Intervista all’attrice e regista Stefania Casini
di Francesca Bruni
20 Dic 2023 - Approfondimenti cinema, Interviste
La nostra collaboratrice Francesca Bruni ha raggiunto al telefono l’attrice e regista Stefania Casini che ci ha concesso, generosamente, un’intervista illuminante su una pagina importante della cultura italiana.
Stefania Casini, artista poliedrica, è attrice, giornalista, regista e sceneggiatrice italiana. Ha lavorato con importanti registi, da Germi a Bertolucci, da Paul Morrissey a Dario Argento, da Carlo Verdone ad Antonio Bido e Peter Greenaway. Ha collaborato con nomi del calibro di Robert De Niro, Gerard Depardieu, Gianni Morandi, Vittorio De Sica, Joe Dallessandro, Claudio Amendola, Lino Capolicchio e molti altri. Nel 1978, tra le prime donne a ricoprire tale ruolo, ha presentato il Festival di Sanremo, insieme a Beppe Grillo, Maria Giovanna Elmi e Vittorio Salvetti. Trasferitasi negli Stati Uniti, dagli anni 1980 si dedica principalmente all’attività di regista (cinema e televisione)-giornalista non disdegnando comunque, saltuariamente, la recitazione.
INTERVISTA
D. Quando ha capito che l’arte teatrale cinematografica sarebbero stato il filo conduttore della sua brillante carriera?
R. Ero molto piccola, credo in prima liceo quando mi sono iscritta all’Accademia drammatica di Milano, pur non avendo l’età giusta. Ci fu una grande discussione in famiglia, mia sorella mi ha aiutata a vincere la battaglia, perché ovviamente l’Accademia era di sera; quindi, io dovevo andare a scuola e fare i compiti e poi andare all’Accademia. È stata una passione coinvolgente, mi ricordo addirittura alle elementari che io facevo la regista di alcuni spettacoli perché avevamo una maestra bravissima, si chiamava Gerundino e seguiva un programma Montessori. Noi eravamo liberi di muoverci nella classe, facevamo delle recite e quindi io scrivevo, dirigevo le mie compagne. In famiglia facevamo con le mie sorelle dei mini-teatrini. Insomma, è stata un po’ una famiglia che amava esprimersi in forme diverse.
D. Uno dei primi registi che ha scoperto il suo talento artistico è Stato Pietro Germi. Mi può parlare della sua esperienza cinematografica nel film “Le castagne sono buone”?
R. Prima di tutto la mia esperienza è cominciata con un provino, come si usava una volta. Venivo da Milano ed ero scesa a Roma per fare due provini, uno con De Sica e uno con Germi. Alla porta c’era una fila lunghissima di giovani ragazze. Poi io vinsi il provino, eravamo rimaste in due, io e Sabrina Ciuffini e Germi alla fine scelse me. È stata naturalmente l’apertura al mondo del cinema, perché io già facevo teatro, ovviamente facevo anche cabaret con Giustino Durano. Però il cinema non l’avevo mai fatto. Quindi è stata una grande avventura vissuta in pieno, perché la mia casa era il set, nel senso che vivendo a Milano non avevo casa a Roma. Una mia amica mi aveva prestato un appartamento a Roma che era al quinto piano, senza ascensore. Non c’era il telefono, né cellulari, quindi ogni volta che doveva arrivarmi un messaggio un addetto della produzione veniva a mettere un cartellino… “chiama la produzione perché c’è prova vestito”. A un certo punto Germi si stufò e decise, visto che Piazza Capena era la mia casa come nel film… “ma facciamola abitare lì”, per cui io nella mia stanza da letto, avevo due cineprese e venivo svegliata dai macchinisti, e dagli elettricisti! È stata un’esperienza a tutto tondo. Da un punto di vista artistico è stata formidabile. Certo, Germi mi fece fare delle prove, mi fece vedere il provino dicendo quali erano i miei difetti, quindi lavorammo molto sul personaggio. Ed è stata una cosa per me fondamentale. Infatti, poi quando ho fatto la regista, ho sempre fatto le prove con gli attori prima di cominciare. L’importante è che un attore si impossessi del personaggio e della visione del regista.
