Intervista al cantante Ryan Paris
a cura di Francesca Bruni
21 Mar 2025 - Interviste
Francesca Bruni ha raggiunto al telefono il cantante Ryan Paris (Fabio Roscioli), una delle icone dance degli anni ’80, che ha concesso a “Musiculturaonline” un’approfondita e sincera intervista.
(Le foto sono state gentilmente messe a disposizione dall’intervistato)

Ryan Paris è un cantante, chitarrista, compositore e produttore musicale nato a Roma, dove ha studiato Storia dell’architettura, chitarra classica ed anche recitazione. Ha anche studiato al conservatorio di musica di Frosinone Arrangiamento per grande orchestra jazz ed è stato insegnante di musica alla scuola media e professore di chitarra alla scuola di musica popolare del Testaccio.
Come attore ha partecipato ad alcuni film tra i quali: Baby Sitter – Un maledetto pasticcio con Renato Pozzetto, C’era una volta in America di Sergio Leone e alcuni film di fantascienza diretti da Alfonso Brescia alla fine degli anni settanta.
Ryan Paris ha ottenuto il successo discografico nel 1983 con la canzone Dolce vita, composta, suonata e prodotta da Pierluigi Giombini, con testo di Paul Mazzolini, in arte Gazebo.
Dolce vita fu inizialmente pubblicato in Italia dall’etichetta Discomagic Records, per poi entrare al numero 1 in quasi tutte le classifiche di tutto il mondo, tra l’altro raggiungendo il quinto posto della classifica inglese, motivo per il quale Ryan Paris fu ospite due volte della trasmissione musicale Top of the Pops. La canzone è stata prima in classifica in Francia, Belgio, Svizzera, Olanda, Danimarca, Spagna e Austria.
Il singolo seguente, Fall in Love riuscì a entrare nelle classifiche inglesi e francesi e al settimo posto della classifica spagnola. Negli anni successivi Ryan Paris produce 6 brani per la Coca Cola 1999-2000 e concentrandosi sulla composizione, sullo studio della chitarra elettrica (Ryan è stato professore di canto e di chitarra classica e brasiliana) e sulla produzione musicale nel suo studio di registrazione. Nel 2010 esce, sotto l’etichetta indipendente I venti d’azzurro Records, un nuovo brano, di cui Ryan è l’autore di testo e musica, intitolato I Wanna Love You Once Again, che si rifà al genere Italo disco. Segue, nel 2011, Parisienne Girl, Sensation of Love (2013), che bissa il successo del 2010, Yo quiero amarte una vez mas (2014), It’s my life (2015-2016), Buonasera Dolce vita e Love on Ice (2017).
Per le numerose attività di Ryan Paris negli ultimi anni in Italia e soprattutto all’estero rimandiamo i lettori all’intensa e sincera intervista ricchissima di notizie, curiosità e approfondimenti.
INTERVISTA
D. Come nasce la passione per la musica?
R. Come nasce la mia passione per la musica? Non lo so (ride).
Il fratello di mio nonno, il mio “nonnastro”, Gualtiero Cavallini, era un cantante lirico. Aveva fatto anche dei dischi con Renata Tebaldi e con Maria Callas. All’età di 4-5 anni, conoscevo a memoria tutte le operette e le opere, cantavo brani tipo Un bel dì vedremo. Non so se la mia passione per la musica sia nata lì. Crescendo, poi, vedevo che mio cugino, suonando la chitarra, rimorchiava parecchio. Allora mi dissi: “ah, quasi quasi!” (ride). Chiesi quindi a mio padre di comprarmi una chitarra. Comprammo una Eko, che però suonai pochissimo.
Negli anni ’67-’68, durante la scuola, ho avuto una band. Anche mio cugino, a Grosseto, aveva una band, “Gli Esseri”. Lui aveva un anno più di me e suonava la chitarra. Facevano le prove in garage, come si faceva a quei tempi, e io ero sempre lì con loro, anche se loro non volevano che facessi niente. Ascoltandoli, mi dicevo: “porca miseria, mi piace davvero…”. Ricordo che suonavano le canzoni dei Rokes, dei Beatles e dei Rolling Stones, ma solo quelle in italiano, tipo Con le mie lacrime, o pezzi un po’ più particolari.
