L'addio a Luciano Pavarotti


Alberto Bazzano

9 Set 2007 - Commenti classica

A Modena erano in tantissimi per l'ultimo commosso saluto a Luciano Pavarotti. Già a partire dal tardo pomeriggio di giovedì, una folla composta, ordinata, attendeva per sostare un attimo di fronte al feretro del grande tenore. Pavarotti, vestito come in uno dei suoi concerti, teneva fra le mani il fazzoletto bianco, simbolo della sua arte in tutto il mondo. Chi entrava nel Duomo (dove era allestita la camera ardente) riceveva un ricordo fotografico recante le parole di un salmo: E ti rialzerà , ti solleverà su ali d'aquila, ti reggerà sulla brezza dell'alba, ti farà brillare come il sole, così nelle Sue mani vivrai . Non diversamente dagli altri, anch'io, a Modena, ho reso omaggio al grande Luciano. Come appassionato, volevo ringraziare chi, negli Anni Ottanta, attraverso la sua voce riprodotta dal disco, mi aveva avvicinato al fantastico mondo dell'opera. Come critico, volevo rendermi partecipe di un evento singolare. Nel commosso congedo dall'artista, riviveva, infatti, per un attimo, lo splendore di un'epoca aurea per sempre dissolta. Era dai funerali di Beniamino Gigli che non si registrava una così oceanica partecipazione alle esequie di un tenore italiano. Ma nel 1957 anno della morte di Gigli – non c'era da stupirsi: l'opera era ancora un fatto popolare e Gigli, il cantore del popolo , era un'autentica divinità . Oggi la mitologia è formata da attori, calciatori e personaggi della televisione. Meno spazio è accordato, invece, ai cantanti lirici. Proprio per questo Pavarotti rappresenta l'isola felice, l'artefice di una straordinaria e macroscopica inversione di tendenza che inorgoglisce chi nella musica crede e nell'opera spera. Sappiamo bene che le ragioni del successo del Modenese non riposano nella voce soltanto, ma nel formidabile lavoro di promozione dell'immagine operato quotidianamente. Ciononostante il mio ricordo vuole andare al cantante che, specie in Bellini e Donizetti, ha saputo commuovere ed entusiasmare. Conobbi Pavarotti nel 1996 per il centenario di Bohème al Regio di Torino. In quella occasione mi rilasciò un'intervista nella quale illustrò il suo modo di intendere il personaggio di Rodolfo. Successivamente lo ascoltai in scena, traendone una notevolissima impressione. La voce era squillante, facile nell'acuto ed integra, come se avesse debuttato il giorno prima. Aveva proprio avuto ragione il critico americano Schomberg quando affermò che Dio gli aveva baciato le corde vocali. Pavarotti è certamente la voce più importante del secondo dopoguerra. Un prodigio della natura che non ha eguali. I limiti espressivi (l'uso limitato della mezzavoce, il fraseggio spartano, l'imperfetta quadratura musicale, che in questi giorni certa critica ha impietosamente ricordato) non erano di ostacolo al raggiungimento del traguardo. Il pubblico era soggiogato da quella emissione argentea che traduceva i suoni in pure emozioni. Che altro si può chiedere ad un artista se non di emozionare? All'approccio analitico sfugge, infatti, la visione dell'insieme, in questo caso rilevantissima, poichè consente di collocare, doverosamente, Pavarotti nell'empireo dei grandi.
(Alberto Bazzano)


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *