione assurda, posticcia e tendenziosa, ideologicamente schierata: alle domande fatte dal sottoscritto la regista ha risposto (prima di defilarsi vilmente) definendo opportunisticamente l’opera una “favola”, che poi tale non era, se non altro per i suddetti riferimenti alla realtà e alla suddetta ideologia atlantista: allusione a Trump (Agenore) e alla sua politica, alla prigione di Guantanamo dove tutti alla fine, sotto la minaccia di Astarto, da giocatore di ping-pong opportunamente passato a militare della NATO, saranno prigionieri indossando le ben note tute arancioni sotto la minaccia dei mitra da parte di Elisa che sposa il riconosciuto Astarte. Una “favola”?! La regista avrà usato questa parola non proprio impropriamente come sembra, e non solo forse perché il palcoscenico era rimpinzato di trudini e orsacchiotti di peluche da cima a fondo con palloncini, i colpi sparati in scena da pistole e mitra facevano piovere sempre volatili di color fucsia (ma allora era una fiaba e non una favola? C’era anche Elisa tramutata in fata con la bacchetta magica a stellina…), quanto, se non altro, perché lanciava continui messaggi “moralistici” sul politicamente corretto eticamente corrotto: la libertà intesa come gauchisme arcobalenico che dirompeva in Fenicio, padre di Astarto, inneggiante alle figure di Che Guevara, Malcolm X e Ghandi, il tutto condito in salsa fucsia con una chiara allusione alla ideologia gender cui veniva bruciato il dovuto grano d’incenso: lunga palandrana rossa, stivali color fucsia, calzoncini rosa e maglietta con sopra il Che di A. Warhol per Fenicio che tira fuori un boa di struzzo sempre di color fucsia trionfalmente consegnato ai due figuranti che si spogliavano della loro uniforme maschilista tossica e si fregiavano finalmente dei chiari simboli della cosiddetta libertà di “essere ciò che ci si sente”: uno si metteva il boa e l’altro scarpe gialle con tacchi a spillo. Cartelli con slogan inneggianti ai dogmi del liberalismo imperante dappertutto: cartello arcobaleno manco a dirlo e alla fine manifesti con gli slogan quanto mai indiscutibili, pena il discredito pubblico, Disarm or be destroyed, We need more freedom e We need more love. Anche il povero Nino, amante indefesso di Sidonia, rappresentato fin dall’inizio come ufficiale duro e puro con pistola nella fondina veniva costretto a indossare una delicata veste da sposa, così, tanto per far vedere che si può cambiare sesso come si vuole o come vogliono gli altri perché è Sidonia che lo veste così pur di non sposarlo. Cosa dovrebbero pensare gli spettatori a cui vengono date in pasto scene simili? Il libretto di Rolli presenta tutti i tratti di un’opera seria piena di intrighi di palazzo per il trono o l’amore, dove il potere alla fine si dimostra illuminato e tutto torna al suo posto; tutto invece veniva deturpato e appesantito dalla narrazione faticosa e farraginosa di una scenoregia che lo ha cambiato in opera buffa, ironica e grottesca, dove, durante l’esecuzione gli applausi del pubblico sembravano erogati per entrambi i componenti (cantanti e scenoregia) in quanto indissociabili e indistinguibili se fossero rivolti ai primi o alla seconda, senonché di fatto alla fine regista, costumista e scenografa sono stati “buati” e disapprovati per le feste.
Per venire ai cantanti sono stati tutti penalizzati da un’orchestra certo trascinante per il pubblico ma costretta dalla velleità di potenziare al massimo – con strumenti originali – le sonorità di una partitura di rara bellezza. Inutile dire che lo stile non rispecchiava quello barocco dell’epoca di Bononcini-Haendel, piuttosto qualcosa di posteriore come quello gluckiano e premozartiano che non collimano affatto con Bononcini né con la vocalità belcantistica: la splendida vocalità e l’interessante profilo artistico del mezzosoprano Dara Savinova nei panni di Elisa, la notevole estensione e presenza scenica del soprano Ana Maria Labin in quelli di Agenore, il basso-baritono ben timbrato ma carente negli acuti non appoggiati sul fiato, Luigi De Donato nel ruolo di Fenicio, il brillante soprano lirico di coloratura Theodora Raftis in quello di Sidonia, per arrivare al soprano di coloratura di discreta proiezione vocale, Paola Valentina Molinari nel ruolo di Nino e al contralto Francesca Ascioti, quest’ultima nel grande impegno d’interpretare il ruolo di Clearco/Astarto, che nella suddetta rappresentazione londinese fu affidato al “Senesino”, non è stata valorizzata dalla densità orchestrale che ne ha messo in luce la trasparenza vocale più adatta al ‘600 che al ‘700. Nonostante tutto, il pubblico è stato generoso di applausi, in specie per i cantanti, al termine di circa due ore e quaranta di rappresentazione. Per regia, costumi e scenografia vale quanto sopra.
CAST:
Stefano Montanari direzione orchestrale Silvia Paoli regia Alessio Rosati costumi Eleonora De Leo scene Cleante/Astarto Francesca Ascioti contralto Elisa Dara Savinova mezzosoprano Agenore Ana Maria Labin soprano Nino Paola Valentina Molinari soprano Sidonia Theodora Raftis soprano Fenicio Luigi De Donato basso Enea Barock Orchestra