In quegli anni mi piaceva moltissimo la musica di James Taylor, tutta la musica folk, ma anche tutta la musica rock.
Con la mia band, “La Chioma di Berenice”, facemmo un solo spettacolo, un Capodanno. Io, non conoscendo l’inglese, cantavo un po’ così, alla Celentano, diciamo. Nessuno di noi, però, sapeva che la festa in cui stavamo suonando era, in realtà, la festa di Capodanno di una scuola americana, per cui ad ascoltarci c’erano solo inglesi e americani. A un certo punto, una ragazza che stava sotto al palco mi disse: “Possiamo venire un attimo su a cantarla noi?”. Io stavo cantando Yesterday, ma cantavo davvero alla Celentano, improvvisando e inventando le parole! Quella ragazza salì sul palco e la cantò tutta. Ascoltandola, decisi che avrei dovuto imparare l’inglese. Da quel momento, la cosa è andata avanti: ho scritto dei testi, e ho avuto un’altra band, i Gigolos.
Insomma, la musica mi è sempre piaciuta.
A 22 anni ho cominciato a studiare seriamente chitarra e poi, per cinque anni, ho insegnato musica in varie scuole, tra cui anche alla Scuola Popolare di Musica del Testaccio. Ho fatto tanti incontri musicali bellissimi, ho conosciuto i grandi italiani del jazz.
Mentre ero a Roma conobbi, tra gli altri, anche Irio De Paula. Era scappato dal Brasile a causa della dittatura ed era venuto a fare un concerto in Europa con Maria Bethânia. Si era innamorato di Roma al punto da prendere un appartamentino vicino al Lungotevere.



D. Le tue origini sono di matrice rock. Cosa ti ha spinto successivamente ad approdare alla dance music?
R. Tutti i sabati, Irio De Paula organizzava a casa sua delle jam session a cui partecipavano tutti i più grandi musicisti di quegli anni: chitarristi, sassofonisti, trombettisti. A queste jam session partecipavo anche io, che suonavo la chitarra. All’epoca io insegnavo Baglioni e Battisti – Battisti, tra l’altro, è uno dei miei idoli degli anni Settanta – in una scuola di jazz, di free jazz, ed era molto bello perché era una scuola di musica popolare.
A Roma suonavo anche in un trio insieme a un percussionista uruguaiano e a un bassista-cantante argentino. Io suonavo la chitarra. Facevamo musica sudamericana, ma io non cantavo. Un giorno, suonammo una canzone sudamericana che conoscevo bene, “Insensatez”, di Antônio Carlos Jobim. Poiché non sapevo improvvisare bene con la chitarra questi brani sudamericani, invece di suonare, la cantai. Finita la canzone, Irio posò il contrabasso (perché suonava il contrabbasso durante quelle jam session), e mi disse “Fabio, ma tu devi cantare!”. Una cosa del genere, detta da un mostro sacro come lui, mi portò a riflettere: magari dovevo provare davvero a cantare! Anche uno dei due batteristi della mia band, The Gigolos, con cui stavo partecipando al primo Festival italiano di rock al Piper, mi diceva sempre: “Ma perché non canti da solo? Hai il fisico, canti bene… prova, no?”.
