La galleria “ORONTEA” a Milano espone Antonio Cesti


di Andrea Zepponi

4 Ott 2024 - Commenti classica

Pieno successo alla Scala di Milano dell’“Oronteadi Antonio Cesti. Scenoregia chiara ed efficace che ha interpretato alla perfezione lo spirito dell’opera. Ottima la qualità delle voci e del comparto musicale.

(Foto di Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala e Vito Lorusso)

(Ph Vito Lorusso)

Il melodramma seicentesco più rappresentato del suo tempo, che contiene l’aria antica più celebre di tutti i tempi, Intorno all’idol mio, croce e delizia di tutti gli studenti di canto in conservatorio, l’Orontea di Antonio Cesti su libretto di Giacinto Andrea Cicognini e Giovanni Filippo Apolloni, che ebbe la sua prima rappresentazione nel 1657 al Teatro di Sala di Innsbruck, è andato in scena il 30 settembre scorso alla Scala di Milano con tutti i crismi della filologia vocalestrumentale e una scenoregia sorprendentemente cospicua nella chiarezza ed efficacia della sua idea base. Milano conobbe presto l’Orontea, nel 1666, sei anni dopo la prima italiana avvenuta al Teatro del Falcone di Genova nel 1660. In tempi moderni l’opera, proprio per la sua rappresentatività, conobbe una ripresa nel 1961 alla

Piccola Scala con Teresa Berganza. Ora si ripresenta nel maggior teatro milanese in una rinnovata stagione di percezione musicale, quando il barocco seicentesco è ormai storicamente avvertito e goduto nei suoi valori vividi e smaglianti musicali come colori di un quadro dopo decenni di riscoperte e restauri sulla scena scaligera in cui sono passati, come nella officina di un restauratore, anche i capolavori di Monteverdi (la trilogia) e di Cavalli (Calisto); è ora la volta dell’aretino Cesti con la sua Orontea nuova produzione del Teatro alla Scala – felicemente ambientata verosimilmente nell’oggi, mentre nell’originale lo era in un improbabile Egitto che diviene appunto una Milano à la page, piena di vedute tecnologiche – tra cui quella di piazza Gae Aulenti con le sue guglie mozzafiato -, capitale della moda e dell’arte, costellata di gallerie tra cui l’“Orontea”, gestita dalla omonima elegantissima e rampante collezionista, (Stéphanie d’Oustrac), consigliata dal suo legale Creonte (Mirco Palazzi), contornata dall’addetto alla sicurezza Tibrino (Sara Blanch) e da Corindo (Hugh Cutting), ingegnere addetto all’arredo-allestimento della galleria che intanto non disdegna di amoreggiare con la stagista Silandra (Francesca Pia Vitale); agli inservienti tocca il versante comico del melodramma barocco che prima di Apostolo Zeno non conosceva separazione tra i due generi serio e buffo: la esilarante Aristea (Marcela Rahal), indaffarata nelle pulizie dei locali allestiti dalla scenografia di Gideon Davey sulla grandiosa piattaforma rotante del palcoscenico scaligero divisa in sala di rappresentanza, sala delle esposizioni su due piani, indi garage-rimessa per auto e moto, la quale incarna il topos della vecchia infoiata che paga giovani uomini per un’ora di sesso; il cameriere Gelone (Luca Tittoto) innamorato del vino non perde occasione di ammiccare al liquido spumeggiante sgocciolato tra le bisbocce furtive dei camerieri o versato ufficialmente nei vernissage. La scelta del direttore Giovanni

(Ph Vito Lorusso)

Antonini e del regista di espungere il proemio dell’opera che contiene il contrasto tra Amore e Filosofia corrisponde alla esigenza di far subito entrare l’azione in medias res e soprattutto alla dichiarata intenzione di attualizzare la scena rendendola il più possibile realistica e non simbolica. A buon segno perché il prologo dell’opera del ‘600, a partire da quello della monteverdiana Incoronazione di Poppea, corrisponde appunto a una visione astratta del mondo subito contraddetta e vanificata dalla concretezza delle vicende della trama.

In questo ambiente, dove si gioca la rutilante casistica dell’eros, compare nel primo atto Alidoro (Carlo Vistoli), reduce da un agguato, sventato con l’aiuto di Tibrino, soccorso dalla vecchia madre Aristea e dalla stessa Orontea. Il ragazzo è di rara bellezza, per di più è un pittore che a poco a poco farà breccia nel cuore dell’algida Orontea la quale, in un primo tempo inflessibile e distolta dai rigidi consigli di Creonte, inizierà a vagheggiare il bel giovane e a farlo sempre più partecipe della sua vita lavorativa e sentimentale.

