Intervista esclusiva al tenore Eric Plantive sul maestro Bruce Brewer
di Andrea Zepponi
24 Dic 2020 - Approfondimenti classica, Commenti classica, Didattica
Densa e documentata intervista esclusiva, con articolata introduzione, di Andrea Zepponi al tenore francese Eric Plantive per far conoscere la vita del maestro grande tenore Bruce Brewer (1941-2017) e della sua concezione del canto.
È ormai assodato che quando il romanticismo impose in modo rivoluzionario la sua poetica del realismo e della presunta verità drammatica, il belcanto scomparve ben presto dalla scena lirica accusato di edonismo dalle moraleggianti esigenze romantiche e il virtuosismo ivi connesso rimase nella musica dagli anni ‘30 dell’800 in poi soltanto come espressione della intensità di una emozione che doveva eccedere il canto sillabico sia pure organizzato nella più languida melodia; la coloratura, l’agilità melismatica, il fiorire di più note sopra una sola sillaba che erano comuni, nel belcanto, sia alle voci femminili sia alle maschili rimasero, dopo il tramonto della generazione belcantistica, correlati soltanto ad alcuni momenti del canto femminile e in rarissimi casi a quello maschile nell’opera lirica che va da Donizetti a Verdi passando per Bellini. L’estetica del melodramma romantico divergeva dalle concezioni belcantistiche che intendevano esprimere in senso allegorico e virtuosistico la passione insita nella parola, non declamarla enfaticamente attraverso la musica. Il carattere realistico del melodramma romantico aveva perfino riattribuito alle diverse voci un linguaggio specifico che nel mondo del belcanto era invece comune a tutte; all’astrattezza belcantistica si sostituirono concreti richiami al carattere sessuale delle voci per cui il tenore, il baritono e il basso, secondo la visione realista, non avrebbero più dovuto esprimersi nel flessuoso canto melismatico e fiorito di un conte Almaviva, di un Giacomo V re di Scozia, di un Figaro, di un Dandini e tantomeno di un Maometto II; il realismo romantico eliminò gradualmente ma inesorabilmente i melismi dalle voci maschili e in particolare da quelle tenorili che ancora in Bellini e Donizetti si attarderanno in certi momenti di coloratura quando si tratta di parti destinate a tenori ancora appartenenti alla generazione belcantistica come Duprez e Rubini, ma in seguito tenderanno a scomparire del tutto: il tenore Elvino de La sonnambula, opera composta nel 1831, deve ancora eseguire passi di agilità e trilli nel duetto del primo atto, ma la parte di Arturo de I puritani, opera del 1835,è già piuttosto spianata e la vocalità del personaggio viene giocata soprattutto su lunghezza e altezza delle note. Il destino di emarginazione della coloratura da tutta la vocalità maschile avviato da Donizetti e Bellini fu condiviso da Verdi che limitò ogni esigua traccia di virtuosismo per il tenore a momenti espressivi rari e particolari. Nel passaggio da Verdi al verismo e della giovane scuola italiana, dopo il 1890 si scatenò quella che Rodolfo Celletti chiama una “seconda apocalisse” che interessò gli interpreti di Puccini, Cilea, Mascagni, Leoncavallo e Giordano e si protrasse a fino agli anni ’70-‘80 del ‘900: sull’onda del mito del cantante attore, il tenore fu portato a ingrossare la voce e a scurirla nel medium per attingere il massimo della sensualità e a ispessirla, invece di renderla duttile e flessibile, in modo da guadagnare in ampiezza quello che perdeva in agilità e a volte in estensione. Il fraseggio postverdiano si fece sempre più asimmetrico, fratto, pieno di inflessioni a imitazione del parlato e reso faticoso come se dovesse bucare una barriera con un volume sempre maggior e con effetti extramusicali. Si arrivava perfino a dissuadere le voci, purtroppo anche quelle femminili, dallo studio accurato delle agilità per affermare la priorità degli acuti stentorei, di una vocalità molto più plateale e atletica che artistica. Con questo non si vuol dire che il verismo e il 900 non abbiano prodotto delle bellissime voci con delle potenzialità enormi, che misero in atto solo in una parte del grande repertorio lirico e non poterono esprimere tutto il loro potenziale appunto perché da quel repertorio corrente erano scomparsi i titoli che avrebbero potuto valorizzarle di più, o impegnare altre