Quando il nostro tastierista partì, cercandone uno nuovo riuscii ad avere il numero di Fabio Liberatori degli Stadio; lui era in tour con Lucio Dalla, quindi non poteva unirsi a noi, ma mi mise in contatto con un ragazzo veramente molto bravo, Pierluigi Giombini, arrivato quell’estate numero due e numero cinque con Masterpiece, cantata da Gazebo, e con You are a danger, cantata da Gary Low. Lo incontrai e rimasi davvero estasiato dai nuovi suoni che usava. Giombini mi disse che gli piaceva moltissimo la mia voce, perché gli ricordava quella di Stevie Winwood, anche se il problema, secondo lui, era che cantavo solo in italiano. “Canto anche in inglese, ti porto una canzone”, gli promisi. E la sera stessa chiamai il bravissimo Emanuele Luzzi, il figlio del critico di jazz Mario Luzzi, per fare una canzone al volo. Scrissi una canzone dal titolo You Gonna Save My Love, andammo nello studio di questo suo amico, e il giorno dopo portammo il pezzo a Pierluigi Giombini che era a Roma da Cherubini a vedere il Fairlight, uno strumento che costava al tempo 300 milioni. Lui mi disse: “è molto bella questa canzone, con chi la fai?”. Io risposi vagamente che stavo con l’RCA, anche se non sapevo nemmeno chi fossero quelli dell’RCA, perché in quegli anni ero uno di quei musicisti puri, abbastanza fuori dal mondo. Allora mi propose di andare da lui per lavorare sul brano. Feci due prove da lui, poi mi chiamò un giorno chiedendomi di migliorare il bridge, il preinciso, del brano, perché non lo convinceva. Mi disse: “Ho scritto una canzone che non è rock, ma che vorrei cantassi tu. Era La dolce vita”.
Quindi, per rispondere alla tua domanda: il mio passaggio alla dance non è mai avvenuto, perché mi è semplicemente arrivata una canzone meravigliosa. Io ho sempre continuato a fare musica, perché per me esiste musica bella o musica brutta, non c’è altro.
Musicalmente parlando, oggi ci sono tante cose molto belle, soprattutto nella musica indie. Di recente ho avuto l’occasione di conoscere Mac DeMarco, un importante artista canadese che vive a Los Angeles e fa indie. L’ho conosciuto grazie a La Dolce Vita: un giorno un mio amico mi parlò di questa superstar americana che aveva fatto un video sulla mia canzone e stava avendo un enorme successo. Dato che parlava della mia canzone e di me, decisi di rispondergli: mi misi di fronte a un minimoog e gli mandai un video, proponendogli anche un remix di La Dolce Vita. Ci scambiammo alcuni video, poi nel 2018 gli inviai un brano scritto dall’idea di un mio amico. Lui ne fu entusiasta, gli mandai la musica, la cantò, ma poi il covid ci ha costretti a uno stop forzato. Nel 2023, trovandosi in Europa per dei concerti, venne da me con l’idea di scrivere una canzone da zero. Ne è nata Simply Paradise, che ha quasi 6 milioni e mezzo di ascolti su Spotify e 700 mila visualizzazioni.
In Italia, all’inizio degli anni ‘90, fui chiamato dai Subsonica, che stavano facendo un disco ispirato agli anni ‘80. Ci incontrammo e mi fecero ascoltare questa versione rock de La Dolce vita fatta con le chitarre. Era bellissima. Registrammo un demo meraviglioso che cantai con le chitarre rock, nello studio dei Subsonica, insieme a Boosta, ma poi la Sony bloccò tutto perché voleva qualcosa di più elettronico. Fu un vero peccato.
Oggi, credo che la musica, e specialmente quella indie, non venga tanto promozionata anche se c’è molto fervore, tanto movimento. Per esempio, con Mac abbiamo appena fatto una nuova canzone, in America, scritta da me e cantata insieme – lui ha fatto l’inciso – che in due mesi ha raggiunto un milione e mezzo di ascolti.


D. Sempre nel 1983 esce nei cinema italiani il film cinepanettone per eccellenza, “Vacanze di Natale” dei fratelli Vanzina, dove nella colonna sonora faceva spicco anche il tuo famosissimo brano; quanto tutto ciò ha influito nella tua brillante carriera?
R. Io in realtà non ne ero neanche al corrente! Ho saputo tutto dopo…
La mia storia musicale è abbastanza particolare, nel senso che ho fatto il primo disco con Pierluigi Giombini e con la Disco Magic, un’etichetta milanese molto importante. Nel 1984, Giombini scrisse per me Fall in Love, una canzone bella ma di un genere completamente diverso dal mio: non era una dance, e per di più era troppo alta per la mia voce, tanto che ci misi tre giorni per riuscire a cantarla. Giombini la vendette alla Disco Magic, ma essendo sotto contratto con un’altra casa discografica mi vendette anche a quest’ultima e fece anche un LP, che era molto brutto e poco serio… ma questa è la verità! Cominciai quindi a lavorare con la BMG, poi uscii anche da loro, perché il disco non funzionava per niente… anche se adesso gli ascolti su Spotify sono quasi 20 milioni.
