La “Forza” di MacerataOpera


Alberto Bazzano

19 Ago 2010 - Commenti classica

<b<MACERATA. à sempre piacevole ascoltare l'opera allo Sferisterio di Macerata. Fra gli spazi dedicati alla lirica en plein air quello maceratese si distingue per la perfetta acustica. La forma allungata del palcoscenico – un tempo destinato al gioco della palla col bracciale consente anche un'ottima visuale sia dalla platea sia dalle gradinate disposte, dirimpetto al palco, lungo una direttrice curva.
La guida dello Sferisterio, dal 2006, è affidata al regista Pier Luigi Pizzi che, ha trasformato Macerata Opera in un vero e proprio festival, ricco di avvenimenti culturali entusiasmanti. L'appassionato ha solo l'imbarazzo della scelta. Alle produzioni operistiche, che hanno luogo principalmente allo Sferisterio e al Teatro Lauro Rossi, si affiancano gli aperitivi culturali agli Antichi forni, incentrati su taluni aspetti del tema dominate dell'anno. Dopo il viaggio iniziatico (2006), il gioco dei potenti (2007), la seduzione (2008), l'inganno (2009), è stata la volta di A maggior gloria di Dio , titolo prescelto per la 46a edizione del Festival dedicata al missionario maceratese Matteo Ricci, morto a Pechino nel 1610. Un anniversario, questo, ricordato attraverso una serie di composizioni dominate dall'elemento mistico e religioso. Col Vespro della beata Vergine di Claudio Monteverdi, pubblicato lo stesso anno della scomparsa del padre gesuita, sono state incluse nel cartellone Faust di Gounod, La forza del destino, I lombardi alla prima crociata, Attila di Verdi e Juditha Triunphans di Vivaldi. Attila, in particolare, ha rappresentato la realizzazione di un progetto rimasto in sospeso. Pizzi avrebbe voluto proporre il titolo già nel 2008 assieme a Salome e Manon Lescaut, ma l'ambiziosa idea fu abbandonata per mancanza di fondi.
Venendo ai singoli spettacoli, racconterò la prima de La forza del destino, andata in scena la sera del 31 luglio allo Sferisterio. Inizierò col dire che l'opera è stata ancora una volta all'altezza della sua fama . à arcinoto che nell'ambiente musicale si preferisce non nominarla per evitare di essere colpiti da iettatura perenne. In verità , sono molte le opere che hanno nomea di recare sventura. Si pensi alla Jone di Errico Petrella, fiasco clamoroso alla Scala nel 1858 e in successive altre piazze o alla Cecilia di Licinio Refice, fatale al suo stesso autore che morì dirigendola a Buenos Aires. Ma la Forza è speciale. Di fronte al capolavoro verdiano si avverte la necessità di assumere qualche precauzione. Ed è così che, fra le file di platea o nei camerini dei cantanti, spuntano cornetti, amuleti o quadrifogli deputati a scacciare la malasorte.
Che l'opera fosse affetta da malefici se ne ebbe subito sentore. Già dai tempi della prima rappresentazione, quando Verdi, dopo essersi sobbarcato un gelido viaggio alla volta di San Pietroburgo in una lettera al tenore Tamberlick scrisse: Ora capisco cosa significa freddo, e vi fu un momento che mi parve di sentire nel cranio tutte la spade dell'armata russa apprese che la première sarebbe slittata di un anno a causa dell'indisposizione della primadonna. Da qual momento in poi gli intoppi (e le sciagure) si succedettero come le raffiche di una mitragliatrice. L'esempio più eclatante è certamente legato alla vicenda del baritono Leonard Warren stroncato durante l'esibizione, proprio al momento della aria Urna fatal . Il primo a soccorrerlo sul palcoscenico del Met fu il tenore Richard Tucker, al quale manco a dirlo – sarebbe toccata la medesima sorte. Quindici anni più tardi lasciò il mondo fulminato da un infarto all'età di 61 anni. Warren non ne aveva 49.
Quest'anno, allo Sferisterio, La forza del destino ha giocato d'anticipo, mettendo fuori combattimento l'altra opera, quella che nel cartellone avrebbe dovuto precederla di un giorno. La prima del Faust è infatti saltata a causa di un prolungato acquazzone. à toccato al sindaco della città , armato di megafono, il compito di annunciarne la soppressione al folto pubblico nascosto dagli ombrelli. Ma non è finita. La sera della Forza il baritono Marco Di Felice colpito da laringite, è stato rimpiazzato all'ultimo da Elia Fabbian che ha cantato il ruolo di Carlo dalla buca dell'orchestra, mentre, sul palco, a compiere i movimenti della regia è stato Roberto Maria Pizzuto. Per il resto lo spettacolo ha funzionato bene.
Assente dallo Sferisterio da 29 anni le ultime due rappresentazioni risalgono al 1969 e al 1981 è riemersa quest'anno nello spettacolo elegante e minimalista di Pier Luigi Pizzi. L'asciutta essenzialità (tratto costante degli spettacoli del recente Pizzi, sempre più condizionato dalla necessità di far quadrare il bilancio) se da un lato ha convogliato l'attenzione sui personaggi, mostrando che è nel dipanarsi delle azioni e nel destino che le determina che palpita il cuore del dramma, dall'altro ha enfatizzato l'efficacia delle scene in cui predomina la dimensione dello spirito. L'imponente crocifisso che incombeva dall'alto sul grande muro strutturale che delimita il campo ha offerto una cornice scarnificata, quasi immateriale, ideale alla raffigurazione del cortile del convento della Madonna degli Angeli, nei pressi di Hornachuelos, e suggestiva nell'ultima scena ove, fra rupi inaccessibili, affiorava nel crepuscolo la spelonca di Leonora.
