“IO AQUILA”, l’ultimo lavoro di Giorgio Tassi
di Luigi Bellesi
5 Ago 2015 - Libri
“Sposto il binocolo nel punto esatto dove credo si sia mosso qualcosa. – Non è possibile! – Sono le parole che prendono corpo nella mia testa. – No, non è possibile! – La forma della mia immaginazione prende corpo. È bianco, illuminato dal sole, fa dei movimenti leggeri, scomposti, goffi. È solo. Una cavità piccola di roccia calcarea giallastra. Il pavimento è fatto per lo più di rami, ce ne sono anche di freschi, con le foglie verdi attaccate. … È un piccolo di aquila. È la prima volta in vita mia che posso osservarlo … È una emozione straordinaria quella che mi travolge”.
Il racconto nasce e prende forma da questa intensa scossa emotiva. Avvenuta nel corso di una giornata davvero particolare per l’autore, perché rigata a tratti dalle lacrime! Accaduta dopo aver deciso di percorrere, nella montagna fin troppo bene conosciuta, un sentiero nuovo.
Eppure, queste coordinate spazio-temporali non sono poi così decisive. Conta che la scossa emotiva ci sia stata. Conta che la meraviglia per lo spettacolo del pulcino d’aquila, al quale l’A. dà “spontaneamente” il nome “ Io”, instaurando da subito uno stretto rapporto simbiotico, gli spalanchi davanti altri orizzonti: quelli che si disvelano quando, immersi nella natura, si sta, soli, in compagnia di se stessi.
Questo ritrovarsi con se stesso, che scende più in profondità ogni volta che l’A., tornando sul luogo, segue momento dopo momento, passo dopo passo, la crescita del pulcino Io, gli fa mettere le ali al volo della memoria. Impronte e tracce del vissuto personale depositate nell’anima, come d’incanto riaffiorano e riemergono alla coscienza, lievi e leggere, in un flusso di racconto che non segue la linea del tempo cronologico, ma quella del tempo qualitativo: interiore. Questa mi pare la cifra di IO AQUILA.
Fluiscono, come trasportati dal cuore di una corrente, episodi, accadimenti, vissuti, che appaiono all’A. in altra luce, evocando significati ed emozioni mai prima provate. È un po’, se vogliamo, come l’A., e ne è un maestro, intende l’essenza del fotografare: non la semplice riproduzione del reale, il cogliere istanti brevi, ma andare oltre, superare la semplice visione degli occhi, suscitare emozioni.
Ecco allora, tra un’ascesa e l’altra in montagna a osservare per ore e filmare il nido di Io Aquila, a temere e palpitare per lui, alcune impronte in filigrana: la prima volta in camera oscura; nonna Bianchina, la pantafaca e l’invidia; la compagnia tubulindra; le band e le canzoni dagli altisonanti nomi inglesi; l’austerità degli inizi degli anni settanta; i sogni e le visioni enigmatiche e misteriose sulla Sibilla; il rosario recitato nella chiesina della frazione le sere di maggio; l’urna cineraria e l’epitaffio funebre; i pantani del torrente vicino casa; il latino allo scientifico; il motorino Ciao; le escursioni con il CAI; la pertosse e il primo contatto, da bambino, con l’alta montagna.
Presentato, tutto, con delicatezza, con pennellate leggere, con affetto, anche accorato, ma senza eccessiva nostalgia e men che meno – e questo, a mio avviso, è un indubbio merito – con toni moralistici: rischio sempre in agguato quando si parla del passato, e soprattutto del proprio passato.
Ma il racconto, così come le diverse posizioni del sole illuminavano in modo mai uguale il nido del pulcino Io e i genitori che lo accudivano avviandolo al volo e a formare la sua identità, getta lame di luce su altre profonde esperienze di vita.
Le sconfinate passioni per la fotografia per la montagna e come sono nate. L’ immergersi totalmente, quasi un naufragare, nel silenzio e a suo modo dialogarvi. L’amore vissuto intensamente tra slanci e ferite. Lo stare nell’attesa, le attese: quel tempo sospeso, che punteggia la vita di ognuno, in attesa appunto di… Il rapporto con la natura: simbiotico e sincronico – l’A. prova piacere nel respirare, disteso sul terreno, a contatto con l’immenso respiro della natura, a sentirsi parte di un tutto -, ma anche, a volte, meno coinvolgente, perché la Natura è in sé perfetta, in continuo divenire, fa il suo corso indipendentemente da noi. Gli insopprimibili interrogativi e domande di senso: cosa siamo… ? e se fossimo… ? In oltre due pagine un flusso di ipotesi sulla natura umana, suggerite dalle gocce di pioggia cadenti su una tinozza, osservate dalla finestra in quel mattino particolarmente piovoso, niente montagna: gocce e gocce, appunto, di natura umana. Testo questo senza alcun segno di punteggiatura, seguendo uno stile molto moderno.
La scrittura sgorga di getto, con ritmo: immagini accattivanti, metafore inaspettate quanto incisive, cambi di registro senza forzature, accostamenti efficaci: soprattutto, molto spazio al parlato. Il che rende la lettura agevole, avvincente, piacevole, interessante per le tante suggestioni che il racconto offre.