Magistrale “Re Lear” di Gabriele Lavia al Teatro Argentina di Roma


di Flavia Orsati

11 Dic 2024 - Commenti teatro

Dal 26 novembre al 22 dicembre, presso il Teatro Argentina di Roma va in scena il “Re Lear” di William Shakaspeare, di e con Gabriele Lavia, per una Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Effimera, LAC Lugano Arte e Cultura. Tre ore di grande spettacolo con un superlativo Gabriele Lavia.

(Foto di Tommaso Le Pera)

Il “Re Lear” è, senza ombra di dubbio, uno dei capolavori della drammaturgia shakespeariana. Un testo intenso, nato per il teatro, noto come “la tragedia del poeter” e che solo con la giusta intensità riesce ancora a vivere. Intensità emotiva e fisica donata, ancora una volta, a questo testo da a Gabriele Lavia e dal nutrito cast di 14 interpreti, composto da Giovanni Arezzo, Giuseppe Benvegna, Eleonora Bernazza, Jacopo Carta, Beatrice Ceccherini, Federica Di Martino, Ian Gualdani, Luca Lazzareschi, Mauro Mandolini, Andrea Nicolini, Gianluca Scaccia, Silvia Siravo, Jacopo Venturiero e Lorenzo Volpe. Con loro, le passioni, anche le più turpi, e l’eterna conflittualità tra figli e genitori irrompono sulla scena, più intense che mai.

Lavia, regista e protagonista dello spettacolo, incarna magistralmente il senso della perdita: della perdita sì del regno, e, consequenzialmente, del potere e delle ricchezze, ma anche e soprattutto la perdita del senno, delle proprie certezze e, in ultima analisi, della propria identità. Spogliatosi di qualsiasi orpello, di qualsiasi costruzione sociale imposta dall’uomo, Lavia-Lear si trova a interrogarsi sulla domanda più difficile di sempre: “Sono io Lear?”, si chiede, al culmine della disperazione. Lear guarirà dalla sua follia, paradossalmente, grazie alle parole, a volte musicate, a volte cantate, a volte soltanto proferite – irriverenti, ironiche, paradossali, canzonatorie – di un fool, del suo Matto di corte, che lo segue fedelmente durante tutte le peripezie. Andrea Nicolini, interpretando questo personaggio, rompe i momenti di maggior pathos con la forza amara del sorriso, ricrea il senso del teatro del bardo di Avon: un’eterna dialettica tra realtà e finzione, che può essere distruttiva, come confermano le parole adulatrici di Regan e di Goneril e le trame di Edmund, tese a screditare il fratello Edgard agli occhi del padre, la cui cecità morale diviene, per contrappasso, cecità fisica. Ma è la stessa parola, artificiosa creazione dell’uomo, che può portare alla redenzione: una parola negata che afferma la libertà – il “niente” di Cordelia – o una parola ingannatrice, in nome di un bene più grande, come il poetico inganno di Edgard nei confronti di Gloucester, teso a sventare il suo suicidio, o il travestimento di Kent, fedele servo del re, perpetrato al fine di proteggerlo e di restare al suo fianco.

Lo spettacolo, dalla durata di circa tre ore, riesce a far immergere gli spettatori in un mondo altro, senza bisogno di uno scenario costruito di artificiose quinte, anzi. La scena è scura, piuttosto semplice, con degli oggetti emblematici, come alcune sedie, buttate spesso all’aria o capovolte, come gli uomini e i loro destini, a seconda dei capricci degli attori, delle casse, in cui rintanarsi e chiudersi in sé, che all’occorrenza possono divenire montagne da scalare, e un pianoforte.

A campeggiare, allora, è ancora una volta la potenza magica e creatrice delle parole, che, da sole, riescono a mettere in moto una tragedia, a distruggere o innalzare gli uomini e le loro vite, i regni e le loro sorti.

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