La grande fotografa Lee Miller ne “La vasca del Führer” di Serena Dandini


di Alberto Pellegrino

30 Nov 2020 - Altre Arti, Eventi e..., Arti Visive, Libri

Uscito il libro La vasca del Führer di Serena Dandini che ripercorre la straordinaria e coraggiosa vita della grande fotografa Elizabeth “Lee” Miller, Lady Penrose (1907 – 1977). Della fotografa ce ne parla Alberto Pellegrino, uno dei maggiori esperti italiani di storia della fotografia.

Serena Dandini ha pubblicato il libro La vasca del Führer(Einaudi, 2020), prendendo spunto da una celebre fotografia di Lee Miller pubblicata nei volumi fotografici Ritratti di una vita (2002) e The Art of Lee Miller (2008). Si tratta di un’immagine che allora ha fatto molto scalpore e ha suscitato anche qualche polemica, ma che era perfettamente in linea con la personalità di un’artista che è una delle più grandi fotografe del Novecento e una delle personalità più straordinarie del secolo per la sua vita indipendente e avventurosa.

Serena Dandini ripercorre la vita di questa donna straordinaria, coraggiosa e indipendente basandosi su elementi storici e partendo da quando la Miller ha conosciuto il fascino del mondo della moda, gli splendori della Parigi tra le due guerre mondiali e infine è stata testimone di una delle più terribili tragedie del secolo scorso. La Miller cade nel dimenticatoio, è tormentata dalla depressione, precipita nell’inferno dell’alcolismo, vivendo in quasi totale solitudine nelle campagne del Sussex, dove muore nel 1977. Sarà poi riscoperta tra la fine del Novecento e il primo decennio del Duemila con grandi mostre internazionali e una serie di libri che fanno entrare la sua opera nella storia della fotografia, facendola riconoscere come una della maggiori artiste del Novecento.

Elizabeth Lee Miller (1907-1977), dopo un’infanzia difficile e tormentata, vive un’esistenza segnata da incontri straordinari e coincidenze fortunate. Nel 1926 lascia il piccolo paese della provincia americana dove è nata e si trasferisce a New York per studiare architettura alla Art Students League. Un giorno, mentre sta attraversando la strada, un uomo la salva da una macchina che sta per investirla. Quel signore è Condé Montrose Nast, il leggendario editore di Vogue, il quale capisce subito che quella ragazza bellissima, lievemente androgina e nello stesso tempo sensuale, può diventare il modello ideale della donna anni Venti, per cui la affida a Edward Steichen e Hoyningen-Huene¸ due grandi fotografi che la trasformano nella più affascinante e la più celebre fotomodella d’America, una vera e propria icona della moda. Quando presta il suo volto per una campagna pubblicitaria per gli assorbenti, si crea nell’America bigotta uno scandalo che pone fine alla sua carriera, ma lei, che è una donna disinibita e indipendente, dichiara di essere stanca di posare di fronte all’obiettivo e di volersi finalmente dedicare alla sua passione per la fotografia, una passione già coltivata fin da bambina al fianco del padre.

Lee Miller vuole stare dietro la macchina fotografica, perché preferisce “fare una foto che essere una foto” e comincia a studiare fotografia e in poco tempo diventa una apprezzata professionista nel campo della moda, pubblicando sulle pagine di Vogue non la sua immagine ma le sue fotografie. Nel 1929 decide di trasferirsi a Parigi e sceglie come maestro il più celebre fotografo del momento, l’americano Man Ray, che la introduce nel mondo del surrealismo e negli ambienti artistici parigini, dove conosce tra gli altri Picasso, Salvator Dalì, Cocteau, Eluard e Magritte. Nella metropoli francese tra la Miller e Man Ray nasce un sodalizio professionale che sfocia in un’intensa storia d’amore, perché i due si completano, hanno lo stesso gusto artistico, tanto che diventa a volte difficile stabilire quali foto siano effettivamente opera dell’uno o dell’altra. Insieme scoprono per caso la tecnica della solarizzazione e creano delle immagini che hanno fatto la storia della fotografia.

Sempre irrequieta, Lee decide di ritornare a New York, dove apre uno studio professionale frequentato da illustri personalità; inoltre si riavvicina alla fotografia di moda, lavorando per due stiliste rivali, Elsa Schiaparelli e Coco Chanel. Ben presto si stanca di nuovo del mondo della moda, sposa il ricco egiziano Aziz Eloui Bey e si trasferisce al Cairo, realizzando straordinari servizi fotografici sull’Egitto e sul paesaggio africano.

Una volta considerata chiusa l’avventura africana, si divide dal marito e ritorna a Parigi dove conosce e sposa il collezionista d’arte Roland Penrose. Nel 1939 la coppia si trasferisce a Londra, ma scoppia la guerra e il marito viene richiamato sotto le armi. Rimasta sola in una città dilaniata dai bombardamenti, Lee Miller si guadagna da vivere come fotografa di moda sempre per Vogue, ma sente che non può vivere in quel dorato mondo degli atelier mentre fuori esplode il conflitto e scrive ai suoi genitori una lettera in cui esprime il suo disagio e il suo bisogno di cambiare genere: “Mi sembra piuttosto stupido continuare a lavorare per una rivista frivola come Vogue, che può essere buona per il morale del Paese, ma un inferno per il mio”. Comincia così a realizzare dei reportage di guerra con immagini così realistiche che aiutano il paese a capire meglio la tragedia che sta vivendo.