vocalità in modo migliore per far emergere la grandezza del belcanto barocco e rossiniano. Il mercato teatrale fino agli anni ’60 –’70 del secolo scorso esigeva quel tipo di voci eclatanti e fluviali per interpretare un mondo lirico sostanziato soprattutto da Verdi, Wagner, Puccini e i veristi, relegando lo studio della flessibilità allo specialismo di poche voci per cui rimaneva un campo di azione molto limitato: un esempio ne è il Conte di Almaviva del Barbiere di Siviglia di Rossini, la cui parte veniva privata dei passaggi finali della prima aria ed esautorata del tutto dall’eseguire l’ultima, quella molto più difficile del secondo atto per cui occorre un preciso studio tecnico e una vocalità allenata alle risorse del belcanto. Ma la tecnica per affrontare i ruoli rossiniani, fosse anche per aprire i tagli che erano stati operati nella tradizione esecutiva alle parti da tenore che erano rimaste in repertorio come Elvino e Almaviva era scomparsa o esisteva ancora? Da chi sarebbe andato a studiare un giovane tenore che avesse avuto una vocalità adatta per il belcanto e la passione per riscoprire personaggi come il Don Narciso dal Turco in Italia, il Giannetto dalla Gazza ladra, il Rodrigo nell’Otello di Rossini? Quando il repertorio rossiniano e il belcanto barocco conobbero una prima renaissance, negli anni ’70 del secolo scorso nessun tenore italiano sarebbe stato in grado di sostenere parti di coloratura da tenore contraltino come veniva richiesto da certi astrali ruoli rossiniani: pensiamo al Corradino della Matilde di Shabran, pensiamo all’Oreste dell’Ermione e all’Idreno della Semiramide. Non esistevano neppure baritenori dal livello tecnico in grado di sostenere la parte dell’Otello rossiniano. Nessun maestro della scuola italiana di voci maschili ormai incallita nella tecnica verista o al massimo versata nella vocalità verdiana dove le uniche tracce di coloratura si ravvisano nella cadenza de La donna è mobile del Duca di Mantova, in quel periodo avrebbe saputo insegnare la respirazione, la tecnica per alleggerire il suono senza perdere l’appoggio sul fiato, il fraseggio, lo stile, l’esercizio tecnico, la raffinatezza musicale e soprattutto il gusto e lo spirito per fare qualcosa di bello nel repertorio che stava riaffiorando. Nessuno tranne pochissimi sarebbe stato in grado di farlo e non certo in Italia, ma solo in un territorio dove del belcanto italiano si era avuto sempre il mito: gli Stati Uniti d’America. Da dove venne il primo tenore contraltino che aprì la prima edizione del Rossini Opera Festival di Pesaro per sostenere la parte di Giannetto ne La gazza ladra di Rossini in programma in quel lontano 1980? Il tenore Bruce Brewer (1941-2017) era di San Antonio in Texas, studiò con il soprano Josephine Lucchese (1893-1974) di origine italiana e fu il primo tenore rossiniano ad aprire il Rossini Opera Festival di Pesaro. L’unica scuola dalla quale un tenore avrebbe potuto apprendere la tecnica del belcanto era quella delle voci femminili: tra queste solo il soprano di coloratura, nonostante il repertorio avesse subìto ogni sorta di deformazione, aveva conservato quell’arte dell’agilità e della duttilità vocale tollerata anche dal romanticismo per le voci sopranili di diversa taglia vocale: si pensi alle opere superstiti del belcanto, Lucia di Lammermoor, Sonnambula, Norma, I puritani e alla stessa Traviata. Da dove proveniva Maria Callas con la sua dirompente rivoluzione musicologica che riportò al centro del repertorio tutto il belcanto di agilità? In quell’America dove ella aveva appreso a considerare in senso paritetico il repertorio più recente con quello più antico da cui, grazie a doti vocali straordinarie, diede vita a una vera e propria rivoluzione copernicana che rimetteva al centro il testo musicale i cui valori dovevano essere rispettati a ogni costo dall’esecutore, mentre in precedenza erano le esigenze di cantanti mediocri e di gusto deteriore che si permettevano di deformarlo, di dimezzarlo e di oscurarlo. Ciò che la Callas prima e la Sutherland poi avevano operato fin dagli anni ’50 del 900 sul versante femminile, si presentava in grave ritardo su quello maschile e solo grazie a voci come quella di Bruce Brewer che avevano studiato con chi conservava i segreti della coloratura e del bel