Mostra “Terre di Mezzanotte” di Daniele Degli Angeli a Bologna
di Flavia Orsati
4 Lug 2024 - Arti Visive
A Bologna, nel Palazzo d’Accursio, fino al 7 luglio si può visitare la mostra di Daniele Degli Angeli “Terre di Mezzanotte”.
Giunge al luogo dell’anima chi distoglie il proprio desiderio dalle cose esteriori. C. G. Jung, Il libro rosso
Sabato 22 giugno, a Bologna, presso la Sala d’Ercole di Palazzo d’Accursio, è stata inaugurata una antologica di Daniele Degli Angeli, a cura di Paolo Degli Angeli, dal suggestivo titolo Terre di Mezzanotte. La mostra sarà visitabile fino al 7 luglio.
Un universo atemporale sospeso in una stanza, nel pieno centro di Bologna. Questa è l’impressione che ha il visitatore, osservando le opere nella sala espositiva.
C’è un sentore di Apocalisse, di giudizio finale che permea i lavori di Degli Angeli. Una pittura che non si definisce, storicamente inattuale, in virtù del fatto di comunicare per archetipi. I luoghi eternati dal pittore, come suggeriscono i titoli stessi, sono quelli immortali del mito: Tebaidi, labirintiche isole azzurre, menhir illuminati dalla luce lunare, ninfei, ma anche vulcani, remoti paesaggi artici dove qualche esploratore ha posto una tenda rossa, sfidando il fuoco di ghiaccio, athanor alchemici di colore blu, il colore della Divina Sophia, spiagge che ricordano le scabre immagini degli Ossi di seppia, dove le conchiglie abbandonate sulla riva, ancora tra sabbia e onde, fungono da correlativo oggettivo di dimensioni non immanenti, ma esistenziali. Tutti Luoghi propizi alla visione, per parafrasare il titolo di un’opera, in cui degli svettanti monti si stagliano nel cielo. Un contenuto anagogico ed immaginale, insomma, atto ad esprimere valori e verità trascendenti, tuttavia incomunicabili, in cui lo spirito del tempo cede il passo allo spirito del profondo.
Come quelle di T.S. Eliot, le terre di Degli Angeli sono terre desolate, al di fuori del flusso temporale, prive – apparentemente – di traccia umana in senso fisico, ma cariche di engrammi psichici, che proprio il passaggio umano ha generato, concorrendo a plasmarne la forma. Gli uomini paiono non essere più presenti, forse perché autoconsunti in un tempo che cerca di riappropriarsi di sé, ormai privo di idoli ed eroi.
I paesaggi sono metafisici, ma al di là della metafisica stessa: senza più cause prime, sganciati da qualsiasi dato fenomenico, non c’è alcuna escatologia o alcun fine teleologico. Il cosmos interiore esiste, perché è lì e perché esiste l’uomo, non nella natura, ma nella Pupilla che vede, affinché e finché il lago diventi occhio e l’occhio diventi lago, quando paesaggio e uomo si scrutano e conoscono a vicenda fino a divenire un tutt’uno.
L’arcadica calma del mito ellenico è incrinata da oscuri presagi, invisibili eppure percepibili. L’atmosfera è inquieta, le tinte di colore si mescolano, tra cupi blu che fanno da preludio a una tempesta imminente, ad albe rosacee, spiragli di conforto nel momento in cui la notte è più nera. “Con questi resti ho alzato argini / Alle mie rovine”, scrive Eliot nella prima parte di The Waste Land, spiegando come l’uomo sia fatto solo “di un mucchio di immagini rotte”. Queste immagini, ormai in corto circuito, si susseguono nell’interiorità come fossero un meridiano zero, punto di approdo e di ripartenza, e vengono riversate sulla tela, come un profetico monito di ciò che il mondo si appresterà ad essere. Un mondo dove dell’uomo, prima o poi, non rimarranno nemmeno le rovine.
Da suggestioni che ricordano i quadri del grande simbolista Arnold Böcklin, profondamente mitteleuropeo, fino alle tele di Nicholas Roerich, il pittore delle nevi e delle altezze tibetane, tutto viene ricomposto distillandone l’essenza, in base alla libertà compositiva dell’io. Se, scrive Pessoa, “la vita, per i migliori, deve essere un sogno che si sottrae al confronto”, si può dire che, quella di Daniele Degli Angeli, da quanto mi è stato raccontato, sia stata una vita appartata, lontana da clamori e clangori della critica, improntata verso un laico fare ed operare, per l’arte e nell’arte. Un ritrarsi oculato dell’esistenza, nel percepire ed esperire il mondo esterno, ma senza mai mostrarlo o svelarlo del tutto. L’opera dell’artista fa infatti intuire la disponibilità di un mondo altro, che resta però chiuso in sé, ineffabile, che si conserva e rimane tale in virtù della sospensione e della definizione non categorica propria del mito.
I paesaggi di Degli Angeli divengono dunque terre di frontiera, momenti siderali di un difficoltoso passaggio che l’uomo dovrà, per forza di cose, prima o poi intraprendere. Non velocemente, ma con tutta la lentezza di cui ha bisogno il dolore per erodere l’animo e la gioia per sanarlo. Sono paesaggi che esistono solo nella nostra mente e che, in forza di questo, iniziano ad esistere anche nel mondo, perché la solitudine, il mito, i simboli hanno bisogno di essere riscoperti e di essere, stavolta, riattualizzati. Forse, allora, ecco qual è il monito, per chi si trova ad attraversare, come noi, delle Terre di Mezzanotte: con i propri resti, alzare argini contro le proprie rovine e le storture del mondo. Farlo con i propri paesaggi, con le proprie immagini interiori, nella consapevolezza che ciò che è più nostro, intimamente nostro, mai nessuno potrà strapparlo via. E in questa lucida certezza consiste la vera libertà.