La Stagione lirica del Teatro delle Muse


Alberto Pellegrino

25 Giu 2010 - Commenti classica

<b<ANCONA. La Stagione lirica 2010 del Teatro delle Muse di Ancona è stata inaugurata con due rare opere del Novecento. Un'idea originale e felice è stata quella di unire Hin und zuruck (Andata e ritorno) di Paul Hindemith e Marcellus Schiffer con L'heure espagnole(L'ora spagnola) di Maurice Ravel e Franc-Nohain, perchè un fil rouge, fatto di tre elementi, lega i due lavori: l'ironia e il grottesco, il tema del tempo che scandisce le azioni umane; il tradimento che segna le due storie.
Nel primo sketch con musica Helene sta facendo colazione, quando arriva il marito per portargli il regalo di compleanno. Una cameriera consegna una lettera alla donna, la quale si giustifica dicendo che è un biglietto della sarta per poi ammettere che è un messaggio del suo amante. Sconvolto dalla gelosia il marito la uccide, quindi divorato dai rimorsi si getta dalla finestra, mentre un medico e il suo assistente rimuovono il cadavere. E'una tragedia? Niente affatto perchè tutto si riavvolge e ritorna al punto di partenza, per ritornare al momento in cui il marito porge il suo dono ad Helene.
Siamo nella Germania degli anni Venti e giustamente il giovane regista Stefano Poda, che ha curato l'intera messa in scena (regia, scene, costumi e coreografie) ha citato con elegante intelligenza ed ironia lo stile del cabaret tedesco con ampie citazioni futuriste (soprattutto nelle coreografie dei danzatori meccanizzati), le atmosfere espressioniste di Kurt Weil e del primo Berthold Brecht, il tutto sottolineato da un disegno delle luci molto raffinato. In questa operina , che dura soltanto 12 minuti, viene affrontata una concezione del tempo che si può svolgere e di nuovo arrotolare all'indietro come la pellicola di un film, secondo una filosofia incarnata dal misterioso personaggio del Saggio che dice: Nessuno ha pensato all'intervento del sommo potere. Esso avversa profondamente l'uccisione di essere umani per futili motivi. Bisogna fare senz'altro qualcosa. Visto dall'alto, non ha gran peso se l'esistenza umana proceda dalla culla fino alla morte o dalla morte alla nascita. Rovesciamo quindi il destino. Vedrete, la logica non muterà di una capello e tutto andrà bene come prima . Si tratta di una felice intuizione artistica che, molti anni più tardi, avrà in un contesto completamente diverso il regista Stanley Kubrik nel suo film-capolavoro Odissea nello spazio 2001.
Si passa senza alcun cenno di pausa o interruzione (questa è una delle intuizioni registiche più felici) alla commedia musicale di Ravel, dove Torquemada (ironico nome di un inquisitore) è un pacifico orologiaio che regola gli orologi di tutti gli edifici pubblici e religiosi del paese. Prima di uscire, egli dice alla focosa moglie di ospitare un giovane mulattiere, ma Conception deve riceve il poeta Gonzalve, suo giovane amante. Per restare sola, la donna ordina al mulattiere di trasportare una grande pendola in un'altra stanza, ma ecco arrivare un altro spasimante, il banchiere Don Inigo, per cui Conception fa nascondere il poeta nella prima pendola e il banchiere nella seconda. In un frenetico e comico andirivieni di pendole contenenti i due spasimanti, si arriva alla conclusione: il poeta sa solo dilungarsi in liriche disquisizioni; il banchiere sa parlare solo di denaro; Torquemada è felice perchè potrà vendere le pendole perfettamente funzionanti ai due clienti nascosti all'interno; Conception infine sceglie per amante il prestante mulattiere. Naturalmente questa beata ingenuità del marito e questa bollente passionalità della moglie ai tempi di Ravel venne molto contestata e scambiata per una esaltazione dell'adulterio senza cogliere lo spirito comico-grottesco della vicenda.
Il regista Stefano Poda, nel suo allestimento intelligente, elegante e ironica, ha collocato sulla scena tutti i segni del tempo: una grande ruota dentata, una cascata d'acqua, una parete rocciosa corrosa dai secoli, delle clessidre luminose, una sfera oscillante come un gigantesco pendolo, una signora in nero circondata da un grande orologio fatto di scarpe femminili rosse. Nello stesso ha tenuto un ritmo molto sostenuto dell'azione ed ha liberato lo spettacolo di ogni eccesso spagnoleggiante con qualche semplice citazione nei costumi all'interno di un climax decisamente espressionista.
La seconda opera in cartellone è stata Lucrezia Borgia di Gaetano Donizetti, eseguita in concerto sotto la direzione del M Marco Guidarini alla guida dell'Orchestra Filarmonica Marchigiana e del Coro Bellini. Si è trattato di una bella esecuzione, che non ha fatto rimpiangere l'assenza di scene e costumi, perchè caratterizzata dalla presenza di interpreti di notevole valore: <b<Mariella Devia ha cesellato il personaggio di Lucrezia (che dal 2001 è uno dei suoi cavalli di battaglia), riuscendo ad adattare la sua voce di soprano lirico leggero all'intensa drammaticità di Lucrezia l'avvelenatrice. Giuseppe Filianoti, che ha già cantato nei principali teatri d'opera italiani nonostante la giovane età , è uno dei pochi tenori in grado di reggere la parte di Gennaro che richiede una grande impegno vocale senza concessione di pause. Molto bene hanno fatto il mezzosoprano Marianna Pizzolato nella parte di Maffeo Orsini e il giovane basso Alex Esposito che ha conferito una tenebrosa drammaticità al personaggio del Duca Alfonso d'Este.
Felice Romani, autore del libretto (si tratta della sua ultima collaborazione con Donizetti), nel 1833 era ancora tenacemente legato alla tradizione letteraria neoclassica tanto da disprezzare il Barocco e l'Illuminismo, di avere in odio il Romanticismo. Si trovò quindi in un erto senso costretto a lavorare su uno dei testi simbolo del teatro romantico: questa <i<Lucrezia Borgia del detestato Victor Hugo. Il grande scrittore francese, che amava rovesciare in modo polemico alcune situazioni sociali (il buffone Tribolet viene nobilitato dall'affetto per la figlia; il servo Ruy Blas diviene primo ministro di Spagna), in questo caso rimane colpito dal fascino tenebroso di Lucrezia con il suo passato di incesti, uccisioni e veleni, per questo tenta il riscatto della Duchessa di Ferrara attraverso un amore puro verso il figlio illegittimo Gennaro, che tuttavia non riuscirà a salvare dalla morte per veleno. Romani non mette troppo in evidenza l'aspetto sanguigno e passionale della vicenda, anche perchè nel melodramma degli anni Trenta si esaltano figure femminili idealizzate. Donizetti, da parte sua, tende ad accentuare l'aspetto commovente e trepidante della madre (anche se questo non gli evitò le ire della censura per cui questa opera fu una delle più perseguitate) che ha il sopravvento sul carattere violento dell'avvelenatrice che cerca spesso la vendetta anche se la vicenda si conclude con una strage dei suoi presunti nemici fra i quali capita inconsapevolmente anche il figlio Gennaro che rifiuta l'unica dose di antidodo che possiede la madre per seguire la sorte dei suoi amici assassinati.
(Alberto Pellegrino)


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