canto si riuscì a dar voce nell’agosto del 1980 e l’anno successivo 1981 al Giannetto de La gazza ladra di G. Rossini, opera di apertura del grande festival rossiniano di Pesaro con cui s’inaugurò la piena rinascita del belcanto rossiniano. Il pubblico italiano che aveva ancora nelle orecchie le voci di Del Monaco, di Corelli, di Bergonzi e di Bonisolli, si trovava di fronte una nuova potenzialità di canto lirico che, dopo essere stato già ampiamente riscoperto in America dallo stile pirotecnico di una Beverly Sills e in Italia di Luciana Serra, ora poteva far provare nuove emozioni per il canto maschile e in particolare tenorile grazie al ritorno della tecnica belcantistica del grande G. B Rubini che darà luogo alla stagione filologica della fine del secolo scorso dove gran parte del repertorio belcantistico fu riscoperto e rivalutato anche come formativo per un artista lirico. L’intervista esclusiva al tenore francese Eric Plantive, che ebbe la fortuna di essere allievo e amico di Bruce Brewer contiene il brivido di ridestare ciò che sembra sepolto nel tempo, ma pur sempre vitale perché i semi del belcanto, dormienti nella memoria storica e didattica di artisti come Bruce Brewer, oggi sono germogliati e rifioriti grazie a loro. Bruce Brewer fu il primo Giannetto nelle due edizioni della Gazza ladra rossiniana date al Teatro Rossini di Pesaro nelle due prime stagioni del ROF, nel 1980 e nel 1981 in cui il cantante venne confermato per la sua insostituibile capacità di eseguire un ruolo scritto per una tessitura acutissima e fornito di una agilità continua. Ma la sua missione di riportare in auge il tenore di coloratura barocco e rossiniano non si esaurì al Giannetto di Pesaro che semmai fu una delle tante tappe della sua restaurazione del repertorio tenorile del ‘700 e di primo ‘800 che egli perseguì dal 1970, anno del suo debutto nel 1970 nel ruolo di Don Ottavio nel Don Giovanni di Mozart al 1994 quando iniziò a diradare le sue presenze nella lirica: nel 1982 a Londra in associazione con la Donizetti Society alla Queen Elisabeth Hall presentò L’Esule di Roma di Donizetti nella parte di Settimio con Katia Ricciarelli nella parte di Argelia in prima rappresentazione in tempi moderni. La sua ripresa delle parti del tenore barocco del repertorio francese e in quello italiano fu continua e capillare: cantò nella parte di Oralto ne La Fida Ninfa di Vivaldi, nell’Adriano in Siria di Pergolesi nel Pygmalion, Les Paladins, Platée e nelle Les Indes Galantes di Rameau e ne Les Caprices de l’Amour di Campra; innumerevoli le sue interpretazioni di titoli rossiniani inusitati per altre voci, Lindoro dell’L’italiana in Algeri,il Comte Ory dell’opera omonima, e le parti tenorili ne La Scala di Seta, Il Signor Bruschino, La Cenerentola, nell’Otello (Rodrigo), nello Stabat Mater e il difficile ruolo di Corradino nella Matilde di Shabran di Rossini, oltre alle parti tenorili belliniane come quella di Elvino nella tessitura originale ne La sonnambula, ne Il Pirata, Bianca e Fernando di Bellini senza trascurare titoli di compositori ottocenteschi come Les Troyens à Carthage e soprattutto L’Enfance du Christ di Berlioz che eseguì nel ruolo del Narratore nell’ambito della Musica Sacra nella Chiesa di S. Stefano per il Teatro alla Scala nel 1980; La mort d’Ophélie di Berlioz e altri titoli come Le coq d’or di Rimsky Korsakov e The turn of the screw di Britten sono solo alcuni che alternò a numerosi recital di repertorio settecentesco e di primo ottocento dove diede prova di ripristinare al meglio la vocalità di Rubini, di Garcia e di Duprez nella tessitura originaria e senza tagliare i funambolici passaggi di agilità. Dopo Brewer, dalla scuola americana verranno grandi tenori rossiniani che hanno continuato la storia del ROF e hanno diffuso l’estrema bellezza e l’immenso valore del belcanto nel mondo affinché il tenore rossiniano non ha avuto il suo giusto risalto nel panorama mondale della lirica fino ad arrivare agli attuali divi del repertorio belcantistico.
La presente intervista al tenore francese Eric Plantive è esclusiva ed è finalizzata a far conoscere la vita del grande tenore Bruce Brewer e la sua concezione del canto attraverso la viva testimonianza di una persona competente e sensibile come il suo allievo e amico Eric Plantive.
