Intervista al chitarrista, cantautore e scrittore Massimo Zamboni


a cura di Francesca Bruni

9 Ott 2024 - Approfondimenti live, Interviste, Letteratura, Varie

Francesca Bruni ha raggiunto telefonicamente il musicista e scrittore Massimo Zamboni che ha concesso al nostro magazine un’intervista sincera, articolata e preziosa, che ripercorre, attraverso la sua carriera, pagine fondamentali della cultura italiana.

(Le foto ci sono state gentilmente concesse dall’intervistato)

Massimo Zamboni al “Festival biblico” di Ariano nel Polesine (RO), 2022

Massimo Zamboni, chitarrista, cantautore e scrittore italiano, è stato chitarrista e compositore dei CCCP e dei successivi CSI. Negli anni Settanta approda alla musica psichedelica, prog e rock. Forma il gruppo Rynazyna, con Umberto Negri e Pelloni. Per il suo primo gruppo di genere punk/new-wave, i Frigo, sempre con Umberto Negri, viene composto il brano Noia, successivamente recuperato dai CCCP – Fedeli alla linea e inciso nel loro album d’esordio “1964-1985 Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi – Del conseguimento della maggiore età”.

Da solista nel 2004 ha pubblicato l’album Sorella sconfitta realizzato con NadaLalliFiamma Fumana e il soprano Marina Parente; seguito nel 2005 dall’album dal vivo “L’apertura”, insieme a Nada.

Nella sua intensa e prolifica carriera ha pubblicato 9 album in studio, 2 dal vivo e una raccolta; 40 colonne sonore; 11 libri e uno in dirittura d’arrivo.

Il suo ultimo progetto, il Reading musicale “P.P.P. Profezia è Predire il Presente”, dedicato a Pier Paolo Pasolini, è stato presentato a Firenze nell’ambito della Rassegna “Estate Fiorentina” e sarà portato in tour nei teatri italiani.

Sito web di Massimo Zamboni: https://www.massimozamboni.it/

INTERVISTA

D. Nel 1988 insieme agli altri componenti della band CCCP- Fedeli alla Linea, avete stupito il mondo con il vostro viaggio musicale iniziato al Festival “Le Idi di Marzo” di Melpignano per arrivare a suonare nel marzo 1989 a Mosca e Leningrado, nessuno era riuscito a creare questo ideale ponte tra due mondi opposti; com’è nata in voi questa folle idea, mix tra utopia e sogni?

R. Confesso di non essere così sicuro che il mondo fosse stupito dai nostri eventi, in quegli anni stavano accadendo cose così enormi a livello planetario da rendere un’inezia la nostra avventura. Tra l’altro non era neanche partita come idea propria di CCCP, noi siamo stati oggetto di una intuizione folle di un comune allora sconosciutissimo, il comune di Melpignano in provincia di Lecce, nel pieno del Salento, da cui è scaturito il lampo di genio di invitare in Italia per la prima volta a suonare gruppi sovietici. Ottenuto questo, l’anno successivo sono riusciti a ottenere dal presidente Gorbaciov in persona l’autorizzazione per una spedizione in segno opposto, quindi a portare alcuni gruppi italiani, CCCP, Litfiba e Mista & Missis a suonare a Mosca. E si è creato questo cortocircuito sorprendente per cui ci siamo trovati a volare verso quelle due città, a suonare in situazioni così come testimoniato da “Kissing Gorbaciov”. Credo che il film stia piacendo tantissimo, sta avendo tantissimi riscontri non solo per la forza della volontà di chi crede in un’idea, in un progetto e sa come perseguirla, ma anche perché indica la possibilità di affrontare i propri sogni, di prenderli in mano, di osare in un senso molto più terreno, terrestre e anche umile in qualche modo. Consapevoli della propria piccolezza proviamo a immaginare la differenza di estensione tra il Comune del Melpignano che conta poco più di 2000 anime e l’Impero Sovietico.

Eppure, questo scambio c’è stato.

D. Dopo lo scioglimento di CCCP hai intrapreso la tua brillante carriera artistica come solista; mi puoi raccontare gli inizi di questa nuova avventura?

R. L’inizio è stato molto drammatico, Non avrei mai pensato di trovarmi in mezzo a un’avventura da solista, così come tu l’hai definita, perché ero nato assieme a CCCP, assieme a CSI, ero formato in una collettività in cui ognuno aveva i propri ruoli, i propri alti, i propri bassi e dove ognuno portava qualcosa di sé. Trovarmi così spaventosamente solo all’inizio del 2000, quando sono stato obbligato in qualche modo ad uscire dai CSI, è stato molto pesante. Ho dovuto capire in profondità che cosa avrei voluto fare da lì in avanti. Ho cominciato scrivendo e componendo colonne sonore e poi pian piano ho sentito crescere una forza in me. Ho cercato di riflettere su quello che mi era successo cercando di dare dei connotati non personali ma universali; perché quello che stavo affrontando era una consuetudine quotidiana per milioni di persone. Capita alle città, capita a intere popolazioni. Si trattava di trovare la dimensione sensata di questi paragoni, ribaltando i miei ragionamenti fuori da me, trasferendoli in un album che si chiama “Sorella sconfitta”, in un altro che è “L’inerme e l’imbattibile”, in un altro che si chiama “L’estinzione di un colloquio amoroso”. Sono tutte riflessioni in musica su queste vicende e pian piano ho sentito il sangue circolare. Non avevo mai cantato né parlato né pensato di rimanere solo, di comporre da solo tutte le canzoni degli album. Eppure, è stato ampiamente salutare, sono diventato in qualche modo adulto in mezzo a quel periodo tormentato.

D. Hai collaborato con diversi artisti, tra cui con la cantante Nada. Com’è nato questo sodalizio?

R. Quando ho pensato di comporre l’album “Sorella sconfitta” mi rendevo conto che la mia voce non era ancora pronta ad affrontare quelle canzoni, un po’ perché veramente non avevo mai parlato prima, figuriamoci cantare da solo. Quindi ho pensato di affidare i testi a una serie di persone, tra cui Nada: la sua voce è così potente, così forte, così rimbombante in certi momenti, che mi sembrava perfetta almeno per un paio di canzoni, in particolare “Miccia prende fuoco” che è uno dei manifesti di quell’album. Abbiamo cominciato ad avvicinarci, poi l’anno successivo abbiamo pensato che avremmo potuto fare un tour assieme cantando le mie e le sue canzoni. Quindi ci siamo ritrovati in concerto assieme e questo è stato il primo tassello per tornare sopra un palco suonando e cantando.

D. Il tuo stile si può definire rock d’autore; cosa significa proporre tale genere musicale e quanto è differente suonare punk rock rispetto al sofisticato cantautorato?

R. Non mi sono mai definito né punk rock né cantautore, aspetto sempre che siano gli altri a trovare la definizione esatta perché io ancora non la so trovare. Sto passando anche ora da un’interpretazione di canzoni popolari ad album come “La macchia mongolica”, soltanto strumentale, oppure canzoni accompagnate con le chitarre elettriche. Dipende dal momento, dipende dal progetto, dipende anche da quello che voglio esprimere in quel momento.

Mi rendo conto dell’importanza dei testi nelle mie composizioni dove ogni parola è curata all’infinito e questo fa di me un autore, probabilmente. La parola cantautore mi sta stretta perché mi rimanda a una scuola con la quale credo di avere veramente poco da condividere o da spartire. Senza presupponenza, siamo semplicemente diversi. Mi rendo conto che non ho composizioni da easy listening, non è mainstream, non è niente del genere. Un giorno alla fine capirò che cosa ho fatto, ora preferisco far finta di non saperlo.

D. Nei tuoi bellissimi album affronti tematiche sociali come nell’ultimo disco “La mia patria attuale”, pubblicato nel 2022, una riflessione sul ritrovare la propria patria; non abbiamo più il senso di appartenenza perché c’è stato tolto”; cosa ne pensi dunque della nostra società attuale?

R. Sapere cosa penso della società attuale è un po’ complesso; sapere cosa penso di quell’album è un po’ più facile per me, nel senso che alla mia età credo che sia necessario riflettere su parole come patria: una parola della quale siamo stati dispossessati. Non che io mi senta particolarmente patriottico, non per caso ho abbinato l’aggettivo attuale per non dare un carattere di eternità a una patria che continua a essere così respingente nei confronti dei suoi cittadini; però questa riflessione va compiuta. Non possiamo accontentarci di essere delle banderuole che vivono soltanto all’interno del proprio corpo o del proprio telefono, del proprio appartamento, dell’auto, senza relazioni con il circostante e il circostante è una nazione che ci definisce come italiani, nella quale noi pratichiamo la lingua italiana, la cultura italiana e con cui dobbiamo fare i conti.

