“L’equivoco stravagante” trionfa al ROF


di Andrea Zepponi

16 Ago 2024 - Commenti classica

Ritorno di grande successo al ROF de “L’equivoco stravagante”, al Teatro Rossini. Grande qualità dell’apparato musicale e ottime scelte per la messa in scena.

(Foto Amati Bacciardi)

La verve comica deL’equivoco stravagante di Gioachino Rossinidramma giocoso, andato in prima al Teatro Rossini di Pesaro il 12 agosto, venne espressa dal Pesarese nel 1811 ed è anche la più sboccata nel suo genere, tanto che al suo primo apparire a Bologna conobbe le vessazioni di una censura intransigente e venne bollata con un successivo giudizio severo e unilaterale che stigmatizzò il libretto di Gaetano Gasbarri come “volgare, ignobile, osceno, privo d’intreccio e di qualsiasi interesse”.

In realtà, dimostra Fabio Rossi nel suo saggio La lingua equivoca di Gaetano Gasbarri, la natura comica de L’equivoco stravagante si basa tutta sulla corrispondenza di una fenomenologia linguistica, mai fine a se stessa, al carattere dei personaggi che viene condotto con grande abilità nel gestire il linguaggio e con mano sicura nel dipanare l’intreccio pur nella farragine propria del genere farsesco.

L’elemento biotico è preponderante e costituisce la sostanza della vis comica proprio come nella commedia latina di Plauto con il suo italum acetum: alla stregua dell’antico commediografo Rossini sceglie un soggetto non condizionato da parametri moraleggianti e accoglie per la sua musica un linguaggio spregiudicato e risemantizzato attingendo alla comicità pura sbrigliata da vincoli didascalici o perbenisti.

Le gag lubriche e i doppi sensi di cui il libretto è disseminato presagiscono tanta comicità verbale di tanti film con Totò e Peppino e sono antesignani della diegetica cinematografica cui, nella scenografia, alludeva il quadro centrale della scena che diveniva teatro nel teatro praticato da vari personaggi. In effetti la scena era organizzata su tre piani (proscenio, palcoscenico e riquadro centrale) delimitati da spesse cornici dorate, intesi perciò come quadri scenici in cui entravano gli interpreti o da cui uscivano per significare fuoriuscita o rientro nella convenzione teatrale.

L’edizione dell’opera con la regia di Moshe Leiser e Patrice Caurier è la stessa andata in scena alla Vitrifrigo nel 2019 e quest’anno al Rossini ha trovato la sua collocazione ideale con la scena unica realizzata da Christian Fennouillat, le luci di Christophe Forey e i costumi ottocenteschi di Agostino Cavalca, ha attinto dallo spirito plautino alludendo alla commedia atellana fatta di maschere con lunghi nasi e prominenti didietro (i personaggi-maschere di Maccus e Pappus) in un felice equilibrio che non ha rinunciato a osservare il testo e i suoi valori: la scenografia presentava l’interno dalla tappezzeria sgargiante della casa di Gamberotto dove al centro un quadro agreste piuttosto naif raffigurante mucche e villaggio campestre ricordava le origini rurali del rimpannucciato parvenu che vuol sistemare la figlia intellettualoide Ernestina con il ricco Buralicchio, ma la ragazza è corteggiata anche dal giovane e squattrinato Ermanno, che con l’aiuto dei servi Frontino e Rosalia riesce a farsi assumere come precettore in casa dell’amata.

Anche qui si coglie lo schema della commedia latina dove il servus complice è il motore primario della vicenda nel punto in cui Frontino, al fine di sventare il matrimonio già combinato tra Ernestina e Buralicchio, mette a segno l’equivoco stravagante facendo leggere a quest’ultimo una falsa lettera in cui si rivela che Ernestina è in realtà Ernesto, un musico castrato, che ha vestito i panni femminili per non fare il servizio militare; Buralicchio, indispettito per il presunto inganno, denuncia l’ignara Ernestina per diserzione da cui seguono l’imprigionamento e la fuga della fanciulla, poi liberata da Ermanno che avrà il suo amore e la sua mano una volta chiarito l’equivoco con il consenso di Gamberotto.

Tutte situazioni esilaranti gestite in modo elegante e arguto dalla regia che ha attuato, tra l’altro, gustose scene di tableau vivant con il Coro del Teatro della Fortuna di Fano di camerieri in tablier e di soldati da operetta diretto dal M° Mirca Rosciani e ha mosso gli interpreti sul palcoscenico del Rossini con efficacia e rispetto per il profilo scenico-vocale di Maria Bakarova (Ernestina), di Nicola Alaimo (Gamberotto), di Carles Pachon (Buralicchio), di Pietro Adaino (Ermanno), di Patricia Calvache (Rosalia) e di Matteo Macchioni (Frontino), tutti valenti per qualità vocali e presenza scenica irresistibili: fra essi si è apprezzata soprattutto la tenuta vocale di Alaimo, la cui grandezza vocale e attoriale, esilarante di suo come sempre, si è cimentata nel ruolo del bourgeois gentilhomme che le spara grosse con l’eleganza di un personaggio da vaudeville;  una per tutte la battuta: Ebben ti voglio legalmente legar. Sia questo il buco! che provoca l’interrogativo di Buralicchio: Che buco? –e Gamberotto risponde: Oh talpa! Il foro dove esaminerò gli appelli tuoi per formalmente giustiziarti poi; la Bakarova versatile mezzosoprano, nella tessitura contraltile di Ernestina, la più grave fra i ruoli del genere in Rossini, cui la regia ha conferito un verosimile sviluppo psicologico da ragazza introversa e disadattata a donna consapevole delle proprie concrete scelte di vita dopo aver provato la forza dell’eros; l’ampio ventaglio timbrico di Pachon ben connotato dalla regia come bellimbusto intraprendente e vanesio che ha gareggiato con Alaimo nel riempire vocalmente la sala e ha delineato un personaggio dinamico tra il serioso e il faceto, a tratti spalla di Gamberotto, a tratti di Ernestina, sempre comunque brillante di luce propria.

Il colore pieno ed eloquente di Adaino, con emissione in linea con l’estetica tenorile rossiniana, ha dato corpo a un amoroso ben definito che incarna il personaggio plautino, trasposto in sede rossiniana, aiutato dal servus a penetrare in casa dell’amata; infine l’incisività del profilo scenico-vocale della coppia complice Calvache-Macchioni, servitori arguti e spiritosi che innescano il meccanismo stravagante della trama.

Pachon, Alaimo, Barakova

La regia ha trattato la messa in scena dell’opera come una commedia brillante di prosa rimanendo attenta ai tempi musicali e alla struttura del genere osservando con intelligenza il dettato testuale e musicale. E proprio per affermare l’identità dei solisti, dopo aver imposto a ciascuno di loro la maschera dal lungo naso, ha voluto che alla fine dell’opera tutti se la togliessero per ricevere i dovuti e scroscianti applausi del pubblico.

Nel comparto orchestrale il direttore Michele Spotti sul podio della Filarmonica Gioachino Rossini ha seguito l’edizione critica dell’opera della Fondazione Rossini conferendo al suono strumentale una densità e una pienezza di indiscussa bellezza tanto da non far chiedere altro a un pubblico divertito e conquistato da un’opera che si rivela invero raffinata e leggibile a vari livelli come ha dimostrato il lavoro profondo ed efficace della sceno-regia e di tutti gli interpreti acclamatissimi alla fine dello spettacolo.

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