“Luca Ronconi. Il palcoscenico dell’utopia” a cura di Massimo Luconi
di Antonio Garofalo
11 Nov 2017 - Libri
Il regista teatrale Massimo Luconi ritorna con la memoria alle origini. Lo fa scrivendo un volumetto affabile sul maestro (sebbene il diretto interessato preferisse evitare il termine) Luca Ronconi.
Alla dettagliata biografia per date e opere del compianto regista segue il racconto appassionato del legame che innesta in un giovane Luconi l’amore per “l’utopia del teatro”.
Siamo nei roventi anni Settanta, e l’apprendista rimane colpito dal mostro sacro. Ronconi, infatti, si rende disponibile ad allestire il Laboratorio di Prato, un seminario pratico durante il quale si dà in toto. Lavora instancabilmente a contatto con i giovani, esprimendosi con una severità e un cinismo di forte impatto:
A volte posso risultare anche sgradevole, ma perché non dovrei dire a un attore, durante una lezione o una prova, che sta facendo una cosa orribile, rispetto a sé stesso e rispetto ai compagni. Cercare a ogni costo il consenso degli allievi, se sei uno che insegna, mi sembra una sciocchezza.
È in questo spazio privilegiato e caratterizzato da un’esigenza estrema che il novizio Luconi compie, con timore reverenziale e malcelata ammirazione, la propria Bildung teatrale.
L’allestimento dell’Orestea di Eschilo mette Luconi di fronte alla concretizzazione della catarsi, della purificazione come la intendevano i tragici greci. Il pubblico della rappresentazione del 1974 è infatti racchiuso da Luca Ronconi, tramite una sapiente costruzione scenica, nella stessa “scatola” in cui sono presenti gli attori, diventando compartecipe delle vicende drammatizzate.
Il percorso rievocato porta il tirocinante Massimo a diventare gradualmente amico del regista, saggiandone il forte distacco dagli ambienti professionali e al contempo la semplicità spiazzante delle conversazioni quotidiane. L’esempio principe di questa schietta nostalgia delle radici (Ronconi è nato in Tunisia) si ritrova nel viaggio in Senegal che i due intraprendono nel 2004. L’allievo osserva una pacifica conversazione fra Ronconi e un anziano del villaggio che li ospita, “con la stessa attenzione e concentrazione che avrebbe avuto durante una cena con Umberto Eco”.
Allievo di Orazio Costa all’Accademia di arte drammatica, cui riconosceva un innato talento nella direzione degli attori, Ronconi non aveva parole altrettanto tenere per Giorgio Strehler, fautore dal suo punto di vista di una regia fortemente enfatica e formale.
L’autore del libro gli riconosce un approccio basato sulla rimodulazione dello spazio e sul coinvolgimento di tutte le figure professionali che operavano “dietro le quinte”: l’importanza delle luci, ma anche il gioco plastico del continuo ricollocamento del pubblico, come una sorta di macchina da presa, delinea i contorni di una concezione di teatro che sa ascoltare l’ambiente che lo ospita. Un’idea registica geniale, che si contraddistingue proprio “per aver trattato il palcoscenico per quello che è, ossia una macchina, un luogo di artificio”.
Leggendo questo volumetto emerge in particolare il carattere pungente di un’istituzione del palcoscenico, che con le istituzioni ha sempre intrattenuto rapporti di cordiale antipatia, e in conclusione la dedizione professionale di Luca Ronconi nella provocazione, l’ossessione metodica e passionale per un teatro sì meraviglioso e onirico, ma anche fuori dagli schemi, davvero utopia e modello degno di essere ricordato.