La Lucia dei cristalli


Andrea Zepponi

1 Gen 2008 - Commenti classica

Il 30 novembre a Jesi per la 40esima stagione lirica di Tradizione organizzata dalla Fondazione Pergolesi Spontini, è andata in scena la Lucia di Lammermoor di Donizetti, tornata al Teatro Pergolesi dopo 12 anni con la direzione di Vito Clemente, la regia di Italo Nunziata e un cast di prestigio dove emergeva il soprano Valeria Esposito, una delle più importanti interpreti del repertorio dell'Ottocento italiano, Stefano Antonucci nel ruolo di Lord Enrico Ashton; Sir Edgardo era interpretato dal tenore emergente Bà lent Bezdà z; Israel Lozano era Arturo, Giovanni Furlanetto Raimondo, Monica Sesto ha interpretato Alisa, Antonio Feltracco era Nomanno. Il Coro del Circuito Lirico Marchigiano era formato dai migliori elementi del Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli e del Teatro la Fortuna di Fano, selezionati e diretti da Carlo Morganti. L'opera era proposta in un nuovo allestimento in coproduzione tra Teatri S.p.A di Treviso, Fondazione Pergolesi Spontini, Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, Fondazione Teatro La Fortuna di Fano, Teatro dell'Aquila di Fermo. L'edizione dell'opera ha avuto un aspetto filologico nella riapertura dei tagli e nel ripristino della fantomatica glassarmonica (o armonica a bicchieri), integrata con l'orchestra sinfonica voluta in origine da Donizetti durante la scena della follia. La glassarmonica è uno strumento del XVIII secolo, costituito da una serie di bicchieri di cristallo posti su di un ripiano, riempiti ognuno con una quantità diversa di acqua, in modo che, sfioratone l'orlo o colpiti con l'unghia, emettano ciascuno una frequenza di suono diversa. L'ambiente spettrale della vicenda di amore e morte era evocato dal passaggio sulla scena all'inizio di ogni atto da una dama velata che alludeva alla visione che Lucia racconta nel prim'atto ad Alisa, facendo intravedere la sua incipiente tendenza paranoide. Peraltro, trattandosi di una scenografia con trasposizione temporale all'800, il repertorio romantico gotico era largamente sfoggiato sulla scena: pesanti tendaggi, fondali e quinte con tappezzerie e passamanerie di taglio ottocentesco, medievalismo di maniera e oleografie da salotto buono incorniciavano la presenza dei cantanti anch'essi in vesti da demi-monde vittoriano, tanto che pareva di assistere a una Traviata. Una lettura scenica dell'opera che Pasquale Grossi, costumista e scenografo di questa edizione ha dichiaratamente improntato al perbenismo borghese dell'800 le cui regole di vita ferree e canoniche erano simboleggiate dall'impianto claustrofobico degli spazi scenici; per quanto si debba dire che sia un tantino forzata la visione borghese della vicenda dato che Enrico fa sposare la povera sorella Lucia ad Arturo non per motivi economici, ma di prestigio politico e nobiliare. La vicenda della pazza di Lammermoor che, credendosi abbandonata dal suo amante, accetta di sposare, su istigazione del fratello, un uomo che non ama e, resa folle, lo uccide durante la prima notte di nozze, ha trovato larga fortuna nel repertorio lirico soprattutto per la scena di follia che non ha eguali nell'utilizzo espressivo e drammatico delle agilità vocali del bel canto. Scene di follia se ne erano avute molte prima di quella donizettiana, ma nessuna capace di rendere così evidenti gli effetti della pazzia in modo più concreto e perfino crudele; l'eco della melodia del duetto Verranno a te sull'aure usato in funzione rievocativa (e non Leit-motiv come si potrebbe pensare) rende ancor più straziante l'incidenza della realtà nei ricordi deliranti di Lucia. Memorie idilliache e visioni spettrali alterano la sua coscienza facendole rimuovere la consapevolezza del delitto commesso che pure è presente agli occhi dello spettatore; il guanto imbrattato di sangue indossato dalla Esposito ha avuto un'evidenza ben maggiore della solita (o obsoleta?) camicia da notte macchiata che, se non ben gestita scenicamente, può perfino alludere al mestruo. Al di là della considerazione che Lucia dovrebbe essere interpretata da un soprano drammatico ( ma da quando non se ne sente uno cantare Lucia?), Valeria Esposito ha dimostrato grande professionismo e sicurezza vocali e sceniche, facendo dimenticare qualche carenza nella zona medio grave peraltro tipica dei soprani della sua taglia vocale, ma l'agilità era definita e l'emissione usata in funzione espressiva: non di rado la Esposito ha sfoggiato dei suoni fissi per sottolineare uno stato d'animo, soprattutto nella scena delle nozze, ma notevolissimo è stato l'effetto della cadenza della scena di pazzia con i cristalli della glassarmonica e, nella fattispecie la cristallo-armonica suonata con sorprendente naturalezza dal M Gianfranco Grisi, capace davvero di evocare un'atmosfera spettrale e straniante: alla glassarmonica (grazie all'indicazione ad libitum della cadenza non scritta dall'autore ma di tradizione) erano riservati soprattutto gli effetti di eco della voce, mentre il flauto tradizionale del M P. Chirivì è rientrato nella parte finale della cadenza in funzione di accompagnamento e di sostegno.
Rivelazione della serata è stato il tenore Bà lent Bezdà z che, con voce chiara, dizione netta, una bella presenza e calore scenico ha detto l'ultima parola sul successo decretato alla prima di Lucia a Jesi con la cabaletta finale in cui Edgardo, venuto a conoscenza della morte di Lucia, si suicida: Tombe degli avi miei e Tu che a Dio spiegasti sono brani che hanno ancora il potere di strappare le lacrime e quando il canto è ben gestito, e anche gli applausi quando i Si naturali sono ben piantati. Terzo protagonista della serata il baritono Stefano Antonucci dalla vocalità tendente piuttosto al tenorile, ma ben timbrata e sicura, non ha temuto confronti con il tenore nella tenebrosa scena della tempesta e del duetto di odio all'inizio del second'atto in cui Enrico e il rivale Edgardo si ripromettono di battersi a duello tra i lampi di una romantico temporale. La rarità di assistere a questa scena in genere tagliata nei teatri di provincia ha reso più forte l'attenzione sulla condotta orchestrale di Vito Clemente alla testa dell'Orchestra Filarmonica Marchigiana che ha rispettato il tessuto sonoro dell'orchestra donizettiana senza tentazioni di ripieno tardo romantico o veristico, specie per un tipo di musica mimetica come quella del temporale, ma puntando soprattutto sul fraseggio dinamico e sulla scelta dei tempi.
Il taglio registico di Italo Nunziata era evidente soprattutto nelle movenze del coro con esibizione di danze nelle scena della festa nuziale e nella bella disposizione dei coristi nei due finali, quello di Lucia e quello di Edgardo. Le luci, firmate da Patrick Latronica hanno sottolineato l'aspetto umbratile della vicenda con begli effetti nella scena del giardino durante il primo atto in cui la luce sembrava filtrata dalle foglie di una foresta.
(Andrea Zepponi)


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