La Norma dalla Gallia a Lahore
Alberto Pellegrino
2 Set 2007 - Commenti classica
La Norma è l'indiscusso capolavoro belliniano, costruito su un saldo impianto classico, che rappresenta tuttavia un ponte gettato verso il futuro e l'imminente avvento della stagione romantica. Straordinaria tragedia lirica segnata dalla tematica amorosa, questa opera non tradisce mai le attese dello spettatore con la sua tessitura musicale introdotta dalle affascinanti note della Sinfonia. Il libretto di Felice Romani, fedele seguace del classicismo, tiene ben presente che la figura di Norma è ricalcata su quella di Medea (la trama è ispirata dalla tragedia Norma ossia l'infanticidio di Alexander Soumet), infatti nel testo originale Norma uccide se stessa e i figli per sfuggire al suo amore sacrilego. Romani, invece, con modernissima intenzione, al momento dell'uccisione dei figli ( Dormono entrambi ), fa prendere il sopravvento alla madre ( Teneri figli ), per cui sulla pulsione della vendetta ha il sopravvento l'amore e sarà soltanto la donna a pagare con la vita il proprio tradimento verso il suo dio e il suo popolo. Melodramma costellato di arie bellissime, a cominciare dalla celebre Casta Diva per concludersi con la grande aria finale Deh! Non volerli vittime! . In mezzo un vero fiume di musica e di bel canto con le arie di Pollione ( Meco all'altar di venere ), di Adalgisa ( Deh, proteggimi o Dio ), di Oroveso ( Ite sul colle, O Druidi e Ah! Del Tebro al giogo indegno ), a cui si aggiungono alcuni splendidi duetti ( Va crudele, al Dio spietato , Sola furtiva al tempio , In mia man alfin tu sei ). Ben diretta dal M Paolo Arrivabeni, l'opera ha saputo rispondere alle attese del pubblico grazie al valore del soprano Dimitra Theodossiou, una Norma intensa e appassionata che, pur con qualche limite e incertezza, è riuscita a superare la prova di questa terribile parte; il tenore italo-uruguaiano Carlo Ventre ha affrontato con passionale veemenza il suo personaggio, anche se alcuni passaggi sono risultati eccessivamente urlati ; il basso Simon Orfila è stato un Oroveso dalle intense coloriture drammatiche; infine, una prova superba è stata data dal mezzosoprano Daniela Barcellona, un'Adalgisa appassionata e dolente, intensa nel canto, perfetta nell'emissione di voce. Nel complesso una buona edizione sotto il profilo musicale e canoro
La regia di Massimo Gasparron, oltre a mettere in evidenza le consuete eleganze formali (armonia cromatica, suggestioni luministiche, capacità di collocare sulla scena in modo intelligente personaggi e masse), rivela alcuni aspetti sconcertanti, determinati dall'idea di fondo che guida gran parte della messa in scena: il primo impatto visivo, quando si entra nello Sferisterio con il palcoscenico ancora vuoto, è abbastanza fuorviante con le due grandi svastiche che dominano i lati della scena, con quelle linee compositive che ricordano le architetture di Albert Speer, con le quattro colonne geometriche che sorreggono un tripode ornato da quattro grandi aquile dorate, per cui la prima impressione è quella di essere capitati nella Norimberga del 1934, al Congresso del Partito nazionalsocialista.
Naturalmente recuperiamo subito il senso della realtà , anche perchè abbiamo letto con attenzione le nove fitte pagine con cui Gasparron giustifica le sue scelte stilistiche e concettuali, avendo deciso di trasportare la vicenda di Norma dalle Gallie nel Tibet, tirando in ballo persino il maceratese Giuseppe Tucci. Va premesso che siamo aperti a qualsiasi forma di manipolazione del melodramma, purchè sorretta da un progetto credibile, ma che siamo anche rigorosamente legati a una regola di fondo: non è possibile fotocopiare le culture e le storie dei popoli, per poi sovrapporle senza un minimo di contestualizzazione temporale, spaziale e soprattutto culturale.
à sufficiente che le popolazioni celtiche e le popolazioni himalayane abbiano avuto in comune la fede nella reincarnazione, l'astrologia, l'arte della memoria, una società suddivisa in rigide caste per giustificare questa operazione culturale? I Celti non erano dei barbari (come amavano definirli i romani), avevano una loro civiltà mistico-esoterica e naturistica, ma possedevano una cultura guerriera (qualcuno parla di antropofagia nei confronti dei prigionieri di guerra) e i loro Druidi non erano soltanto dei sacerdoti, ma erano anche astronomi, medici, filosofi e in particolare (non dimentichiamolo) consiglieri politici e militari. Possiamo persino far passare l'idea che conoscessero il simbolo della svastica (resa orribile dal nazismo), poichè essa era nota in tutto il Vicino Oriente e in tutto il mondo asiatico come rappresentazione del potere divino, del sole, del moto dell'universo, per il resto troviamo alquanto arbitraria questa trasposizione della vicenda di Norma e del suo popolo dall'Europa nord-occidentale all'Estremo Oriente.
Come tutte le popolazioni celtiche, anche quelle galliche praticavano una cultura di guerra e i valori guerrieri erano sorretti da riti sanguinari, tanto è vero che il loro dio Irminsul viene definito da Pollione un Iddio di sangue , Al Dio spietato offri in dono il sangue mio ; è quindi un dio su cui roghi vanno immolate vittime umane come accadrà per la stessa Norma. Gli interventi del gran sacerdote Oroveso sono un continuo incitamento alla guerra ( Ormai di Brenno oziosa non può starsi la spada ) e i suoi Druidi non perdono occasione per manifestare il loro odio contro Roma e per incitare se stessi e il popolo alla guerra come nel coro del secondo atto Guerra, guerra, Sangue, sangue Strage, strage, sterminio, vendetta! , stringendo nel pugno una lunga lancia acuminata. Non ci sembra che questi siano valori della cultura tibetana e della religione buddista. Per lo meno a noi non è mai capitato di vedere un monaco buddista impugnare un'arma e nemmeno fare con entusiasmo la guerra!
Si è assistito, inoltre, a due opere viste in parallelo: da un lato i Druidi e il popolo in abiti tibetani: dall'altro i Romani fasciati da eleganti corazze argentate con ornamenti color lilla, infine le due protagoniste con fastosi abiti che richiamavano il mondo classico come poteva essere rivisto in età barocca; soprattutto Norma indossava tre abiti diversi: di colore bianco quando è apparsa come la sacerdotessa destinata al vaticinio e a sciogliere la sua invocazione alla divinità lunare ( Casta Diva ); di colore blu notte quando, squassata da una violenta passione e da una bruciante gelosia, si accingeva a uccide i figli per vendicarsi di Pollione; infine di colore rosso fuoco quando recuperava tutta la sua passione amorosa e il suo coraggio di donna decisa ad affrontare la morte.
(Alberto Pellegrino)