(Ph Vito Lorusso)

L’opera consta di tre atti dove all’inizio del secondo Orontea è già innamorata persa di un Alidoro conteso però da Giacinta (Maria Nazarova) la quale inizialmente aveva assunto i panni maschili di Ismero e in quella incognita veste ella confessa, durante l’incontro con Orontea, di essere stata lei ad attentare alla sua vita per adempiere al comando di un’altra donna potente, la fenicia Arnea, sdegnata contro il bel pittore riottoso di cedere alle sue profferte amorose. Lo sdegno di Orontea a questa notizia rende palesi i suoi sentimenti. Altri intrecci sentimentali si susseguono come può accadere in un milieu aziendale con dipendenti sempre alle prese con oggetti estetici e votati al culto della bellezza quasi come nel film Il diavolo veste Prada: ora

è l’attempata Aristea (la cui vocalità è di contralto mentre in origine era quella di tenore!) a invaghirsi del finto Ismero dando luogo ad altre scene buffe e intanto Silandra, che nel primo atto amoreggiava con Corindo, non ci pensa due volte a mollarlo bruscamente per il bell’Alidoro, che da buon voyou, come si dice in francese, si accattiva le simpatie di tutte le figure femminili dell’ambiente: il pittore

(Ph Brescia e Amisano © Teatro alla Scala)

intraprende un ritratto della vezzosa Silandra che, innamorata, posa per lui, ma questi viene assalito dalla gelosa Orontea. L’angoscia per aver suscitato l’ira della patronne lo fa svenire, davvero o fintamente il che è lo stesso, innescando uno dei più bei topoi di tutta l’opera barocca seicentesca: la struggente “aria di sonno” di Orontea che trova il coraggio di confessargli il suo amore mentre egli è ottenebrato, Intorno all’idol mio, dove ella chiede alle aure che gli aleggiano accanto di baciarlo per lei: figurazione

della scena mitica notturna di Diana che bacia Endimione dormiente. Gli lascia inoltre, una lettera in cui esprime tutto il suo amore. Ripresosi dal mancamento, l’incostante Alidoro trova lo scritto e si rallegra della sua fortuna rivestendosi della sgargiante mise modaiola lasciatagli dalla donna innamorata che lo coopta a pieno titolo nello staff della sua galleria dotandolo di un pennello dorato a mo’ di scettro (allusione sessuale? Mah!).

(Ph Brescia e Amisano © Teatro alla Scala)

Nel terzo atto il gioco delle coppie si complica. Alidoro ha capito bene dove tira il vento e disdegna bruscamente Silandra vantandosi di aver trovato una ben più alta accoglienza presso Orontea. Questo desta scompiglio nell’ambiente e fa infuriare la titolare che inizia a dubitare della sincerità del bell’artista. Il giovane si ritrova quindi scacciato dall’una e diffidato dall’altra amante; arriva così a lamentarsi della incostanza femminile: altro locus dell’opera barocca. Gli fanno ala Tibrino e Gelone che compatiscono tutti gli innamorati dichiarando di preferire all’amore, il primo, da quel body-guard che è, la guerra e il secondo ovviamente il vino. Questi viene allora inviato da Silandra a tentare una riconciliazione con Corindo che la perdona, ma si ripropone di uccidere il rivale. Nel frattempo, anche Giacinta – manco a dirlo – si è innamorata di Alidoro, ma intanto subisce, come Ismero, le avances di Aristea, la quale non esita, come suo solito, a sollecitarne le prestazioni erotiche con il regalo di un medaglione d’oro; da Giacinta il prezioso monile passa ad Alidoro offertogli dalla donna nella speranza di attirarlo a sé. Qui scatta il noto meccanismo dell’agnizione, ingrediente costante del teatro classico, con cui si evita il ricorso al deus ex machina e che porta allo scioglimento dell’azione: Aristea si trova in possesso di quel medaglione perché lasciatole in eredità – con ingente bottino – dal marito Ipparco, noto corsaro che aveva intercettato una nave fenicia e da essa aveva rapito un infante dotato di quel medaglione recante l’effigie dei sovrani egizi. La cosa diviene più palese nella scena in cui Gelone accusa Alidoro credendo che egli abbia rubato il gioiello ad Aristea, la quale in effetti ne possiede uno uguale: sopraggiunge allora Creonte dicendo che quel medaglione era al collo del figlio infante della regina Irene, diletta consorte del re di Sidone. Di quello che il re Tolomeo aveva donato al bimbo, lo stesso aveva fatto fare altre due copie di cui una ceduta a Creonte e l’altra tenuta per sé poi ereditata dalla stessa Orontea. Allora Alidoro altri non è che Floridano, principe fenicio rapito in fasce, che può

(Ph Brescia e Amisano © Teatro alla Scala)

ambire per il suo rango a nozze regali. Può dunque sposare Orontea mentre Corindo otterrà la mano di Silandra. Interessante notare come lo scioglimento dell’azione si debba a un oggetto d’arte. L’opera si conclude, dopo il quartetto finale, in un festoso vernissage alla galleria con decine di invitati che ammirano le opere esposte tra cui si notavano autori famosi della contemporaneità, ad esempio Rothko, al suono di una Ciaccona conclusiva consueta in tanti melodrammi del ‘600.

