Mostra di Ahmed Beshr a Roma
di Flavia Orsati
20 Gen 2025 - Arti Visive
L’artista egiziano Ahmed Beshr in mostra presso l’Accademia d’Egitto di Roma.
Non esiste nulla in cielo e sulla Terra che non sia anche nell’uomo. Paracelso
Per festeggiare i 95 anni di apertura dell’Accademia d’Egitto a Roma è stata inaugurata una mostra dell’artista egiziano Ahmed Beshr, visitabile liberamente dal lunedì al venerdì, dalle ore 10 alle 16. La serata di inaugurazione è stata accompagnata da un concerto della talentuosa flautista, nonché direttrice dell’Accademia, Rania Yehia.
Ahmed Beshr, egiziano di nascita, vive ormai da più di venticinque anni in Italia. La sua è un’arte sospesa in un punto liminale tra l’astrattismo e la figuratività, propendendo tuttavia verso la seconda, con un modus pingendi che sconfina nel regno supremo dell’onirismo e dell’inconscio, sospeso tra immanenza e trascendenza, in macromondi dove il principio aristotelico di non contraddizione smette di vigere, tra il calore del corpo e, sinesteticamente, il colore dello spirito.
In mostra, si alternano opere in bianco e nero, carboncini o inchiostri su carta, a lavori cromatici ad olio su tela. Quel che emerge, come costante, è un fruttuoso e naturale confronto con le tendenze artistiche del XX secolo, dal Futurismo italiano ed egiziano ai Surrealismi europei e dell’altra sponda del Mediterraneo, con compendi di forme che ricordano anche la metafisica di Carlo Carrà e Giorgio De Chirico, con rimandi simbolici a figure quali Il grande Metafisico, pervase però da una inquietudine Ernstiana.
L’attenzione di Beshr si rivolge, in maniera suprema, verso l’aspetto plastico e formale delle figure, tra Forme che mutano e Forme come nascono, come scomposizione e ri-composizione di stadi dell’essere, che ricordano alcune prove di Carlo Carrà e di Umberto Boccioni. Il soggetto privilegiato è la più complessa delle forme che la natura abbia creato: quella del corpo umano, nella sua dimensione fisica ma anche, e soprattutto, in quella spirituale ed ontologica. I corpi del pittore egiziano sono microcosmi che si incarnano in iperurani sfumati, leggeri, dove un lieve cromatismo pastello lascia intravedere figure femminili, a volte adagiate e abbandonate su dei letti, a volte sedute, e forme che, anacronisticamente, nascono dal caos, in perenne lotta, provenendo da un luogo immaginale e della memoria, che trasforma l’entropia in materia.
L’atmosfera non è priva di tormenti: in Fire sembra che i personaggi del quadro si trovino in una sorta di infernale girone dantesco, sferzati e trasportati dal vento impetuoso della passione, della morte, della vita. A volte, poi, il corpo diviene carne, consustanziandosi in silenziose, enigmatiche e sensualissime donne, affascinanti eppure eteree, rese alte dal loro essere puro simbolo figurale, che avanzano tra le dune del deserto egiziano, in una dimensione che, per renderla con le parole di Filippo Tommaso Marinetti, si fa, come l’Egitto della gioventù del poeta, “punto fermo di contemplazione”, in un’atmosfera sfumata, sospesa tra sogno e realtà, tra “cieli imbottiti di placida polvere d’oro, l’immobile andare delle dune gialle, gli alti triangoli imperativi delle Piramidi e le palme serene che benedicono il grasso padre Nilo allungato nel suo letto di terra nera e di erba verde”.
L’anatomia immaginifica di Beshr non poteva che nascere dal pennello di un pittore egiziano avvezzo allo studio dell’arte classica, che vede l’immanenza fenomenica umana come un viatico simbolico, funzionale all’apprendimento dei misteri dello spirito che, inevitabilmente, nel nostro mondo non può che palesarsi tramite la carne, o tramite il pennello dell’artista-demiurgo che la compone sulla tela, di volta in volta rinnovata, invertendo il movimento dialettico di catabasi e anabasi, dalla discesa dello spirito nella carne fino, viceversa, all’innalzamento della carne nello spirito, conferendo dimensione ai tre corpi: fisico, eterico ed astrale.
Nell’incastrarsi e flettersi formale si tende ad un movimento dialetticamente infinito ma che si reincarna in luoghi che rappresentano un oltre, mentale più che fisico, in quel tempio sacro che è il corpo, punto di contatto tra microcosmo e macrocosmo, nell’interazione e nell’intreccio con tutto ciò che lo circonda. Esseri umani, insomma, cosmomorfi, in un universo pregno di vettori di forze in divenire. I tocchi coloristici e le velature cromatiche palesano, inoltre, la struttura antropologica ed artistica delle composizioni, tendendo ad un moto ascensionale che rivela la direzione degli archetipi, senza velleità di porre la vita materiale sotto l’egida di quella spirituale: Beshr sembra dirci che il mistero vero è qui, davanti a noi. Vicino, eppure inattingibile, in evidenza, eppure nascosto. Il corpo diviene, dunque, paesaggio e terra di frontiera, con continue trasmutazioni tra dentro e fuori, volte ad indagare quale sia, alla fin fine, la nostra essenza, e quanto sia labile e sfumato il discrimine tra essere e non essere.
Considerando che “solo l’esperienza metafisica attua l’infinità unita” (E. Zolla), tale unità inconsistente dell’essere aleggia sui corpi, circondati da nubi, in una cosmogonia titanica che, dall’uno indifferenziato, attua la caduta, o suprema elevazione, nel molteplice differenziato.