Lonquich suona Beethoven a Siena
di Marco Ranaldi
2 Ago 2010 - Commenti classica
SIENA. La perfezione stilistica, il ritrovato romanticismo e tutto quello che è oggi poco commisurato con la funzione del pianista musicista, ritrovano nell’arte di Alexander Lonquich una pura realtà d’intenti e di voleri. à infatti suo il progetto di proporre i Cinque concerti per pianoforte e orchestra di Ludwig van Beethoven in un’unica soluzione, cioè nella continuità temporale che permetta all’ascoltatore di recepire un flusso continuo e all’esecutore di creare una patina di tempo che poco lo accosti ai ritmi delle comuni esecuzioni. Così nella veste acustica e ricercata della Chiesa di S. Agostino a Siena, a conclusione della 67 Settimana Musicale Senese, Lonquich ha dato una lettura di Beethoven da far rabbrividire al solo pensiero. E così è stato, la sua magistrale esecuzione ha travalicato il gusto del Beethoven che conoscevamo nelle tante esecuzioni di altri colleghi di Lonquich: quello che stupisce in questa nuova impresa è il suono, il carattere del suono, del ritmo. Lì dove non può arrivare il senso comune di suonare Beethoven, arriva la fantasia e lo studio, elementi fondamentali per capire questo nuovo Beethoven. Infatti ciò che colpisce della direzione di Lonquich è che non si accanisce a segnare ogni passo dell’orchestra ma testualmente invita al fraseggio, alla ricercatezza di comuni intenti. à difficile stabilire in parole questa magia d’incanto creata da Lonquich: si può semplicemente dire che la genialità di un esecutore sta nel rendere una partitura unica. Ecco questo è successo con Lonquich e con il miracoloso gruppo dell’Orchestra da Camera di Mantova.
Alla base di questa rinnovata lettura beethoveniana c’è una profonda conoscenza e quindi uno studio di come probabilmente lo stesso compositore suonava i suoi concerti. C’è sicuramente la ricercatezza di uno stile che da un concerto all’altro cambia e muta l’atteggiamento sonoro che si definisce più vicino ai nostri ascolti proprio con il quarto e con il quinto concerto. Ed è quasi come un gioco che Lonquich stipula un perfetto accordo con la sua orchestra che diviene un tutt’uno, una sinestesia miracolosa di fare bene la musica.
Filologicamente la maratona è stata aperta dal secondo concerto che storicamente è stato scritto prima del primo e la differenza è notevole e si sente: quasi un esercizio mozartiano e haydniano il primo, mentre il secondo diventa invece già romanticismo, già pathos, dove si riconosce la cifra stilistica della scrittura beethoveniana. Mentre sia il quarto che l’imperatore appartengono ad una fase già avanzata della scrittura del nostro compositore, ci sorprende sempre il terzo concerto, ricco di riferimenti e di fermenti, dove la trama musicale si accosta e si associa a quella filosofica, ad un passaggio fondamentale in un’epoca in cui la febbre del sapere, dei cambiamenti era molto sentita. Bene, in tutto questo Lonquich ci regala forse l’interpretazione più intensa della kermesse, riuscendo a trascinare quasi fisicamente l’ascolto del Largo dell’op. 37 nel quale riesce a creare una sospensione temporale di una raffinatezza unica, di una ricercatezza che è veramente patrimonio di chi conosce a menadito la letteratura pianistica e non solo.
I due concerti in cui si è divisa l’esecuzione si sono sempre conclusi con i generosi bis di Lonquich che si è divertito a regalare prima due bagatelle e poi l’ouverture dall’Egmont, così come se fosse la cosa più naturale di questa terra.
E noi abbiamo sorriso e goduto a tanta semplicità nel rendere dei capolavori di bellezza così aerei e delicatamente ricercati in un tempo in cui è più facile urlare che regalare emozioni.