Dobbiamo fare i conti anche nella respingenza attuata da questa patria. Così ho composto canzoni che seguono questo percorso mentale, accettando ancora una volta il divenire adulti e non avere paura di affrontare le parole scomode, perché quelle danno il senso della nostra esistenza e anche i limiti del nostro essere.

D. Oltre ad essere un illustre musicista, hai scritto molti libri, tra cui ricordiamo “La Macchia Mongolica”, uscito nel 2020, a 24 anni di distanza da quel fatidico viaggio in Mongolia che ha segnato profondamente la tua carriera e la tua vita privata. Cos’è cambiato da quell’esperienza fino ad oggi nel tuo essere uomo ed artista?

R. La Mongolia rimane sempre come sottofondo a tantissime azioni compiute nel quotidiano di vita. Abito in montagna con degli animali, in mezzo agli animali, in mezzo al bosco e quindi ho sempre un rimando a un mondo naturale, anche se certo non amplificato come quello mongolo, dove l’estensione è veramente immensa rispetto al nostro mondo. Però c’è sempre questo rifarsi ai cicli naturali, alla vita con gli animali, al sapersi gestire, a prendere con le proprie mani anche la quotidianità, a procurarsi il cibo, coltivarlo, allevarlo. La Mongolia ci ha fatto – parlo al plurale, per tutta la famiglia – riflettere sulla voglia, sul bisogno e poi anche sull’attuazione di un sogno improbabile per un musicista sempre in transito: avere un figlio – una figlia nel nostro caso – perché questo genere di tensioni, se fai il musicista, se fai l’artista, se fai lo scrittore è molto difficile da coltivare. Sei troppo preso dal tuo personale viaggio. Invece la Mongolia ci ha allineato con questo, in maniera molto pacificante. Le saremo grati eternamente.

D. A tuo parere, quanto i mutamenti sociali condizionano anche gli stili musicali?

R. Direi tanto e poco insieme. Tanto perché ora, ad esempio, non si ascolta più musica che non sia da sottofondo per le chiacchiere nei bar o nei supermercati o dal benzinaio; non c’è più modo di usare i CD, gli LP sono ancora di grande nicchia, il digitale non è palpabile, manca proprio la possibilità tecnica. Ho appena pubblicato da pochi mesi un album con la radio svizzera, non l’ho neanche distribuito, ce l’ho in tasca e lo regalo a chi mi è simpatico, perché non ha veramente un gran senso mettersi in una logica di mercato di diffusione. Quindi questa scelta industriale che ha deciso di azzerare la musica, quando non sia talento mainstream, o intrattenimento, sicuramente influenza le produzioni.

D’altra parte, però se tu hai una tensione così forte o una motivazione così forte per comporre la tua musica non ci sarà nessuno che ti potrà fermare, perché che sia CD, LP, dal vivo, per strada, a voce sguaiata, a voce sommessa, in chiesa, tu la tua musica la farai.

D. Nel giugno 2024 è uscito nelle sale cinematografiche il documentario “Arrivederci Berlinguer” di Michele Mellara ed Alessandro Rossi per celebrare i 40 anni della morte di Enrico Berlinguer; mi racconti di questa collaborazione per la parte musicale e cosa ha significato per te tale personaggio politico?

R. Berlinguer era il segretario del partito a cui io ero iscritto negli anni 70, quando mi sono iscritto alla FGCI per uscirne poco dopo. È stato una persona di riferimento fino alla sua morte, così come il PCI è stato il mio partito di riferimento, così come l’Unità era il mio giornale di riferimento. Ancora oggi queste presenze mi popolano, nel senso che se scrivo un libro come “La trionferà” è perché ho voluto ripercorrere tutta la storia del PC in Emilia-Romagna tracciandone la dimensione epica, così come accade anche per “L’eco di uno Sparo”. Sono presenze consistenti, come lo spettacolo dedicato a Pasolini, così come “Arrivederci Berlinguer”, il film che ho musicato. È stato un invito facile da accettare perché queste sono cose mie, perché appartengo a quel mondo. Questo film mi ha dato la possibilità di allargarmi molto con la composizione musicale, perché i registi non hanno voluto raccontare un periodo dal punto di vista storico, cronachistico, documentario, ma lasciare, proprio, spazi alla suggestione. Ci sono spazi larghissimi, anche 10 minuti di musica ininterrotta. Non soltanto ti riportano al giorno del funerale per renderti conto dell’immensità di quel popolo e anche dell’immensità di quel sogno che accompagnava quel popolo, ma ci portano anche all’oggi facendoci chiedere che cosa abbiamo perduto, che cosa siamo diventati. Un Arrivederci, quindi, non un addio. Un Arrivederci: una delle poche speranze di futuro che abbiamo. 