Venendo dall’idea del rock, io pensavo che bisognasse fare un bel LP e quindi iniziare a fare concerti, mettere su una band, ecc. In questo senso, invece, la musica degli anni ‘80 era molto diversa. Ricordo che un giorno mi dissero che c’erano due discoteche a 100 metri una dall’altra che volevano farmi cantare per un bel po’ di soldi. Io non avevo ricevuto nulla dal produttore con cui avevo un contratto, per cui cominciai dopo a fare le serate. In realtà la mia idea era di aspettare a fare un LP, ma questa cosa non venne mai. Soltanto adesso sto veramente lavorando come dico io.
E quindi, tornando al film… io l’ho saputo solo dopo, nessuno mi aveva informato; eppure, fu un successo enorme, e ora in molti associano il film alla mia canzone, soprattutto per la famosa scena con il protagonista toscano che esclama quel celebre “madonna campagnola…!” (ride).
La dolce vita è una canzone meravigliosa che mi ha sostenuto quando poi ci furono dei tempi buissimi. Tra l’altro, io non avevo ricevuto alcun compenso, per cui, in realtà, Ryan Paris non è affatto quel super ricco che la gente si immagina… anzi!
Le cose cambiarono nel ’98, quando i Modern Talking fecero una versione rap di You’re my heart, you’re my soul: da lì ripartì tutta la musica degli anni ’80, perché fino a quel momento, negli gli anni ’90, nessuno voleva la musica degli anni ’80. Io, da quel momento, ricominciai, e piano piano, anno dopo anno, mi sono tolto diverse soddisfazioni: scrivendo canzoni sono tornato anche in classifica, due anni fa, con una canzone che è stata numero uno su iTunes per tre giorni. Sono molto contento!
D. Che aria si respirava in quegli anni nel panorama musicale nazionale e internazionale visto che La dolce vita ebbe popolarità in tutto il mondo?
R. In realtà del livello nazionale so ben poco, perché sono stato completamente fuori da cose del tipo serate o altro proprio perché, appunto, aspettavo di fare un LP. Ero fuori da tutte le dinamiche degli anni ‘80. Per intenderci, mi chiamò Roberto Turatti, che aveva collaborato anche con Chieregato o con Den Harrow per brani come Happy Children. Nel 1983, Turatti aveva organizzato un tour della musica disco degli anni ‘80 e mi coinvolse in questo progetto. Con me c’erano Jock Hattle, ovvero Albert One, Den Harrow, Joe Yellow, tutti artisti i cui nomi erano stati inventati da Severino Lombardoni. Il mio nome, Ryan Paris, non gli piaceva per niente, ma io fui abbastanza categorico, dicendogli: “o così, o niente!”. E modestamente mi sembra un bel nome. Facemmo questo tour in cui comunque guadagnavamo a serata e poi provammo nelle radio del nord.
Prendevamo pochissimo, e andavamo in discoteca e mi ricordo che la discoteca era chiusa. Era tutto organizzato così.
In quegli anni non ho proprio lavorato in Italia, mentre ho lavorato pochissimo all’estero, proprio perché – come ti dicevo prima – aspettavo di fare un LP. Oggi, invece, il lavoro è completamente diverso, tutto è cambiato.
D. A distanza di quasi 40 anni è un brano ancora molto amato dal pubblico, “La dolce vita”. Qual era la carta vincente di questo grande successo?
R. Una melodia meravigliosa, dei gimmick musicali, quel basso bellissimo che da solo crea già una melodia perfetta. Quei suoni incredibili, la grande bravura di Pierluigi Giombini nel creare un arrangiamento che non era assolutamente usuale per l’epoca. Quella era vera musica!