D. Quando ha incontrato per la prima volta Brewer?
R. Ho scoperto il canto lirico nel 1995: mentre ero negli Stati Uniti sono entrato con mia moglie nel coro della compagnia lirica “Opera Excelsior” di Troy, New York per eseguire La traviata. Ho preso le prime lezioni di canto per sei mesi con il soprano Corine Salon che faceva Violetta, la stessa che per il mio ritorno in Francia, mi ha consigliato due nomi, quello di un grande tenore americano con cui aveva cantato in Francia, Bruce Brewer, e il nome di Eric Derio, un tenore dilettante conosciuto durante lo stage con il quale ha simpatizzato e con cui ha condiviso l’esperienza. Tornato in Francia, nella primavera del 1996, ho contattato Eric Derio che mi ha fortemente consigliato Bruce Brewer come insegnante. Ho chiamato Bruce per la prima volta nel maggio 1996. Al telefono, la sua voce sembrava quella di un ragazzo! Poche settimane dopo ho preso la mia prima lezione con lui in un appartamento parigino vicino alla Gare St. Lazare gentilmente prestato da uno studente, Yves Duverger. All’inizio sono stato colpito dal carisma di Bruce. Il suo fisico era fatto per il palcoscenico, la sua statura generale, i suoi grandi occhi, le sue sopracciglia ben definite e gli zigomi larghi.
D. Cosa sapeva già di lui prima di incontrarlo?
R. Non sapevo molto di lui se non che si era specializzato nel belcanto, la tecnica originale ereditata dall’Italia. Me l’aveva consigliato Corine Salon, dicendomi che era stata sorpresa dalla sua tecnica quando le ha consigliato di “sorridere di più” per cantare. Eric Derio mi aveva anche presentato Bruce come uno specialista di un’arte del canto quasi dimenticata. Così sono andato senza preconcetti per incontrarlo, pronto a ricevere il suo insegnamento.
D. Quale tecnica vocale le è stata consigliata? Vocalizzi al pianoforte? Quali studi le faceva cantare? Brani di repertorio?
R. Ho frequentato i corsi di Bruce dal 1996 al 2013. I corsi si sono tenuti a Parigi negli appartamenti di Delphine Arbeau (Ile Saint-Louis) e Jean-Yves Moureau (Bercy), entrambi studenti di Bruce. In estate, abbiamo avuto uno stage di una settimana con Bruce a Couptrain in Mayenne che si è concluso con un concerto alla Couptrain Church. Dalla prima lezione mi ha fatto mettere le mani sulla sua schiena e sui lati del collo per mostrarmi il rigonfiamento delle costole che si deve raggiungere, così come il distanziamento della laringe dalla nuca. La dilatazione della gabbia toracica e la distanza della laringe dalla parte posteriore del collo da lui ottenute erano impressionanti! Mi ha anche detto che, secondo Joséphine Lucchese, la sua insegnante, gli acuti si sviluppano lavorando sui bassi. I due registri sono correlati. In seguito ho scoperto che questo era davvero uno dei tratti distintivi della voce di Bruce: i bassi forti e ampi e gli acuti illimitati. Bruce aveva una grande passione per la tecnica vocale. Dopo un mese, tra una lezione e l’altra, non mi ero ancora avvicinato al “gesto perfetto” che lui voleva insegnarmi. All’inizio di ogni lezione, mi interrompeva non appena attaccavo finché non producevo ciò che si aspettava, cioè un suono perfettamente bilanciato e libero, sulla prima vocale della parola “âme” cantata sul registro medio. Essendo la voce prodotta da organi interni, Bruce usava delle immagini come tutti gli insegnanti di canto:
– il sorriso negli occhi e negli zigomi per favorire lo spazio interno dei risonatori,
– la posizione nobile con spalle basse e testa alta,
– il distanziamento dei “pilastri” interni della faringe dalla parte posteriore della gola,
– pensare il suono come proveniente nella parte bassa della schiena “più basso di quanto si pensi,”
– la ricerca spietata della minima contrazione a livello del plesso solare che è il punto di sostegno della voce che dovrebbe rimanere sempre flessibile,
– l’analogia del ventriloquo per spiegare che per cantare bisogna “dimenticare la laringe e la lingua”,
– la parte posteriore della lingua deve agire di concerto con il palato per funzionare come da “tubo per innaffiare”
– sentire il flusso del fiato sopra la vocale, mai sotto.
