La Traviata delle Muse. Una regia che fa di Violetta l’assoluta protagonista
di Alberto Pellegrino
30 Set 2019 - Commenti classica, Musica classica
Presentiamo il parere di Alberto Pellegrino sulla regia di Stefania Panighini della “Traviata” presentata al Teatro delle Muse di Ancona per la stagione lirica 2019.
La stagione lirica 2019 del Teatro delle Muse di Ancona si è aperta il 20/22 settembre con La traviata di Giuseppe Verdi, di cui ha ampiamente parlato la collega Roberta Rocchetti in modo puntuale ed esauriente per quanto riguarda la parte musicale e la positività del cast. Mi limiterò pertanto a un fare un commento della messa in scena che la collega ha criticato, mentre io la considero il risultato di un interessante progetto registico.
La regista Stefania Panighini, diplomata all’Accademia di Arte Drammatica e al Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino, laureata in musicologia, ha acquisito una notevole esperienza in campo teatrale e operistico che le ha consentito di avere alle spalle un curriculum artistico di tutto rilievo con lavori orientati verso la musica barocca e il Settecento, Rossini, Puccini e il repertorio contemporaneo. Rare le frequentazioni verdiane fatta, eccezione per un Rigoletto e soprattutto per una Traviata messa in scena per la Dallas Opera e per il Wexford Opera Festival.
Quello delle Muse è il terzo appuntamento con l’ormai conclamato mito di Violetta e mi è sembrato che il progetto della Panighini parta dalla volontà di allontanarsi dal mito e dal modello della prostituta, della mantenuta, della cortigiana redenta e pronta a diventare l’angelo del focolare domestico, per portare invece al centro della scena la donna: “Guardate piuttosto alla mia libertà, alla mia cultura, alla mia ambizione, al mio coraggio e soprattutto alla mia emancipazione. Mi chiamo Alphonsine, mi chiamo Marie, mi chiamo Marguerite, mi chiamo Violetta, mi chiamo Camille, mi chiamo Satine: non importa più il passato, oggi e per sempre sono una donna e tutte le donne.”
La regista scava nel passato di questa eroina con un’operazione di archeologia letteraria, passando dalla Violetta di Piave e Verdi, per passare attraverso la Maguerite Guatier un po’ sdolcinata e avvolta in un’aura romantica disegnata nel romanzo e nel dramma La signora della camelie da Alessandro Dumas figlio, per approdare infine alla vera Marie Duplessis (1824-1847). La giovane nasce in un piccolo paese della Bassa Normandia da una nobile decaduta e da un commerciante alcolizzato e violento che a 14 anni l’avvia alla prostituzione e a 15 la spedisce a Parigi, dove per vivere fa la sarta, la lavandaia, la commessa. Ma nella splendente capitale francese, dove pulsa un’intensa vita intellettuale e mondana, la giovane assume il nome di Alphonsine Rose Plessis e a soli 16 anni, sfruttando la sua bellezza e la sua naturale e raffinata eleganza, diventa una delle più apprezzate cortigiane parigine.
“Perché mi sono venduta? Perché un lavoro onesto non mi avrebbe mai dato il lusso di cui avevo un desiderio sfrenato. Qualsiasi cosa possiate pensare, non sono mai stata interessata o viziosa. Volevo soltanto conoscere le raffinatezze di una società colta ed elegante”.
La regia sfrutta al meglio la bella scenografia ideata da Andrea De Micheli e le atmosfere intense e suggestive create dalle luci di Michele Cimadomo. All’interno di una geometrica e minimalista scatola bianca, con una piattaforma centrale che cambia con il mutare delle situazioni, vive la protagonista racchiusa in un hortus conclusus dove lei è la regina incontrastata, mentre quel gran monde di aristocratici e borghesi, che lei ha ormai conquistato, sta al di là delle quattro porte che si schiudono solo quando lei decide di aprire il confine tra quel “popoloso deserto che appellano Parigi” e la sua vita interiore.
La cifra di questa storia diventa la solitudine: Violetta è sola durante la festa e il celebre brindisi; è sola persino nella successiva scena a due, quando si confronta-scontra non tanto con Alfredo ma con i suoi nuovi sentimenti amorosi; è sola nella sua villa-giardino durante il scontro con l’intruso, perbenista e conformista papa Germont; è sola persino quando proclama il suo celebre manifesto d’amore per Alfredo. È soprattutto sola quando sa di aver riconquistato la sua primitiva purezza nella consapevolezza della morte, l’atto supremo che si affronta in assoluta solitudine e in un totale silenzio, infranto solo per un attimo quando, dalle quattro porte spalancate sul mondo, irrompono le grida festose del carnevale che impazza per le vie di Parigi.
Nell’evolversi della vicenda Alfredo è relegato ad essere una necessaria appendice, perché Violetta-Alphonsine vuole dialogare con gli spettatori per imporre la sua storia e la sua personalità al di fuori del tradizionale pathos ottocentesco che è invece sottolineato per contrasto dai costumi e dalla stereotipata gestualità degli altri personaggi.
L’unica eccezione in questa visione registica si ha nel secondo atto (scene IX-XV), quando Violetta-Alphonsine è costretta dagli eventi a rientrare in quel mondo luccicante che aveva deciso di abbandonare per tornare ad essere ancora vittima delle convenzioni e della violenza maschile. La Panighini fa in questo atto una scena coraggiosa: elimina il folclore delle zingarelle e dei toreador e nel primo caso converte le dame dell’alta società in maghe di se stesse raccolte intorno a una sfera luminosa per scrutare il proprio futuro; nel secondo caso trasforma la vicenda amorosa di Piquillo “biscaglino matador” con “la bella ritrosetta-andalusa giovinetta” in una danza coinvolgente ed erotica tra una sensuale fanciulla e un angelo-demonio dalle ali dorate. In questa storia, che “diventa – dice la regista -un giardino dello spirito, dove fiorisce e sfiorisce una donna, che con molti nomi, passa dalla vita reale alla letteratura, alla musica, per fissarsi nell’immaginario collettivo come un archetipo della femminilità”, la regia inserisce come “metafora dell’esistenza umana”, con una felice intuizione freudiana, tre figure femminili che riemergono dal subconscio della giovane cortigiana e l’accompagnano tutto il suo percorso esistenziale: da bambina nel primo atto; da acerba adolescente nel secondo atto; da giovinetta nel terzo atto, mentre stringe fra le braccia quel figlio avuto a 17 anni e subito strappato alla sua vita, soffocando in lei ogni anelito di maternità. Queste tre figure si riuniscono idealmente nello splendido finale, per incamminarsi verso la grande finestra di luce che si è spalancata sul fondo della scena per ricordare che la vicenda umana di Violetta-Alphonsine ha assunto ormai una dimensione ultraterrena.