Credo anche che la melodia di “La dolce vita” sia stata scritta esattamente per la mia voce. Conteneva questi suoni nuovi dati dai sintetizzatori, che non esistevano prima di allora, ed era una melodia pulita, nel senso che non c’era dietro un discorso imposto dalla casa discografica. Era musica vera, nata per una canzone scritta da quel genio di Pierluigi Giombini, che aveva trovato in me il cantante giusto per quel brano.
“La dolce vita” è un mix fra più influenze: si sente il rock e l’influenza di David Bowie, ci sono gli anni ’70, e infine la componente strumentale che ricorda un po’ la musica sudamericana.
Si tratta di una melodia non solo originale ma anche strutturata: normalmente le melodie sono di quattro misure o otto misure; in quel caso, invece, l’inciso era dieci misure, che è qualcosa che accade davvero raramente nella musica.
D. E poi c’era anche il look, perché negli anni ‘80 il cantante molto era associato anche al look, al modo di vestire, anche nel tuo caso avevi il tuo look ben preciso, perché ogni artista aveva il suo… Bello, bello, complimenti!
R. Un look che ho curato interamente da solo. Da membro di una band rock ho sempre curato il look e ho sempre amato vestire bene. A un certo punto ho scelto di vestire Versace, poi invece ho iniziato a frequentare i negozietti dell’usato, a Roma. Ce n’era uno, stupendo, che si chiamava “Cosi è se vi piace”, in centro, vicino a via del Corso: lì comprai quel frac, quello smoking blu con cui ho fatto parecchi concerti, a una cifra ridicola, 35.000 lire.
Per un cantante il look è molto importante, certo, però la canzone va naturalmente al di là del look. Diciamo che il look aiuta, e io non ero male.
D. Che evoluzione ha avuto la musica dance dagli anni ‘80 fino ai giorni nostri?
R. Negli anni ’90, la musica dance era diventata molto tecnologica, e si era trasformata appunto nella “tecno music”, che io ho vissuto molto.
Gli anni ’80, invece, li ho vissuti a Roma, frequentando Tony Esposito e Remo Licastro, che lavoravano nella Capitale, e tutta la loro cricca, che includeva De Piscopo, James Senese, Bennato, Pino Daniele.
Negli anni ’90, poi, mi sono sposato e mi sono trasferito in Germania con mia moglie, a Francoforte. Lì, in quel momento c’erano i Milli Vanilli, Terence Trent D’Arby, Frank Farian con i Boney M. – erano lì, erano per la strada. C’erano pure i finti Milli Vanilli con i capelli fatti dalla mamma di un mio amico americano, mentre i veri Milli Vanilli abitavano poco lontano. Quel periodo della tecno, gli anni ‘93, ‘94, ’95, è stato davvero incredibile, e io l’ho vissuto facendo però un altro genere di musica. Con degli amici facevamo rock e dance particolare, i primi brani pop.
Ma tornando agli anni ’80… oltre a Roma ho vissuto pure cinque anni a Parigi e quindi ho vissuto anche la musica francese. E a proposito di Francia, è in uscita un disco, un remake di una canzone francese, Un peu plus près des étoiles, che parla delle antiche migrazioni dall’Africa e dall’India. Proprio ieri è uscito in promozione in Francia.
Quindi, posso dire di aver vissuto un po’ la situazione italiana, ma molto la Francia così come la Germania. Tra l’altro, ora faremo un tour della New Wave tedesca, la Neue Deutsche Welle; ci saranno Nena, il doppione di Falco, altri 2-3 gruppi, Markus. Abbiamo 20 concerti in programma per ora, ma ci stiamo ancora lavorando.
In Italia, invece, ora, sta succedendo una cosa bellissima!