Bruce criticava quella tecnica per il tenore basata sul canto muscolare, su una pressione esagerata e un abbassamento forzato della laringe che causa acuti forzati, limitati e senza possibilità di sfumature e di cantare piano. Nel suo modo di cantare tutto era flessibilità e adattamento permanente dell’apparato vocale alla colonna aereofonica che procede dal basso verso l’alto. Piuttosto lui puntava a sviluppare il registro della “voce di testa” come risorsa del canto, per avere una voce flessibile, svettante con molti armonici e la massima brillantezza. Brewer concordava con il trattato di Lilli Lehmann Come cantare che mi ha invitato a leggere. Ci faceva vocalizzare accompagnandoci al pianoforte. La serie di vocalizzi era sempre la stessa, derivata dagli esercizi vocali pubblicati da Joy Roper, un’amica di Bruce. Una dozzina di vocalizzi diversi in tutto il più delle volte su una vocale particolare su cui Bruce insisteva molto: una vocale aperta tra la O e la A (come nella parola francese “Hotte”, o una a come in “âme”. Bruce insisteva molto sulla pronuncia di questa vocale che doveva rimanere articolata su tutta l’estensione, anche nelle note acute; i vocalizzi vertevano su scale cromatiche, gruppetti, staccati, ottave, mezza voce, ecc.
D. Che consiglio le ha dato Brewer sulla sua voce?
R. Dalla prima lezione di canto, ho capito che Bruce stava misurando la mia capacità di seguirlo “senza domande”. Bruce odiava gli studenti che avevano certezze sulla tecnica del canto e che venivano a trovarlo per qualche miglioramento senza voler mettere in discussione i loro eventuali difetti. Per quanto mi riguarda si è reso conto di come fosse la mia voce portandomi a vocalizzare fino al mi bemolle sovracuto dalla prima lezione. Mi ha detto chiaro e tondo che vocalizzando si deve arrivare almeno a un tono in più, rispetto alla nota più alta che può essere cantata in concerto. All’inizio di ogni lezione, la domanda rituale che veniva fuori era: “Come stai con la voce?”. Una volta ha definito la mia voce “grand lirique” e quando questa funzionava come lui voleva si sentiva che ne era veramente felice. Tra una lezione e l’altre non smetteva mai di cercare soluzioni ai problemi che incontravo, e iniziava la lezione successiva dicendo: “Ho pensato all’ultima lezione, proveremo questo …”, o anche: “Ho provato questo con Alexandra, potrebbe aiutare anche te…”. Alexandra Matloka, era la sua più giovane studentessa soprano, amica di Bruce che aveva un debole per lei perché ha debuttato a 17 anni e ha davvero sviluppato la sua voce solo negli ultimi anni di Brewer.
D. Che relazione si è creata tra lo studente e l’insegnante?
R. Un rapporto necessariamente confidenziale perché la voce è lo strumento interiore per eccellenza, permeato di tutta la nostra esistenza. La conoscenza reciproca della situazione familiare e della vita privata hanno dato profondità al nostro rapporto nel corso degli anni. A quanto pare, Bruce aveva l’età di mio padre, che morì molto giovane molto prima che incontrassi Bruce. Aveva stabilito amicizie con una piccola cerchia di studenti che erano per lui anche amici come Eric Derio, Blandine Stintzy, Odile Coppey, Yves Duverger, Philippe L’Herminier, Alexandra Matloka, Valentin Montaigne, Delphine Arbeau, Jean-Yves Moureau e altri.
D. Cosa le ha detto Brewer della sua carriera?
R. Bruce parlava poco di se stesso e della sua carriera. Era come il suo giardino segreto. Gli ci vollero diversi anni per aprirsi alle confidenze. Durante lo stage estivo del 2002 al Couptrain, nella sua casa di Mayenne, si è aperto un po’ di più facendoci ascoltare la registrazione di un programma radiofonico su di lui: ho così potuto scoprire il brano “Accourez jeunesses brillantes” di Rameau e l’aria “Credeasi misera” da I Puritani eseguita con la sua incredibile linea vocale, il Fa sovracuto finale, e infine la grande aria “A tanto duolo… Ascolta, o padre” di Bianca a Fernando con i due Fa sovracuti della cabaletta finale. È stato un vero shock per me, che ascoltavo i dischi di tutti i tenori famosi ormai da più di sette anni: non avevo mai sentito niente del genere. Era infatti una voce di tenore piena di brillantezza e armonici, di brio, ma senza limiti apparenti, una voce che si apre negli acuti, sempre pronta ad andare più in alto, che non ristagna, con una sorta di parossismo permanente, quella di un tenore che si permette di assumere le risonanze della voce di testa