La splendida “Turandot” dell’Arena di Verona
di Alberto Bazzano
17 Ago 2022 - Commenti classica
Riproposta all’Arena di Verona l’edizione della Turandot ideata da Zeffirelli nel 2010. Immutato il suo fascino. Stella assoluta Anna Netrebko ma ottimo tutto il cast.
(Foto ENNEVI)
10 agosto. San Lorenzo. In verità, poche stelle in cielo, ma almeno una luminosissima in terra. È Anna Netrebko, protagonista di Turandot all’Arena di Verona. Il suo canto ammalia, coinvolge, strega. Sin dalla sortita “In questa reggia”, brano capace di far tremare le vene e i polsi a chicchessia, in forza di una scrittura notevolmente complessa e giacché – cosa non trascurabile – il soprano è chiamato ad eseguirlo a gola fredda. La Netrebko domina lo spartito. Conquista in virtù di un registro acuto facile e sicuro, approcciato in un modo che non sconfina nel grido anche nei passaggi più ostici. Conquista. Soprattutto per la capacità di flettere lo strumento, di assottigliarlo, di smorzarlo all’occorrenza. La sua non è una Turandot di ampio tonnellaggio, che stordisce a suon di bordate. Non ha come modello la Nilsson o la Turner. E neppure Rosa Burstein, in arte Rosa Raisa, alla quale la Netrebko potrebbe essere ricondotta per la comune origine russa. A sentirla viene in mente (almeno vagamente) Gina Cigna che, nei panni della principessa di Pechino, evocava un personaggio fragile, intimamente lirico, pur sotto una coltre protettiva, intessuta di ferro e acciaio.
Al suo fianco Yusif Eyvazov è un Calaf squisitamente areniano. In un certo senso, se non altro, perché Eyvazov l’Arena la frequenta da poco, ma ne ha già intercettato lo spirito. Egli respira con l’orchestra. Cura il legato, che volentieri si fa ampio seguendo le indicazioni della bacchetta. Ma nel guardare il podio dove troneggia lo spartito, non dimentica il pubblico, attento, eterogeneo, questa volta davvero numerosissimo, che siede sulle calde pietre romane. Lo soddisfa con lo squillo che rifulge nella gamma superiore e sugli acuti, tenuti a dismisura. È il caso del si naturale, sull’ultimo “vincerò” della romanza del terzo atto, che fa scaturisce la richiesta di bis, prontamente concesso. È il caso del do4, nell’alternativa contemplata dalla partitura, in corrispondenza dello slancio “ti voglio ardente d’amore”.
Supera bene la sua prova anche Ruth Iniesta nei panni di Liù, il più pucciniano dei personaggi in scena. Il lirismo intenso del suo canto tocca le corde più profonde, delineando i contorni del sentimento d’amore, quello vero, che prepara lo “sgelamento” della protagonista.
Notevoli i personaggi di contorno: da Carlo Bosi, nel duplice ruolo dell’imperatore Altoum e del principe di Persia, al mandarino di Yougjun Park, alle eccellenti tre maschere, impersonate da Gëzim Myshketa, Matteo Mezzaro e Riccardo Rados. Sul podio, Marco Armiliato, onnipresente in questa novantanovesima stagione sugli spalti dell’anfiteatro augusteo, dirige con attenzione e puntualità. Forse con eccessiva circospezione. Dilata i tempi. Smussa le sonorità più ardite, quelle novecentesche alle quali Puccini era approdato grazie ad uno studio indefesso e ad una curiosità inesauribile. In altri termini, enfatizza la componente lirica, sentimentale, facendola svettare sul côté fiabesco pensato da Gozzi. Lo spettacolo è quello collaudatissimo di Franco Zeffirelli. Ideato nel 2010 e riproposto più volte, mantiene immutato il suo fascino. Delinea una Cina grandiosa, di maniera (non v’è dubbio), affollatissima intorno allo scintillante palazzo del potere di Pechino. Tanto oro, ma anche colori sgargianti, che si rincorrono sul palcoscenico, richiamati, in ultimo, dai ventagli svolazzanti di Ping, Pong e Pang.