L’”Otello” trionfa al ROF


di Andrea Zepponi

19 Ago 2022 - Commenti classica

Otello, in scena per il Rossini Opera Festival alla Vitrifrigo, ha trionfato. Il ROF dimostra ancora tutta la sua potenza e il suo splendore.

(Ph Amati Bacciardi)

La storia teatrale di Otello ha sempre avuto due caposaldi principali: la negritudine del protagonista e i forti richiami a Venezia. L’opera di Rossini del 1816 è molto lontana da Shakespeare per la mediazione del dramma francese di J. F. Ducis da cui il poeta Berio di Salsa adattò il suo libretto per il San Carlo di Napoli dove l’azione si svolge interamente a Venezia, mentre nell’originale la città lagunare si vede solo nel prim’atto, poi il dramma si sposta a Cipro. Ciò rende il capolavoro di Rossini un tipo di opera che fa parte di quel filone veneziano, di grande fortuna ottocentesca, che intendeva presentare a teatro la suggestione di Venezia in senso scenografico e che si ritroverà in tante altre opere dello stesso tipo di altri autori. La regia di Rosetta Cucchi in nuova produzione per l’Otello ossia il moro di Venezia rossiniano, andato in scena per il ROF alla Vitrifrigo l’11 agosto scorso, ha trionfato pur non avendo proprio nulla di veneziano (non s’è vista neppure la prua di una gondola neanche durante l’evocativo intervento del gondoliere) e nulla della negritudine del protagonista che, lungi dall’essere tinto di scuro, aveva una barba che al massimo lo poteva associare a una fisionomia nordafricana, magrebina. Desdemona, sempre più o meno rappresentata bionda secondo un ben noto cliché, in questo caso era rigorosamente bruna. Senza fare troppe illazioni sugli assurdi diktat della odierna cancel-culture che vieterebbero di rappresentare la violenza assassina esercitata da un negro per di più su una donna bianca – anzi le note di sala della Narici avanzano la questione sulla reale etnia di Otello poiché nella storia interpretativa teatrale il protagonista non sempre si è tinto la pelle – quanto sembrava preponderante nella messa in scena era invece l’idea continua da parte della regista di far passare la vicenda soprattutto come esempio di femminicidio nell’alta società odierna, anche se nel testo sono innumerevoli i riferimenti alla diversità dichiarata e perfino autopercepita di Otello.

Proiezioni in bianco e nero con suggestivi filtri ai lati del palco facevano andare titoli di cronaca nera fotografie e filmati, come “luoghi della memoria” che riproducevano momenti lieti della femminilità infantile e adulta ma anche le violenze oscene della cosiddetta maschilità tossica. Ciò non disturbava affatto la centralità della vicenda che si svolgeva in modo chiaro, preciso e coerente con l’idea di base resa plausibile dalla pertinenza e sontuosità dei costumi di Ursula Patzak, di suppellettili sceniche, dalla funzionalità cronotopica dei piani del palcoscenico e dalla scelta della scenografia di Tiziano Santi di muovere il dramma tra ambienti ufficiali o di rappresentanza festante (un lunghissimo tavolo ne diveniva il simbolo oggettuale) e altri di casalinga banalità, la stanza della lavanderia e da stiro dove si svolgeva quasi tutto il secondo atto. Ovviamente non ci si poteva aspettare di vedere la camera di Desdemona nel terzo, sarebbe stata troppo tradizionale e troppo legata agli stereotipi: il maschio assassino uccide dappertutto; Desdemona veniva uccisa a un capo di quel tavolo testimone di quasi tutta la vicenda; anzi il bruciante finale rossiniano, reso atipico dalla regia, individuava due dimensioni incomunicabili e dissociate, quella reale del delitto in primo piano e quella mentale e utopica sullo sfondo del tripudio di Elmiro che perdona festeggiando con gli altri come “sarebbe potuta essere la vita in assenza di invidie, gelosie, differenze sociali e pregiudizi”; peraltro la eleganza di ambienti e costumi non faceva avvertire troppo l’assenza di qualsiasi riferimento a Venezia, forse al fine di non limitare geograficamente e culturalmente la denuncia della violenza maschile. È inoltre noto quanto la particolare struttura musicale dell’Otello rossiniano e la insolita distribuzione delle arie renda l’opera complessa per i cantanti sebbene tutto sembri liricamente compendiarsi e raccogliersi nella celeberrima Assisa appiè d’un salice offerta da Rossini solo all’inizio del terz’atto, ma solo dopo l’exploit virtuosistico della stessa interprete alla fine del secondo Che smania? Ahimé! Che affanno? – L’error d’un infelice. Personaggi importanti come Jago ed Emilia non hanno momenti lirici solistici e l’opera si articola per lo più in arcate di duetti e concertati fra cui le sole arie sono quella iniziale di Otello, quella di Rodrigo e le suddette di Desdemona. Per gli interpreti di questa edizione è stata impresa eroica spandere la propria vocalità in un ambiente tanto vasto come la Vitrifrigo e la direzione magniloquente del  M° Yves Abel alla testa della maestosa e densa di colori timbrici Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI; un encomio particolare all’arpista e al suo assolo nella canzone del salice.