che gli conferisce fluidità, ma che nulla ha a che vedere con il falsetto di un controtenore. In questo tipo di vocalità il Do acutissimo è solo una nota tra le tante, mentre nelle altre voci di tenore è spesso la vetta prossima al limite estremo. Al di là degli acuti stratosferici, ciò che colpiva era la perfetta continuità tra il suo registro acuto compreso in una quinta, quello medio e quello basso (alcuni altri tenori emettono i sovracuti con significative differenze di colore, stimbrandoli o forzandoli; altri non si avventurano oltre il re sovracuto), ma tutta la voce di Bruce aveva una consistenza “aerea”, mai forzata fino ai bassi che pure risultavano molto sonori. La sua era una voce agile con una precisione e una qualità di legato uniche, i suoni filati in mezza voce (crescendo e diminuendo) e aveva caratteristiche che prima avevo sentito solo nelle donne. Una vocalità con l’estensione di tre ottave perfettamente omogenea. La voce di Bruce e la sua arte canora erano un nuovo paradigma e me ne sono subito innamorato. Anche se apprezzavo il timbro e gli acuti di un tenore spinto come Pavarotti, la voce di Bruce invece apriva ben altre prospettive che portavano la voce di tenore allo stesso potenziale della voce di un soprano e la rendevano oggetto di un interesse molto maggiore. L’estate successiva ci invitò a guardare gli estratti di una videocassetta sulla sua esibizione in Porporino girato ad Aix en Provence (1); le arie cantate nel video sono state una nuova rivelazione dell’unicità e della portata della sua arte con passaggi pirotecnici anche picchiettati, da note basse ampie e sonore ad acuti brillanti fino al re sovracuto in brani scritti per gli antichi castrati per interi nove minuti! Che facilità nel cantare, tutto senza apparente sforzo! La realizzazione dei picchettati, solitamente riservati alle donne, da parte di una voce di tenore mostra quanto fosse precisa la posizione delle sue note e quanto il suo gesto vocale fosse perfetto. Il suo canto era un cesello anche a confronto di quello di alcuni suoi partner soprano.
D. Le ha detto quali opere preferiva cantare?
R. Era appassionato del repertorio di Rubini e si considerava il suo erede. Non gli piaceva la musica contemporanea atonale per la quale riceveva proposte perché richiede voci agili, con tessiture formidabili e una grande capacità d’interpretazione. Tra le sue opere preferite ci sono i ruoli cantati da Giovanni Battista Rubini del grande Bellini (I puritani, La sonnambula, con il ruolo di Elvino nella tonalità originale, e Il pirata), di Rossini (Otello, Le Comte Ory, La Cenerentola, L’italiana in Algeri, Matilde di Shabran, La scala di seta e Il signor Bruschino), di Donizetti (L’Esule di Roma, L’elisir d’amore, Torquato Tasso).Gli piaceva meno Il barbiere di Siviglia (Almaviva) che vedeva come un ruolo che secondo lui non valorizza a sufficienza la voce del tenore. Invero nella produzione del Barbiere all’Opera di Boston in cui lui interpretava il ruolo di Almaviva tutto il risalto era stato riservato alla prima donna Berverly Sills che alla fine si era sostituita a lui nel cantare la grande aria “Cessa di più resistere” [destinata invece al tenore]. Che peccato non aver lasciato che Bruce cantasse quella parte! Era particolarmente orgoglioso di aver potuto riportare in vita tutti questi ruoli nella loro tessitura originale. Ha anche cantato in modo unico la raccolta di arie da camera di Donizetti Notte d’estate a Posillipo, alcune delle quali scritte per Rubini (A mezzanotte), e i sonetti del Petrarca, dedicati da Liszt a Rubini con il loro grande lirismo su una formidabile tessitura acuta. Era molto legato a due successi della sua carriera: Porporino, opera–pastiche data ad Aix en Provence dove ha interpretato arie di castrati (quella di Farnaspe dall’Adriano in Siria di Pergolesi e arie dall’Achille in Sciro di Jommelli) trasposte per voce tenore, cosa che ha permesso al mondo musicale di scoprire la portata della sua arte unica. La registrazione delle melodie complete per tenore di Liszt, con François-Joël Thiollier, pianista elogiato all’epoca da uno specialista di Lieder come André Tuboeuf, include i famosi sonetti del Petrarca dedicati da Liszt a Rubini e interpretati da modo unico da Bruce con tutti gli acuti (anche il do diesis sovracuto), che di solito vengono omessi o semplicemente cantati “ad alto volume” contrariamente al carattere cameristico dei pezzi.
