Nà r al Festival della Valle d'Itria


Alberto Bazzano

5 Ago 2012 - Commenti classica

Valle d'Itria. L'Aquila, due giorni dopo il terremoto. Una donna perde la vista nel crollo della propria abitazione. Viene salvata in extremis. Estratta dalle macerie, è condotta nell'ospedale da campo, allestito in fretta e furia nel prato di Collemaggio. Nessuno sa chi sia, ma tutti la chiamano Luce. Nà r, appunto. Questo è il significato della parola in arabo. Un giovane medico, dai tratti mediorientali, infaticabile e profondamente umano. Per lui la donna prova sentimenti materni, sentimenti che vanno al di là della semplice gratitudine. Un frate che narra la storia di Jacques de Molay, il Gran Maestro del Tempio, giustiziato per volontà del re di Francia e del Papa, che trova la forza di perdonarli. Uno sconosciuto, di nobile origine, che veste con eleganza il mantello del cavaliere. Infine, un primario, vaccinato all'esperienza del dolore altrui, e un'infermiera al suo fianco.
Questi i protagonisti di Nà r, l'opera di Marco Taralli, andata in scena in prima mondiale al Festival della Valle d'Itria. Uno spettacolo pregevole. Un evento per il Festival pugliese che, per la prima volta nella sua Storia, commissiona e rappresenta una nuova opera lirica. L'iniziativa si inserisce nel solco tracciato da Alberto Triola, da tre stagioni alla guida del Festival. Triola ha focalizzato l'attenzione sul Barocco, sui titoli meno frequentati di ogni repertorio e sulla musica moderna e contemporanea. Per il Barocco, nel 2010, ha portato in scena Rodelinda, mai rappresentata prima in Italia, con Franco Fagioli, il controtenore che con quella performance si è guadagnato il Premio Abbiati avendo nobilitato il falsetto rinnovandone la meraviglia belcantistica . E Artaserse di Johann Adolf Hasse, proposto, quest'anno, nella prima versione del 1730, scritta per il Teatro Giovanni Grisostomo di Venezia. Anche questa volta Fagioli ha avuto un ruolo importante: ha vestito i panni di Arbace, la parte che, alla prima veneziana, fu interpretata del mitico Farinelli, ricevendone l'impronta. Per la musica moderna e contemporanea, oltre a ricordarsi di Ernest Krenek e di Erich Wolfgang Korngold, ha lasciato spazio a Marco Taralli con Nà r e, sempre quest'anno, a una riduzione moderna dell'Orfeo di Luigi Rossi. Il cartellone 2012 si è poi concluso con Zaira, opera bellissima, tuttavia fra le meno fortunate se così si può dire – di Vincenzo Bellini. Ma è proprio la sua marginalità a renderla degna di una riproposta. Al pari di Napoli milionaria di Nino Rota, bistrattata dalla critica ma accolta favorevolmente dal pubblico quando andò in scena a Spoleto negli anni Settanta. Grazie al Festival di Martina Franca l'opera è risorta dalle ceneri, ritrovando la luce nel 2010 nell'interpretazione strepitosa di Tiziana Fabbricini (Amalia), seguita a ruota da Alfonso Antoniozzi (Gennaro Jovine), disinvolto e grandemente espressivo. Ora lo spettacolo è disponibile in DVD ed è una vera fortuna poterlo vedere. Nei gesti dei suoi interpreti, della Fabbricini e di Antoniozzi in particolare, rivive il grande teatro di Eduardo, qui esaltato dalla musica di Nino Rota, una musica coinvolgente che, certo, non merita il severo giudizio che le è stato riservato.
La gestazione di Nà r non è stata semplice, nè lineare. Tutto è nato da una visita che Taralli e Triola hanno fatto alla Basilica di Santa Maria di Collemaggio a L'Aquila. Era il 2008 e del terremoto era di là da venire. Di fronte alle spoglie di papa Celestino V, custodite nella Cattedrale, sorse il progetto di un'opera che parlasse del Santo. Poi il terribile sisma modificò la rotta. Nuovi spunti vennero dallo scrittore Marco Buticchi, il quale suggerì l'idea della protagonista che diventa cieca, iniziando un cammino che la porta a ritrovare la luce. Una luce del tutto interiore, ma non per questo meno illuminante. L'opera è piena di suggestioni. Parla di perdono, ma anche di incontro con l'altro, di accettazione del diverso. Di compassione, nel senso etimologico del termine. Quella che Schopenhauer pone a fondamento dell'etica. Nell'ospedale di Collemaggio ogni personaggio ha la sua storia. Qualcuno reca con sè fantasmi da esorcizzare. E poi ci sono le apparizioni di Celestino V e Jacques de Molay. Insomma, tanta carne al fuoco, invero, non perfettamente organizzata nel libretto di Vincenzo De Vivo.