Le capacità vocali di tutta la compagnia di canto erano tuttavia suffragate dal necessario risalto loro impresso dalla regia: la Desdemona di Eleonora Buratto, soprano lirico di coloratura, ha potuto affrontare l’arduo ruolo con una tenuta sorprendente di tutti i registri di quella che è una parte Colbran a tutti gli effetti, quindi fondata su tessitura medio-acuta; l’accesa agilità, esibita per inconsuete forme rossiniane classiciste già presaghe di romanticismo, non ha evitato nel fraseggio alcune novità estese dalle scelte direttoriali anche agli altri interpreti, per esempio la squisita ineguaglianza nei passaggi ascendenti e discendenti e puntati (attacchi a tempo lento e indi accelerati secondo l’estetica belcantistica) e nei passi in progressione e i languidi portamenti tra un verso e l’altro della canzone del salice.

Se l’emozione e il brivido per la bellezza vocale della Buratto (in quella scenica un succinto costume ne faceva risaltare tutte le prosperose formosità) erano al top, l’esaltazione per le prodezze dei tenori, soprattutto quelle di Enea Scala in Otello che ha sfoderato un registro medio grave sorprendente e di Dmitry Korchak in Rodrigo hanno fatto raggiungere al pubblico punte di autentico delirio per la potenza e avvenenza virile delle voci che al gusto del pubblico odierno piace tanto sentir empire un’arena o grandi spazi in presenza di un’orchestra che viaggia su diapason più alto di quello rossiniano e su strumenti odierni con corde di acciaio. Al di là dell’ammirazione per la bellezza e il virtuosismo delle voci (Korchak ha avuto però una lieve défaillance sul re sovracuto di volta nel confronto duettante con Scala Ah vieni, nel tuo sangue), tuttavia ci si chiede quale sia il vero approccio filologico in un’opera dove agiscono ben tre tenori primi (più due comprimari, Doge e gondoliere) dal punto di vista della tecnica vocale che certo prevedeva al tempo l’impiego di baritenori il cui registro acuto (almeno sopra il la3) e sovracuto erano però rigorosamente raggiunti con quel famoso falsettone di cui tanto scrive Rodolfo Celletti e che Rossini contemplava come perfettamente lecito per la sua estetica vocale e musicale. Con tutto l’entusiasmo che possiamo provare per queste voci eclatanti, oggi siamo condizionati da quasi due secoli di tenorismo ben diverso da quello che intendeva il Pesarese e perciò crediamo di apprezzare solo voci che cantano “di petto” perché devono superare la barriera sonora di un’orchestra altrettanto differente da quella che suonava ai tempi rossiniani. Le sonorità erano ben diverse. È per questo che ci si aspetta di trovare un Antonino Siragusa, tenore contraltino dalla vocalità e tecnica perfette, al posto di Rodrigo affidato in questa occasione a Korchak ch’è, con tutta la sua bellezza vocale, al massimo un tenore donizettiano e protoverdiano proprio com’è Enea Scala il quale, con tutta la sua maschia ampiezza vocale, meravigliosa in altri ruoli di tenore di grazia e di mezzo carattere, sembrava soggetto a qualche costrizione nella zona acuta e sovracuta. Con altrettanta riverenza per il grandioso recupero del repertorio rossiniano, si deve rilevare che il recupero filologico dell’emissione tenorile non è stato pienamente compiuto e quanto ascoltiamo oggi al ROF non corrisponde appieno alla originaria estetica belcantistica rossiniana. Detto questo, nulla si toglie al valore degli interpreti, artisti a tutto tondo, valorosi per tenuta scenica e vocale, cui si uniscono i personaggi deuteragonisti di una operazione eclatante e di eccelsa qualità per i nostri tempi e la nostra sensibilità: il mezzosoprano grave tendente al contralto Adriana Di Paola in Emilia dalla vocalità sensibile e messa bene in risalto dalla regia per un ruolo che coincide con gli “occhi del ricordo”; ben spiccato anche il basso Evgeny Stavinsky in Elmiro, meno stagliate le vocalità di Julian Henao Gonzales nel doppio ruolo di Lucio / Gondoliero e di Antonio Garés nel Doge. Lo splendido Coro del Teatro Ventidio Basso diretto dal M° Giovanni Farina ha fatto il resto con ampiezza di accenti seguendo le personali scelte tempistiche rossiniane della direzione.

Alla fine, un pubblico entusiasta e acceso ha onorato con ripetute dimostrazioni lo sforzo artistico e interpretativo di tanti meravigliosi artisti, anche valorosi veterani come Siragusa, che hanno dato il meglio di se stessi per un ROF che dimostra ancora tutta la sua potenza e il suo splendore.

Otello

Vitrifrigo Arena
11, 14, 17 e 20 agosto, ore 20.00
Dramma per musica di Francesco Berio di Salsa
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica Fondazione Rossini/Ricordi, a cura di Michael Collins
Direttore YVES ABEL
Regia ROSETTA CUCCHI
Scene TIZIANO SANTI 
Costumi URSULA PATZAK

Interpreti
Otello ENEA SCALA
Desdemona ELEONORA BURATTO
Elmiro EVGENY STAVINSKY
Rodrigo DMITRY KORCHAK
Iago ANTONINO SIRAGUSA
Emilia ADRIANA DI PAOLA
Lucio / Gondoliero JULIAN HENAO GONZALEZ
Doge ANTONIO GARÉS
 
CORO DEL TEATRO VENTIDIO BASSO
Maestro del Coro GIOVANNI FARINA
ORCHESTRA SINFONICA NAZIONALE DELLA RAI
 
Nuova produzione
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