D. Non le ha mai parlato della sua insegnante Joséphine Lucchese?
R. Me ne ha parlato come l’unica persona che Tito Schipa gli avesse consigliato. Bruce, infatti aveva preso alcune lezioni da Tito Schipa durante il suo tour americano ed è stato quest’ultimo a dargli il nome di Joséphine Lucchese come una delle uniche due persone ancora in possesso dell’arte del belcanto ereditata da Rubini e dai castrati. Abbiamo sempre cantato “sotto lo sguardo gentile” di Joséphine Lucchese il cui grande poster “The American Nightingale” era posto sul sedile davanti al pianoforte a coda nella sala da musica della sua casa a Couptrain, Mayenne. Era un personaggio fondamentale per Bruce. All’età di 10 anni aveva scoperto Rubini in un’enciclopedia e si era appassionato alla sua storia. Bruce aveva cantato come soprano prima dell’adolescenza e aveva mantenuto una grande estensione vocale dopo la muta della voce infantile, ma tutti gli insegnanti di canto che incontrava in quel periodo tendevano a fargli perdere quella estensione vocale… È davvero eccezionale che il destino abbia voluto che Joséphine Lucchese vivesse nella stessa città di Bruce, San Antonio in Texas! Joséphine Lucchese non aveva mai avuto uno studente maschio e quindi non aveva preconcetti sulla voce di tenore.
D. Le ha parlato della tecnica del bel canto?
R. Durante ogni lezione. Alcune delle parole che ha usato per descrivere il bel canto sono il controllo assoluto della voce, senza “forzature”, la mezza di voce, la coloratura, lo staccato, le ottave di sbalzo, i vocalizzi rossiniani, la voce omogenea dal registro grave a quello acuto e tutto questo al servizio del fraseggio, del suono “sempre vivo”, al servizio dell’emozione nella linea melodica con il controllo assoluto della voce per rivelare le emozioni veicolate dalla melodia. Per Bruce il belcanto, l’essenza stessa del canto, era il “fraseggio”, che trasporta le emozioni e dà vita alla linea musicale. Inoltre, se è attraverso la tecnica che si può esprimere l’emozione, Bruce ha usato spesso anche il contrario per far trovare l’esatto gesto vocale. Era un esperto nel suscitare in noi emozioni in funzione dell’attacco o del fraseggio: risate, sospiri, singhiozzi. Emozione e fraseggio erano una cosa sola per Bruce e in questo per lui sta la verosimiglianza nel canto. Aveva uno straordinario potenziale emotivo, una sensibilità estrema. Il canto era per lui più della musica: un modo per rivelare la natura dell’uomo e la verità insita in ogni persona…
D. Le ha mai parlato del suo idolo, Giovanni Battista Rubini (maestro del padre di Virginia Colombati) che fu a sua volta maestro di J. Lucchese?
R. Sì, effigi di Giovanni Battista Rubini erano su tutte le pareti della sala da musica al Couptrain e se ne trovavano anche nelle sue partiture! Bruce ci ha fatto lavorare su arie che Rubini aveva annotato (aveva più di 2000 spartiti) tra cui i più consultati erano Il Templario di Nicolaï, Il Bravo di Mariani, l’Otello e la Semiramide di Rossini, i duetti per tenore estratti da opere di Mercadante, Rossini, Pacini, i sonetti del Petrarca di Liszt, ma anche melodie di Donizetti, tra cui la A mezzanotte, dedicata a Rubini. Ci raccontava il suo desiderio di trovare il modo per cantare queste partiture nelle tessiture originali (i ruoli vocali di Arturo, Elvino, Otello, Settimio, ecc.) apparentemente “incantabili”; la sua ammirazione per la Callas che ha restaurato il repertorio del belcanto era grande, ma anche la sua delusione per la sistematica trasposizione verso il basso delle tessiture dei tenori che l’hanno affiancata. Fu il primo a cantare i brani tenorili nella loro tonalità originale nei primi anni ’70 aprendo la strada a tenori come Rockwell Blake, Chris Merritt, Grégory Kunde, o più recentemente a Juan Diego Florez, Javier Camarena, Maxim Mironov, Lawrence Brownlee. Eppure questi suoi successori, anche se hanno affrontato la tessitura e la coloratura originali del repertorio rossiniano, non hanno più trovato quel colore vocale “aereo” e quel fraseggio incomparabile che rendevano il canto di Bruce così speciale.