Daniele Callegari, alla guida dall'Orchestra regionale delle Marche, ha offerto una lettura serrata, densa di chiaroscuri e di impetuosa drammaticità . Nel suo incalzante incedere questo direttore, ormai di casa a Macerata, ha animato il suono di palpito sanguigno, ritraendosi, all'occorrenza, nelle straordinarie oasi liriche di cui è intessuta la partitura.
Sulla scena si è imposta Teresa Romano. A soli 25 anni il soprano di origine campana dispone di uno strumento dovizioso: suadente nel timbro e di notevole ampiezza. La sua è una voce che può definirsi di soprano verdiano. Pertanto la zona grave del pentagramma e il centro sono saldi e vibranti. I passaggi che insistono nella prima ottava sono stati risolti efficacemente, con vigore e pienezza. Capace di estatiche mezze voci, la Romano però non ha attinto ad un magistrale canto a fior di labbro indispensabile ad esprimere le finezze dell'intera scrittura verdiana. Ma il difetto riposa anche nella parte, quella di Leonora, di straordinaria complessità . Il tempo porrà il rimedio. C'è da attenderselo. La cantante ascenderà ad una cifra stilistica di superiore pregnanza in cui il suono, ormai controllato pienamente, vibrerà illuminato dal fulgore di un timbro di singolare bellezza.
Al di sotto delle aspettative si è posto invece Zoran Todorovich (Don Alvaro). Il tenore serbo ha impresso negli ultimi anni una svolta in senso drammatico alla propria carriera. Una svolta accompagnata da unanimi consensi. Basti pensare al successo ottenuto al Massimo Palermo nel Lohengrin all'inizio della scorsa stagione. La resa nei panni del cavaliere del Graal fu, in quell'occasione, perfetta. Ma non bisogna dimenticare la notevole forbice che divide il teatro wagneriano da quello verdiano. E se musicalità , nitore e autorevolezza dell'accento si sono apprezzati anche sul versante della Forza, è mancata alla lettura di Todorovich la morbidezza necessaria a tradurre in termini elegiaci i passi più lirici della partitura. Inoltre, alcune note del registro superiore hanno suonato in modo pericolosamente aperto.
Anna Maria Chiuri, dal canto suo, ha sfoggiato rigore e una buona linea musicale nelle vesti di Preziosilla. La voce si è confermata quella di un autentico mezzosoprano, pregna di calore e carnosità . Non è mancato, inoltre, il giusto physique du rà le. Purtroppo, l'approccio circospetto al dettato verdiano ha tolto vigore alla definizione del personaggio che è rimasto fin troppo sullo sfondo, depauperato di quella briosità e sottile ironia si pensi al Rataplan – che lo deve connotare.
Ad Elia Fabbian va il merito di aver consentito la messa in scena dell'opera, dopo l'inconveniente occorso a Di Felice. Sul piano del rendimento, si è distinto per vigore e compattezza. La sua interpretazione si inserisce nel solco della tradizione. Il Carlo di Vargas che ha delineato è quello bieco e monolitico che già emerge dalle pagine del dramma del Duca de Rivas.
Austero e statuario Roberto Scandiuzzi ha restituito la giusta autorevolezza al personaggio di Padre Guardiano. Dotato di mezzi doviziosi, ha sfoggiato una linea eloquente, salda nell'acuto e aperta a severe risonanze nel registro grave.
Straordinario il Fra Militone di Paolo Pecchioli. Il basso fiorentino, apprezzato belcantista di stampo rossiniano il pensiero va alle sue migliori realizzazioni: Selim, Mustafà , Basilio, Alidoro ma, soprattutto, all'eccellente Assur – è stato messo alla prova sul terreno accidentato di una parte da sempre appannaggio di baritoni. Ha superato il cimento con onore, rendendo impercettibili le asperità di una scrittura assai insistita sulla regione alta del pentagramma. Mi riferisco, in particolare, ai Fa di Bricconi , ai vari Mi be molle di Fuori di qua , nella scena buffa dell'ultimo atto, o ai Fa ribattuti di Saranno i disinganni in coda al successivo duetto con Padre Guardiano. Proprio in questa scena l'aver affidato la parte di Militone ad una voce di basso assume un significato particolare. Il risultato che se ne ottiene è suggestivo. La conversazione con un Padre Guardiano che si esprime sulla medesima corda richiama alla mente la soluzione che, di lì a poco, Verdi avrebbe adottato nel Don Carlos mettendo a confronto le figure di Filippo II e del Grande Inquisitore. Quella di Pecchioli è, inoltre, una voce che, in virtù dell'eccellente fonazione, trae giovamento dagli spazi aperti. Sostenuta da una dizione minuziosa ha risuonato altisonante nell'ambiente. à questa una caratteristica tipica dei grandi: si pensi a Giacomo Lauri Volpi che mai quanto all'Arena di Verona ha dato saggio delle proprie qualità vocali.
Onorevole il Marchese di Calatrava di Ziyan Atfeh.
Fra le parti di contorno merita menzione il Mastro Trabuco di Paulo Paolillo. Il giovane tenore brasiliano si è mantenuto entro i margini della compostezza, evitando fastidiosi vezzi, ormai protocollari, che sviliscono il personaggio trasformandolo in una macchietta.
Al loro posto tutti gli altri, dai componenti del Coro Bellini , alla Curra di Asude Karayavuz, all'Alcaide di Giacomo Medici.
(Alberto Bazzano)


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