D. Venerdì 13 settembre scorso ti sei esibito a Firenze per la rassegna “Estate Fiorentina”, proponendo il Reading musicale “P.P.P. Profezia è Predire il Presente”, dedicato a Pier Paolo Pasolini; in riferimento a questo evento, il pensiero filosofico di Pasolini, si sarebbe potuto sposare con l’autenticità del tuo pensiero artistico?

R. Questo spettacolo lo porterò in tour per tutto il prossimo anno perché il caso mi ha portato a realizzarlo proprio a ridosso del cinquantennale dell’uccisione di Pasolini. Io avevo 18 anni quando è avvenuta, ricordo tutto perfettamente. È un autore che mi ha sempre accompagnato, anche se la sua produzione poetica mi era sempre rimasta un po’ più sotterranea rispetto agli articoli sui giornali o i film. Scoprire questa produzione poetica e andare a fondo è stata veramente un’esplosione perché la trovo di una grandezza assoluta.

In nome di questa sua grandezza non posso accettare che il mio nome sia accostato al suo. Mi metto come osservatore devoto e umile perché è di un’altezza che non è assolutamente raggiungibile. Pasolini ha chiesto molto a sé stesso, sapeva perfettamente dove l’avrebbe condotto il suo percorso. Io chiedo molto a me stesso, ma mai con questa determinazione e sempre con molti paracaduti attorno, tutti quei paracaduti che lui ha tranciato di propria volontà.

D. Hai un disco che ami particolarmente e che ti rappresenta?

R. Mah, sono tutti figli miei in qualche modo, è difficile, non vorrei fare torto a nessuno.

D. Un disco tuo in particolare?

R. “Sorella sconfitta” è stato il primo e lì si trova tutto quello che capiterà in futuro, c’è una maniera riflessiva di comporre le canzoni, di esporsi, in qualche modo è stata la chiave per poter costruire i 25 anni successivi.

D. Ma un disco tuo che non sia tuo, nel senso che piace a te, che ascolti?

R. Ce ne sono tanti, in questo periodo ascolto sempre poco, in maniera maniacale e ripetitiva. Non mi piace assolutamente il rock, non mi piacciono le batterie, detesto le chitarre; mi piacciono le grandi lagne, mi piace Nick Cave, mi piacciono queste cose qua, Laurie Anderson, Einsturzende Neubauten mi piacciono ancora di più. Ogni tanto anche i CCCP e i CSI.

D. Quali altri interessanti progetti hai per l’avvenire?

R. Sto terminando un libro che parla di un episodio storico avvenuto sull’Appennino Reggiano alla fine dell’Ottocento: lo specchio di un mondo infinitamente più grande. Sto terminando la regia dello spettacolo su Pasolini, siamo proprio alle rifiniture. Poi vediamo, mi piace anche abbandonarmi un po’ a quello che capita, perché è bello mantenere le braccia aperte.

D. Secondo te perché i CCCP e voi avete fatto questo tour, insomma vi siete riuniti per fare questo tour che ha avuto moltissimo successo. A tuo parere perché avete avuto così tanto successo dopo tanti anni, dopo più di 40 anni?

R. Io preferirei porre questa domanda e ascoltare le risposte, perché ancora non ci è chiaro quello che succede. È chiaro che in qualche modo c’era molta attesa, tante persone non erano riuscite a vederci per evidenti motivi di età. Probabilmente la nostra maniera di accostarci al palco, alla musica, alla scenografia, allo spettacolo è rimasta molto attuale.

Siamo molto stupiti di vedere questi ragazzi di 16, 17, 18 anni in prima fila che conoscono tutte le canzoni, che le amano senza divismo, non siamo un fenomeno da baraccone, d’intrattenimento. C’è qualcosa di molto profondo che ci lega e questo è decisamente una grande soddisfazione. Per me questo ritorno è stato un regalo del cielo, lo prendiamo come tale, ringraziamo e guardiamo avanti.

Ringrazio te veramente per questa bellissima intervista.

Grazie.

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