D. Nel 1974 interpreta il ruolo di Rubinia nel film “Dracula cerca sangue di vergine…e morì di sete!!!” (Blood for Dracula), del regista Paul Morrissey e prodotto dall’artista Andy Warhol. È stato facile per lei calarsi in questo particolare ruolo?
R. Beh, tanto facile no. Non tanto per il ruolo ma perché io non parlavo in inglese, e quando la mia amica mi dice “dai, vieni, Paul Morrissey è così carino, gentile…”, e lui mi rispose “sei perfetta per fare Rubinia, però io parlo inglese e la sceneggiatura è in inglese. E poi una sceneggiatura abbozzata, perché i miei attori certe volte mi danno delle sorprese inventando le battute”. E io replicai… “non parlo inglese ma se vado bene, io fra un mese parlerò inglese”. E da allora feci una full immersion, studiai 11 ore al giorno. Andavo a mangiare con due maestri e poi i maestri ruotavano per potermi permettere di capire tutti gli accenti dell’inglese. Dopo un mese, mi ripresentai. Il suo è un cinema sperimentale, che voleva cimentarsi in una cinematografia in qualche modo di un linguaggio tradizionale, ma che nella struttura della storia, che doveva essere horror, avesse all’interno una grande ironia. Infatti, mio padre era De Sica, c’era Joe Dallessandro, e la Vukotic, che era una nostra sorella. La fotografia era curata da Luigi Kuveiller che aiutava il film a trovare un linguaggio visivo tradizionale. Era l’ironia interna, l’assurdo della storia che mi interessava. Il suo cinema però era totalmente diverso pieno di stimoli interessanti.
D. Lei ha collaborato con registi illustri tra cui Bernardo Bertolucci nel film “Novecento”, a fianco di attori del calibro di Robert De Niro e Gerard Depardieu. Mi può parlare di questa importante esperienza?
R. Eravamo amici con Bernardo, una grande amicizia e affetto, tanto che lui quando stava scrivendo “Novecento” mi disse, “ho scritto una parte per te, guarda una piccola parte, ma solo tu potresti farla”. Poi quando lessi la sceneggiatura capii perché forse solo io avrei potuto farla. C’era questa scena, abbastanza cruda per l’epoca. Il personaggio bellissimo, molto tenero. Naturalmente, per poter fare quella performance, in quanto il personaggio è una donna malata, ho dovuto studiare, vedermi non so quanti filmini di crisi epilettiche, parlare coi dottori, per riuscire a rendere vera quella scena che oltretutto segna un momento molto importante nel film, il momento in cui i due amici che da sempre sono solidali, hanno la prima grande frattura. La storia di due grandi amici, penso meravigliosa. Bertolucci era un grande regista per gli attori, proprio perché amava gli attori, quindi li conduceva alla sua visione. Per me è stato ovviamente importante, per il nome del regista, per il film, per il fatto che Bernardo non volle tagliare quella scena. Il film, infatti, ebbe un processo dove si voleva tagliare quella scena che in realtà mi ha fatto entrare nella storia del cinema.
D. Negli anni ‘70, oltre ad essere un’eccellente attrice, era considerata anche un sex symbol. Tant’è vero che la rivista “Playboy” le dedicò un numero. La bellezza è stata determinante per la sua carriera?
R. No, perché tanto io non pensavo di essere bella, tanto meno sexy. Per me era un gioco. Quelle foto le ricordo benissimo, le feci col mio carissimo amico Claudio Masenza. Vivevo a casa sua per un periodo, giocavamo a fare delle foto e lui mi disse… “mandiamo alcune foto a Playboy?!” Per me era una libertà anche di disporre del mio corpo come volevo. Quindi il fotografarmi piuttosto che vestita, per me non era una cosa nemmeno tanta rivoluzionaria, non avevo problemi. Il mio corpo è come una foglia, un gatto, come un elemento che può essere fotografato. Ho sempre utilizzato il mio corpo nelle mie performance. Avevo vent’anni e sono stata la prima figliastra con Buazzelli, a denudarsi di fronte al pubblico, aprivo questo giubbetto e mentre ero su un pianoforte dicevo il mio monologo più importante, aprendo il giubbetto e quindi mostrando il seno nudo. Ero un tipo androgeno, quindi non so come pensassero a me come un riferimento sexy.