La scenoregia ha interpretato alla perfezione lo spirito dell’opera come genere che combina tutte le arti: non si è lasciata sfuggire – a ragione – il fatto che Alidoro nella trama originale è in effetti un pittore, pensando di dare spazio al mondo dell’arte e, attualizzando, ha ambientato la vicenda a Milano come centro artistico importante con ogni parallelismo possibile: il risultato è un meccanismo perfetto di rappresentazione osservante la trama persino nei minimi particolari (vedi il medaglione); lasciando all’ascoltatore il compito di superare e metabolizzare lo scarto inevitabile tra musica seicentesca e contemporaneità di scena e costumi, Robert Carsen e Gideon Davey ci hanno dato una delle regie più belle e pregnanti degli ultimi anni da cui sarà difficile, a mio avviso, prescindere per il futuro, dove finalmente bellezza e chiarezza tornano a essere i criteri centrali per fare opera barocca come lo erano in origine.

(Ph Brescia e Amisano © Teatro alla Scala)

Le luci, che lasciavano in penombra la sala del Piermarini, quasi a ripristinare la funzione originaria del teatro che metteva in scena sia attori sia gli spettatori, erano dello stesso Carsen e di Peter Van Praet. Il mondo del mito non è incompatibile con il mondo odierno, anzi le due dimensioni possono convivere a diversi livelli e illuminarsi l’un l’altra.

Le linee vocali dei cantanti si adeguavano allo stile del recitar cantando – assai dissimile dal virtuosismo settecentesco – con particolare dedizione alla versante recitativo delle parti. I due controtenori Vistoli e Cutting con qualche disparità tecnica che faceva avvalersi il primo della voce di petto nella zona grave, hanno avuto buon gioco nello scolpire i ruoli di amorosi diversamente ricambiati.

(Ph Vito Lorusso)

La protagonista, il mezzosoprano Stéphanie d’Oustrac, straordinaria attrice cantante, ha onorato il brano più atteso, Intorno all’idol mio, con una vocalità atipica che ben si addice all’intonazione originale di Cesti in questa edizione ovviamente scevra delle sovrastrutture romantiche che l’aria ricevette nel 1868, quando fu pubblicata a Parigi nella raccolta Gloires d’Italie e poi nelle Arie antiche del Parisotti (1885) dove persiste la patina ottocentesca della versione da camera. Infatti, l’originale risulta meno virtuosistico e più consono a una lettura “recitante” sui generis. Altre scelte vocali hanno tolto la voce tenorile – usata a mero scopo buffo – al personaggio di Aristea che è divenuta un contralto eloquente e in linea con le richieste di “realismo” della regia.

(Ph Vito Lorusso)

Ottima la prova vocale e scenica del basso Tittoto che ha osato inflessioni falsettistiche con il dinamismo scenico espressivo ed esilarante del personaggio beone ma saggio.

Della stessa ottima qualità gli altri interpreti nei loro rispettivi profili scenici e vocali.

La direzione del M° Giovanni Antonini sul podio di un’Orchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici ha fatto sprigionare dall’organico piuttosto ristretto – pur comprendente un’arpa barocca e un organo positivo – sonorità eloquenti che emanavano teatralità dove attenzione filologica e spirito di autenticità si declinavano nei tempi attoriali della scena senza barocchismi di maniera. Il successo ottenuto dall’esecuzione è emblematico del risultato di un vero e profondo lavoro di una scenoregia la quale, di concerto con il direttore, osserva e rispetta, seppur personalizzando, i dati originari degli autori di libretto e musica.

(Ph Brescia e Amisano © Teatro alla Scala)
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2 responses

  1. Ubaldo Fabbri ha detto:

    Che bella recensione! Non si parla addosso, ma aiuta il pubblico a capire. Molto apprezzabili la chiarissima esposizione della complicata trama e i rimandi alla mitologia.

    1. Andrea Zepponi ha detto:

      Grazie di cuore! M’impegno di migliorare sempre più cercando di chiarire laddove diversi registi cercano di confondere.

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