D. Il Maestro Brewer le ha detto che era l’erede della scuola italiana del belcanto?
R. Bruce era chiaramente l’erede dell’arte del canto originario dei castrati enfatizzato da Rubini. C’è un rapporto di filiazione da Rubini attraverso Joséphine Lucchese. La ricostruzione dei ruoli di Rubini nella loro tessitura originale, le evidenti somiglianze tra la sua voce e quella descritta dai critici del tempo di Rubini, la creazione della Rubini Society nel 1989 con Dominique Fernandez e Charles Pittt (Honorary Committee: Philippe Gossett, Marylin Horne, Jean-Claude Malgoire, Yvonne Minton, Samuel Ramey, Patric Schmid e Alexander Weatherson). Tutto indica che si sentiva davvero erede di Rubini e della scuola ottocentesca belcantista ereditata dai castrati. Eppure non trovava gli attributi di quest’arte del canto nella stragrande maggioranza dei tenori conosciuti compresi quelli specializzati nel belcanto! Gli ho parlato spesso dei tenori del passato e di oggi per avere la sua opinione. Per parlare solo di quelli che gli piacevano, una volta mi ha detto “il migliore di tutti è Nicolai Gedda”. Amava molto Nicolai Gedda, il che è perfettamente logico quando lo si ascolta, ancor di più il Gedda all’inizio della sua carriera), e ha anche elogiato le voci di Bjorling, Gigli e Schipa. Gli piacevano anche alcuni tenori del passato come il francese André D’Arkor, il tedesco Peter Anders o Nicolas Monti. Ha anche apprezzato il lavoro del tenore inglese Laurence Dale, così come il giovane Roberto Alagna quando canta come tenore lirico. Sul versante femminile Callas era il suo modello: ci faceva ascoltare le registrazioni della giovane Callas con le sue note di soprano di coloratura. Inoltre era molto affezionato a Cecilia Bartoli. Nei bassi gli piaceva molto il basso russo Alexander Kipnis. Penso che l’impareggiabile abilità canora e abilità vocale di Bruce fosse una combinazione di tre fattori: 1. L’eccezionale tecnica vocale acquisita da Joséphine Lucchese. 2. Una predisposizione fisica unica: flessibilità e altezza della voce e gabbia toracica ipertrofica. 3. Una personalità speciale e appassionata che lo spingeva a portare alla luce e ricreare una nuova concezione del canto lirico su cui lavorava instancabilmente, senza cedere alla tentazione di un timbro maschile sforzato come vorrebbe un certo pubblico, ma al contrario coltivando l’elasticità e quella morbidezza energetica gestuale del belcanto sviluppato da Rubini.
D. Ricordi notizie particolari e aneddoti curiosi e inediti prima su Brewer?
R. Una volta ha fatto un vocalizzo che toccava di sbalzo quattro sol, dal sol basso a quello sovracuto per tre intere ottave. Ma “potrebbe andare più in alto” ci ha detto. Ci faceva fare regolarmente dei do acutissimi imitando il caratteristico grido dei cowboy (la sua provenienza texana così trovava una corrispondenza con la stratosferica capacità vocale di Rubini!). Era normale che alcuni studenti non durassero con Bruce, specialmente quando erano già cantanti affermati, perché non accettavano i dubbi che Bruce esprimeva sulla loro voce. In questo caso Bruce metteva immediatamente fine al rapporto! Raccontava in una delle sue interviste che la sua vocalità aveva suscitato un certo dibattito in Italia e in particolare erano in discussione i suoi acuti: “In Italia, finché non vado negli acuti, non c’è alcuna problema, ma, appena li faccio, ci sono due schieramenti opposti!”. È triste vedere che una parte del pubblico non è stata in grado di apprezzare la sua preziosa estetica vocale, perché aveva le orecchie condizionate dallo stereotipo della vocalità tenorile spinta.
(1) BruceBrewer partecipò allo spettacolo “Porporino” al Festival di Aix en Provence nel 1979, al Teatro dell’Arcivescovo il 07-22-1979. Interpreti: James Bowman (Feliciano); Bruce Brewer (Porporino); Daniel Emilfork (Sansevero). Diretto da Patrick Guinand, lo spettacolo è stato tratto dal romanzo di Dominique Fernandez dedicato ai “castrati” con musiche napoletane del XVIII secolo, le scelte musicali erano di Roger Blanchard con l’Orchestre de Lille le scene e costumi di Pier Luigi Pizzi;
Canale YouTube: https://www.youtube.com/channel/UCkopWc6KsL1oV14cR5PDurQ
Sono molto più vere e interessanti, in questo periodo le interviste di questo tipo, piuttosto che le falsissime recensioni a trasmissioni su Sky o su canali in rete di esecuzioni e rappresentazioni operistiche a porte chiuse che risultano necessariamente doppiamente influenzate dalle inquadrature registiche delle telecamere e dal mixaggio dell’audio che non corrispondono nè l’uno né le altre alla verità dal vivo. È un falso insopportabile come è stato lo stucchevole Barbiere di Pesaro del ROF autunnale. Questo è il momento di dare la voce agli artisti attraverso le interviste e i servizi speciali sulla loro carriera. Bravo Zepponi!