D. Anche il maestro Dario Argento la scelse per il ruolo di Sara nel film cult “Suspiria” del 1977. Mi può raccontare qualche aneddoto durante le riprese?
R. Il mio agente mi disse … “Dario Argento vuol vederti”. Sono andata a incontrarlo, e lui mi prese. Il primo giorno di lavorazione mi truccarono, Dario guardandomi disse “No così no”. Ritornai al trucco e facemmo un trucco che facevo normalmente nella vita. Quindi ripresi un po’ la mia propria identità e Dario fu contento. Nella scena clou, dove io mi butto nel filo di ferro, abbiamo girato una sola volta perché sono entrata, non sapevo cosa c’era di là, il fil di ferro non era spinato, ma pizzicava un po’ dappertutto. Quella è stata una scena buona alla prima, che fortuna! Quando nel finale io sono una strega con il coltello in mano, in realtà mi misero degli occhi finti perché sono strapunti da degli spilloni, e io non vedevo niente. Dario volle che io avessi un coltello grande, vero, da cucina. Io ero terrorizzata! “No, no, perché non vedo niente, posso inciampare. Posso ferire qualcuno!”. Non ci fu niente da fare e girai con quel coltellaccio!
D. Tra le sue innumerevoli collaborazioni ricordiamo anche la partecipazione come conduttrice al Festival di Sanremo del 1978. Una delle prime donne a ricoprire tale ruolo, all’epoca poteva essere considerato un atto di emancipazione femminile?
R. Più che emancipazione femminile direi emancipazione artistica. Era un momento in cui il Festival in qualche modo doveva svecchiarsi, insomma erano gli anni della protesta giovanile. Quindi, invece di avere le solite vallette mummificate che recitavano il titolo della canzone con il cantante e l’Orchestra, Gigi Vesigna volle me e Grillo: “prendiamo questi due pazzi!”. Alla prima grande riunione sia io che Grillo non volevamo annunciare le canzoni, quello non era il nostro lavoro. Non eravamo dei valletti, noi potevamo fare delle cose diverse. Infatti, Grillo fece tre pezzi dei suoi e io mi inventai questo ruolo, la giornalista che andava a parlare con le celebrity che non erano al Festival. Era la prima volta che il conduttore faceva un ruolo diverso; infatti, per annunciare le canzoni c’era un’annunciatrice, Maria Giovanna Elmi. Una cosa diversa, la madre di tutte le nuove visioni del Festival. C’erano anche Anna Oxa e Rino Gaetano. Giustamente avevamo visto lontano.
D. Altra sublime interpretazione è stata quella di Sandra Sellani, in “Solamente nero” del regista Antonio Bido. Cosa ricorda di quel ruolo?
R. Mi ricordo che c’era stato il rapimento Moro, più che altro. Noi eravamo a Venezia. In una Venezia bellissima, novembrina, piena di nebbia. C’era Lino Capolicchio, meraviglioso compagno di lavoro, e Antonio Bido, che era giovane, però aveva le idee molto chiare. Per cui, quando lessi la sceneggiatura decisi di farlo, perché c’era Lino e perché quella sceneggiatura era scritta bene. Non conoscevo il regista, ma mi sono completamente fidata, come spesso ho fatto nella mia vita. È stato un film importante. Non mi sono resa conto subito dell’importanza. Negli anni ho ancora persone che mi scrivono dalle parti più strane del mondo. Un genere di film che ha la sua profondità.
D. Ad un certo punto della sua carriera decide di dedicarsi anche alla regia cinematografica e televisiva. Che sensazione prova a stare dietro la macchina da presa?