Parimenti, la musica di Marco Taralli non fluisce senza intoppi dall'inizio alla fine. Non convince in tutto e per tutto. A partire dalla struttura. La scelta dell'atto unico, secondo un modello ampiamente sperimentato nel teatro novecentesco da Richard Strauss in poi, potrebbe, più opportunamente, cedere il passo ad una scansione in due atti, meno faticosa per lo spettatore. Nondimeno, nelle pieghe della partitura si scorgono gemme preziose, intuizioni felicissime, come la ninna nanna araba cantata dal medico magrebino, l'arioso della protagonista e il motivo che sorregge il grandioso finale. La musica è tonale. Non rinuncia alle forme chiuse. à assolutamente fruibile. Guarda a Gian Carlo Menotti e risente del Puccini del primo Novecento, quello di Tosca, Butterfly e Fanciulla del West. Non ha nulla a che vedere con le sperimentazioni avanguardistiche che terrorizzano il pubblico. Non è un prodotto da laboratorio. Per questo è possibile che circoli.
La partitura si fonda su una sequenza di sette note, da do diesis a do diesis, una sorta di scala di fa diesis che, partendo dalla dominante, mima, nel rispetto del palindromo, i rapporti numerici che presiedono alle armonie della Basilica di Santa Maria di Collemaggio. Una scrittura formale, quella di Marco Taralli. Concettosa, intellettualistica, che ci porta lontano. Che recupera le suggestioni dell'Umanesimo e del Pitagorismo classico. Che fa propria la lezione di Leon Battista Alberti, laddove riconosce nel numero il punto di contatto fra musica e architettura – I numeri per mezzo dei quali l'accordo dei suoni delizia il nostro orecchio, sono gli stessi che piacciono ai nostri occhi e alla nostra mente (L.B. ALBERTI, De re edificatoria, Libro IX, cap. V).
Quanto agli interpreti, la parte del leone la fa Tiziana Fabbricini, come al solito, capace di emozionare anche con il più piccolo gesto. à sufficiente vederla nel funzionale spettacolo del regista Roberto Recchia appare bendata, spesso distesa nel suo letto d'ospedale – per provare un fremito. La sola presenza in scena catalizza l'attenzione. Rifulge in lei, sempre, la cifra della grande tragica, che si immedesima fino al midollo, che vive visceralmente il dramma del personaggio, e che trova l'accento giusto per tradurlo in canto. La scrittura di Nà r è faticosa. Orbita nelle zone medio-gravi del pentagramma. Talora si impenna improvvisamente per esprimere angoscia e dolore. Non disdegna il declamato, quando la melodia è insufficiente ad esprimere il tumulto dei sentimenti. La Fabbricini ne è consapevole. Dosa timbri e colori, perseguendo un unico grande obiettivo: la verità teatrale. Sempre e comunque.
Accanto a lei, il compagno della storica Traviata scaligera diretta da Riccardo Muti, Paolo Coni. Il baritono ha disegnato un Frate impetuoso e scenicamente incisivo.
Credibili, pur con margini di miglioramento, i due tenori David Sotgiu (De Molay) e David Ferri Durrà (Medico). Quest'ultimo, in particolare, degno di menzione per la vibrante esecuzione della citata nenia araba.
Allineati, infine, Emanuele Cordaro (Primario) e Marta Calcaterra (Infermiera).
Pregevole la direzione dello spagnolo Jordi Bernacèr alla guida di un ensemble cameristico, formato da pianoforte, legni, archi, ottoni e percussioni.
Alla fine, soddisfazione generale, fiori per Tiziana Fabbricini e più di una lacrima di commozione.
(Alberto Bazzano)


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