Mannarino esce con un disco e fa “boom”!
di Alberto Pellegrino
21 Giu 2014 - Dischi
Alessandro Mannarino pubblica a 34 anni il suo terzo album Al Monte e spazza via tutto quello che caratterizzava i suoi precedenti lavori per proporre nove canzoni che sono altrettanti creazioni cariche di un profondo desiderio di purificazione, caratterizzate da una forte tensione etica, da un’appassionata ricerca culturale. Nel disco si affronta pertanto il tema dell’ascesa come rito medioevale, del pellegrinaggio di formazione per arrivare a “riveder le stelle”, rifacendosi a Dante e soprattutto a Petrarca, che nei momenti di crisi saliva sul Monte Ventoso per scrutare dentro si sé con maggiore chiarezza. Scompaiono il suo “ribellismo” popolaresco, la sua allegria provocatoria, un certo “piagnisteo” individualista, le “facili ubriacature” per rivolgere a tutti il suo messaggio filosofico e antropologico (perché di questo si tratta) per mezzo di un disco che (sono sue parole) non sia più di pancia, ma soprattutto di testa, che risponde a un preciso progetto “narrativo” (e per questo ha un inizio e una conclusione).
Nasce in questo modo un capolavoro che si distacca dai precedenti (Il bar della rabbia e Supersantos) che si allinea a L’ultima Thule di Guccini, a Io non appartengo più di Vecchioni, a Marinai, Profeti e Balene di Capossela che, a detta di Mannarino, gli ha fatto aprire gli occhi, ridato la speranza e la forza per seguire la sua vocazione artistica. Senza paure e falsi pudori, senza tentazioni di seguire le mode, Mannarino scrive dei testi poetici caratterizzati da contenuti profondi, da una perfetta stilizzazione metrica, da una serie di straordinarie metafore, da un ricorso alla lingua colta, tagliando via ogni riferimento dialettale fatta eccezione per Nonno Piero che tramanda una saggezza antica; anche per le musiche egli si rifà alla grande tradizione dei nostri cantautori che va dal melodico al jazz-folk con l’impiego di un’ampia sezione ritmica e di una fisarmonica, dei fiati (trombe e tromboni), di tutta la famiglia degli strumenti a corda (chitarre, violini, viole e violoncelli): “Ho scritto 22 brani e ho lasciato fuori anche hit potenziali perché non volevo essere frivolo e d’evasione”, perché Mannarino voleva parlare della violenza che “s’incanala nel tessuto sociale; non è vero che la giustizia sia uguale per tutti, né che la società tuteli ciascuno; tutto questo serve all’egemonia di pochi che fanno affari con bandiere, mitra e medicinali”. Nasce in questo modo il bisogno di un viaggio purificatore, animato e sospinto da una laica spiritualità, per non avere più paura delle stelle, “sperando che il cielo non sia una fregatura”. Mannarino trova anche la voglia di tirare una stoccata “alla Guccini” a certi suoi colleghi: “Non mi piace il ribellismo paraculo e lo sfascismo delle star che hanno lo yacht e il villone e si cambiano il sangue mentre sotto il palco chi crede in loro magari muore d’overdose”.
Esaminiamo ora le nove tappe di questo viaggio esistenziale. Il brano d’apertura Malamor è la storia di un bambino che ha conosciuto la violenza, da adulto è diventato un militare e nella “stalla nazionale” è diventato un bellissimo cinghiale che rappresenta tutte le falsità tipiche della società di massa. In Gli animali nonno Pietro lo mette in guardia dai visi dell’uomo raffigurati da altrettanti animali, lo esorta a non fare come i pesci che si fanno “acchiappare”, perché non distinguono la luce delle lampare dalla luce delle stelle. In Deija un popolo errante prima s’interroga sull’opera di un Dio che crea l’universo in sette giorni, ma poi si chiede perché nel mondo ci siano ancora tanto odio, tanto dolore e tanta ingiustizia se siamo tutti uguali come figli di Dio. In Scendi giù, attraverso la voce rabbiosa di un detenuto, l’autore s’interroga sulla giustizia umana, sul ruolo di giudici e secondini, sull’unica speranza riposta nel volto della sua donna che forse non rivedrà mai più. L’impero affronta il tema del potere che domina il mondo e che forse potrà essere sconfitto solo dall’amore; in Gente si racconta la storia di un amore finito, mentre Signorina traccia il profilo di una ragazza che è passata attraverso drammatiche esperienze di vita, ma che non deve rinunciare alla speranza, perché “basta questa lacrima d’amore/a riempire il gran deserto e farci il mare”. Al monte è una canzone-capolavoro, per due terzi recitata e per il resto cantata, che ripercorre il cammino dell’evoluzione di due esseri che passano dalla materia a essere dei pesci, per poi diventare serpenti, scimmie e infine due umani emarginati e perseguitati dai padroni delle fabbriche e dai gendarmi: lui dice “tranquilla troveremo un posto tutto si sistemerà” e lei risponde: “non lo so adesso che ci amiamo chi ci proteggerà”, ma l’uomo non rinuncia alla speranza perché “salirò al monte e troverò gemme per la tua fronte/e vivrò fra le onde poi me ne andrò tuffandomi tra le stelle”, perché non ci sarà più bisogno di scappare, s’imparerà la forza del perdono e “potrebbe essere l’amore tra un uomo e una donna, emancipati e uniti lassù, a riscattare la nostra libertà”. Infine questo viaggio iniziatico si chiude con Le stelle che illuminano di luce vera e non di quella artificiale delle città, che si possono ammirare meglio in cima a un monte, dove ci si può rifugiare quando si finge che vada tutto bene, quando ci si riduce come un animale, quando “Dio non si è visto ancora e gli alieni tardano a venire”, quando si è perduto il “profumo” delle stelle che bisogna invece “cercare nei campi di grano nel fondo del mare”.