R. Beh, ho cominciato facendo la giornalista e allora ero più in America che in Italia. Ormai parlavo inglese nel momento in cui in Italia ancora non tutti parlavano inglese; quindi, in qualche modo era naturale che la televisione italiana nelle sue rubriche, avesse sempre dei corrispondenti che raccontavano le novità che arrivavano dall’America. Ero alla Rai Corporation, ho girato l’America come giornalista facendo dei reportage, quindi ho conosciuto Francesca Marciano, con cui abbiamo deciso di scrivere un film, “Lontano da dove”. Era una fotografia di quel gruppo di italiani, di cui facevamo parte sia io che lei. In qualche modo avevano creduto nella possibilità del sogno americano. Partiti verso l ‘America in un momento in cui l’Italia era molto buia, per le vicende delle Brigate Rosse, ecc. Partimmo a scaglioni proprio verso New York, che in quel momento era in pieno fermento culturale. Mi ricordo che vivevo con Francesca e tutte le mattine ci alzavamo, prendevamo un caffè, scrivevamo e poi alla sera bisboccia. Poi quando arrivò il momento di dire, “…ma chi lo dirige…?” Non ci fu nessun problema, decidemmo insieme. E quindi l’abbiamo diretto insieme. È stato un film a suo modo importante, perché è stato il primo film che raccontava di questi giovani strani, con sogni diversi, e con una grande voglia, in fondo, di ritornare. Quindi era una commedia un po’ se vogliamo, anche sentimentale, nel senso che c’era questa nostalgia anche di un paese che non avevano saputo vivere.
D. Oltre a ruoli drammatici, la ricordiamo nella commedia brillante “Maledetto il giorno che ti ho incontrato” dell’attore e regista Carlo Verdone. È stato divertente lavorare con Carlo?
R. Sì, moltissimo, io faccio un piccolo ruolo, ma lui mi ha dato completa libertà. Quindi quel piccolo ruolo poi è rimasto un’icona nel film, vuoi per l’abbigliamento, perché io avevo questo cappello bellissimo, assurdo che era di una modista mia amica. Carlo disse “perfetto per fare la radical chic!”. Ma io avevo già esordito nella commedia. Avevo già fatto un film assurdo. Non mi ricordo più come si chiama perché ha cambiato titolo tre o quattro volte. Una commedia con dei bravissimi attori, tra parentesi, negli anni ‘70. Molti attori di teatro venivano coinvolti in commedie leggere con un umorismo da “commedia dell’arte.” La storia era molto buffa perché era fatto a episodi, in quell’epoca c’erano molti film a episodi. E io facevo la moglie italiana di un siciliano mi pare, comunque uno del Sud. Vivevamo ad Amburgo dove, senza dirlo al marito, per tirare avanti, lei finisce per fare dei film a luce rosse e tutto diventa una sorta di pochade. Avevo anche fatto con Pozzetto un’altra commedia “Luna di miele in tre” di Carlo Vanzina.
D. Tornando ai nostri giorni, la troviamo tra i protagonisti del film horror “L’orafo” del regista Vincenzo Ricchiuto. Possiamo dire che questo genere di pellicole hanno predominato nella sua lunga carriera cinematografica?
R. Beh, predominato, direi, è un po’troppo. Diciamo che mi diverte farli e questo senza dubbio è fondamentale. Quando mi hanno offerto “L’orafo”, film molto horror c’era Giuseppe Pambieri come mio partner. Allora ho accettato subito perché con Pambieri non ci vedevamo da tempo immemorabile. Avevamo fatto tutti e due giovani, “La scuola delle mogli” di Molière, che fu una delle prime commedie in Rai a colori. Era stata una cosa molto particolare. A quel tempo, poi, si si girava in diretta, nel senso che si registrava però era come a teatro, senza interruzioni. Avevamo dei costumi bellissimi, un testo di Molière sublime. E io mi ero trovata benissimo con Pambieri. Ci siamo molto divertiti. Un piccolo film che mi ha dato un sacco di soddisfazioni all’estero. Proprio ieri ho ricevuto un messaggio del regista che mi diceva il film ha aperto sulle piattaforme e DVD in Giappone. Dopo aver fatto la Russia, l’Australia, mi hanno anche dato un premio in uno di questi Festival dell’orrore come miglior attrice.