Nel 1944 la Miller si procura un accredito stampa che le permetterà, insieme al fotografo di Life David E. Scherman, di unirsi alle truppe americane che si preparano a invadere l’Europa. Diventa pertanto, insieme a Margaret Burke-White, una war correspondent donna ed è la prima fotoreporter a ottenere il permesso di stare sul fronte dei combattimenti, dove con grande coraggio fotografa gli ospedali di guerra, i cadaveri delle SS, le struggenti immagini di bambini morenti, l’assalto alla fortezza di Saint Malo, la liberazione di Parigi, la battaglia dell’Alsazia, l’incontro tra l’esercito statunitense e l’Armata Rossa a Torgau, il suicidio dei gerarchi nazisti con le loro famiglie. Riesce persino a fotografare, mentre è avvolto nelle fiamme, il Nido d’Aquila, lo chalet di Hitler che è stato uno dei simboli del Terzo Reich.

Al seguito dei fanti americani della 45^ Divisione entra nei campi di sterminio di Dachau e Buchenwald. Di fronte a quell’orrore rimane sconvolta e incredula, ma continua a scattare come un automa poi, insieme a quelle fotografie tremende, manda al giornale questo cablogramma: “Vi prego di credere che tutto questo è vero” quasi avvertisse di rassicurare se stessa e gli altri. Dopo aver fotografato i cumuli di morti e di ossa, i sopravvissuti ridotti a scheletri, i cadaveri dei kapò massacrati per vendetta, rimane talmente sconvolta da non liberarsi più di quella terribile esperienza: “Nel visitare il campo caddi su un ginocchio, colpii un ciottolo e il dolore fu atroce. Migliaia di prigionieri erano caduti così ogni giorno e ogni notte. E se potevano sollevarsi, se ne avevano ancora la forza, una guardia li trascinava verso una fine sconosciuta”.

Il primo maggio 1945 Lee Miller riesce ad entrare a Monaco in una palazzina che è stata la residenza di Hitler. Si aggira per quelle stanze tra l’indifferenza e lo stupore perché non avverte in quel luogo nessuna demoniaca presenza, ma quando entra nel bagno agisce d’istinto: a 38 anni è ancora una donna bellissima, si spoglia nuda e s’immerge nella vasca piena d’acqua calda, chiedendo a David E. Scherman che l’accompagna, di riprenderla mentre si sta insaponando. Lee Miller sta al centro dell’inquadratura mentre si guarda intorno con uno sguardo sprezzante e non si tratta di una immagine casuale, perché lei ha predisposto con cura il set fotografico: a sinistra si vede un piccolo ritratto del Fuhrer; a destra si vede una brutta statuetta che riproduce una scultura classica; sempre a destra c’è la sua divisa accuratamente ripiegata su uno sgabello; al centro, sopra il tappetino infangato, ci sono i suoi anfibi ancora incrostati dal fango di Dachau. La foto acquista pertanto un alto valore simbolico, perché con quel gesto Lee Miller ha trovato l’unico modo per celebrare la vittoria contro il male impersonato da Hitler e infatti scrive “Dentro la sua vasca ho lavato via lo sporco di Dachau”. Quella vasca da bagno diventa così la rappresentazione iconografica della rivincita sul nazismo di un’artista indipendente e coraggiosa, di una donna che ha fatto la storia. Serena Dandini nelle prime pagine del suo romanzo ha scritto: “Mentre si addentrava in quegli interni anonimi, insignificanti, una domanda continua a risuonargli nella testa. Più che un interrogativo è un urlo soffocato: perché non c’è nessuna presenza del male che ha abitato queste stanze…Lee era riuscita a trattenere la nausea dinanzi all’orrore di Dachau. Ora di fronte alla rispettabilità del male, sente che sta per sprofondare…La resistenza al dolore che aveva esercitato a Dachau si è dissolta dentro la casa dove aveva vissuto il demonio. Lee ha perso forza e sensibilità. Nessuno ha diritto di sopravvivere dopo l’inferno. Neanche lei. Respira a fatica nel bagno immacolato…Sta per crollare, ma si abbandona all’indole vitale che l’ha sempre guidata nei momenti oscuri. Un istinto infantile la spinge ad aprire i rubinetti…La guerra si è incollata alla divisa che è ormai una seconda pelle, si spoglia riscoprendo un corpo vivo che non ricordava di possedere, si leva a fatica gli anfibi pieni di fango che contaminano l’innocente candore di quel luogo falso come un set cinematografico che non ha più ragione d’esistere. Lo spettacolo è finito, e Lee si immerge con la sua proverbiale insolenza nella vasca del Fuher”.

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