D. Secondo lei quanto è cambiato il cinema dagli anni ‘70 ad oggi?
R. Per fortuna è cambiato tantissimo. Purtroppo, vedo che c’è da parte soprattutto del broadcaster Rai, una continua domanda di commedia. La commedia è un genere difficilissimo. Pochissimi lo fanno bene. E purtroppo ci sono tanti filmetti che passano uno, due, tre giorni al cinema, poi si vedono in televisione ed è un peccato. Perché poi il genere, come appunto i film “de paura”, come direbbe Guzzanti, i thriller sono un genere in cui eravamo bravissimi. Si facevano dei film chiamati “commerciali” che però avevano un’importanza, anche artistica. Rivalutati poi dagli americani, come sempre. Perché quei film hanno ispirato Tarantino, per esempio. Non si frequentano più tanto i generi, e questo un po’ mi dispiace. Poi come in tutte le epoche abbiamo delle eccezioni di registi importanti. Penso a Garrone “Io capitano” che è un film meraviglioso. Penso a Sorrentino, a Martone, penso insomma a questi registi importanti che ovviamente fanno dei film che certe volte sono straordinari. Penso anche a Moretti, sono l’immagine di un cinema italiano vivo e creativo. Però in genere nel cinema commerciale si tende un po’ a frequentare lo stesso genere, la commediola. Quindi magari il giovane regista per riuscire a fare un film si autolimita in un genere che è quello più richiesto, appunto, la commediola. Credo che sia difficilissimo riuscire a fare qualcosa di importante. Negli ultimi dieci anni sono arrivate le serie che a volte sono più interessanti dei film. E soprattutto gli americani hanno dato una svolta stilistica precisa alle serie. Adesso anche in Italia ci si va in qualche modo orientando su quella tipologia. Invece la complessità del mondo offre molto su cui riflettere e raccontare. È un momento mondiale molto confuso, con tutte queste guerre che ci sono e la violenza sulle donne… questo fenomeno in Italia è allucinante. C’è sempre stato, solo che non veniva alla luce. È la crisi del Patriarcato. L’uomo non ha un’identità forte e usa la violenza. C’è un processo di imitazione, poi. Se pensiamo ai social, quindi se pensiamo alla comunicazione…e al modo con cui si è sviluppata…Internet ha cambiato e modificato la comunicazione, ma poi ha fatto crescere questo gusto all’apparire, nel voler dire sempre qualcosa, questo gusto a nascondersi dicendo anche delle cose cattive; questo odio, questa invidia… che è il male della rete. C’è molto su cui riflettere!
D. Si ritiene soddisfatta del suo percorso professionale?
R. Mi ritengo soddisfatta visto che ho fatto ciò che mi piaceva, non ho mai fatto qualcosa controvoglia. Ho mollato tutto per andare in America e fare la giornalista, nel momento in cui come giornalista avrei potuto entrare in un giornale, ho detto “non posso firmare un contratto che mi lega” e quindi sono ripartita per il mondo a fare i documentari costruendomi una società di produzione. Ho realizzato delle “realtà virtuali” quando ancora nessuno capiva che cosa fossero; quindi, ho sperimentato le novità tecnologiche e linguistiche, perché la mia curiosità mi porta ovviamente su queste strade. Completamente soddisfatta no, perché vorrei fare ancora più esperimenti, appunto, nel mondo della tecnologia, come la realtà virtuale e la realtà aumentata. Per esempio, sto disperatamente cercando di trovare dei canali perché ho ideato un’installazione, contro la violenza delle donne, sensoriale, però non trovo i soldi per farlo. È una installazione che deve essere prodotta da un’Istituzione pubblica perché deve essere gratuita. Non riesco ancora a farla, per via di questa grande crisi economica che incombe da dieci anni; ci sono stati dei cambiamenti anche da parte di quelle che erano le fondazioni culturali.
D. Sta lavorando a nuovi progetti?
R. Sì, come produttrice sto cercando di produrre un film che ho scritto assieme a Giancarlo Soldi, mio marito. Lui lo dirigerà, è un thriller paranormale molto intrigante che si chiama “Vertigine nera”. Dovremmo cominciare ad aprile, speriamo di riuscire a chiudere il circolo economico. Poi ho un progetto internazionale che sto portando avanti ormai da un anno. Faremo una call con l’Europa creativa. Il progetto è nato al Sunny Side, nella versione nuove tecnologie. È un progetto di realtà aumentata che mette a fuoco la realtà dei migranti che vivono accanto a noi, a volte clandestinamente dal tiolo “Invisible Cities”, ispirato al meraviglioso libro di Calvino. Siamo quattro autori di nazioni diverse, e speriamo di riuscire.
Bello! Grazie, grazie infinite e grazie tante per questa intervista.
Per carità, è stato un piacere.