Nel 2010 mi chiamò Marco Rossi della Azzurra Music per fare un remix di La dolce vita. Restammo in contatto per diverso tempo, nacque una bella amicizia. Dopo un periodo in cui ci siamo persi di vista, mi ha richiamato quest’anno e abbiamo deciso di fare un doppio LP con le canzoni italiane e straniere degli anni ‘80. Il disco uscirà presto: su una facciata c’è Sally di Vasco Rossi cantata da me, L’estate sta finendo, Soli di Celentano, Meraviglioso di Domenico Modugno… insomma, tutte canzoni bellissime, che hanno fatto la storia della musica italiana. Ci sarà pure un inedito meraviglioso di Franco Califano – considera che la Azzurra Music ha vinto, a Sanremo, il premio Luigi Tenco, proprio con un LP inedito di Califano. Nel secondo LP, invece, cantano Mariella Nava, Ornella Vanoni, i Tiromancino, Patti Bravo. E mentre preparavo il disco, ho sentito questa canzone cantata da Mariella Nava che mi è piaciuta moltissimo. E lei mi fa: “Ma perché non provi a cantarla? Fate magari un duetto”. Essendo baritono, però, non arrivo a certe note alte. Allora ho adattato la melodia e l’ho cantata: è piaciuta così tanto da decidere di farla uscire come singolo. Quindi, dopo il suo brano, uscirà questo mio singolo. Nell’altra parte dell’LP, invece, ci sono canzoni che ho fatto con Mac DeMarco in cui canto da solo, in italiano, una mia canzone inglese fatta invece in italiano con una cantante italiana, altre due mie canzoni originali, e altri brani tipo Losing My Religion dei REM, Words, Tarzan Boy, Self Control, Careless Whisper.
Si tratta di un doppio LP. Ci sarà anche un duetto con un cantante della fine degli anni ‘80, bravissimo, ma di cui non posso svelare il nome. Faremo un mash-up di una sua canzone e di La dolce vita.
Quindi, ecco, in Italia è in corso questo progetto molto bello. Ma le cose si stanno muovendo pure in Francia e in Inghilterra, dove sto lavorando. In Inghilterra andrò, a gennaio, al “Jazz Cafe” di Camden Town a Londra, in un locale cult della musica indie, jazz e moderna. Sai com’è, gli inglesi fanno cose molto particolari… Ne sono molto contento; lo stesso Lee Jones, il cantante di “Imagination”, con cui sono stato in tournée, mi ha detto che quello è un locale davvero di culto.
Ho un calendario pienissimo, sarò sempre in giro: uno spettacolo con la Neue Deutsche Welle in Germania, poi in Romania, a Salamanca per un concerto importantissimo degli anni Ottanta e poi tante altre date in giro per l’Europa.
Ho fatto persino un concerto su una nave, in Norvegia, insieme ad altri due artisti. Ero nel porto, e in un negozietto ho sentito la musica di Mac DeMarco alla radio nazionale: la cosa mi ha impressionato, perché è evidente che all’estero la situazione è diversa rispetto all’Italia. Io vivo tra la Germania e l’Italia, ma quando sto qui in Italia, se accendo una radio (…)


D. Con quali artisti del momento ti piacerebbe realizzare una nuova hit?
R. Una domanda difficilissima, devo pensarci bene prima di rispondere.
Mi piacerebbe duettare, in realtà, con la cantante che ha fatto Hypnotized insieme ai Purple Disco Machine. È un brano bellissimo, il mio preferito. E poi mi sarebbe piaciuto fare un duetto con David Bowie (ride). Anche se mi accontento di aver duettato con Mac DeMarco, che è comunque il numero 390 nel mondo… (ride)
Mi piacerebbe cantare davvero con tanta gente, ma sono già soddisfatto delle collaborazioni che ho con Markus, in Germania, e con Mac, in America.
D. Lo spirito ottimista spensierato che si viveva negli anni Ottanta, pensi che adesso sia svanito? E quanto è importante la musica per trasmettere positività alla gente?
R. La musica è una forma di comunicazione eccezionale, attraverso cui un artista trasmette speranza, positività. La musica trasmette un messaggio positivo sempre, a prescindere dal genere. Persino con i brani di dark punk, tipo quelli dei Tuxedomoon, dei Cure, dei Radiohead. È un mezzo di comunicazione incredibile.
D. Nella tua carriera hai interpretato anche ruoli cinematografici; mi puoi parlare della tua esperienza nel grande film, C’era una volta in America, di Sergio Leone, del 1984, che penso sia uno dei film più belli della storia del cinema?
R. È stata un’esperienza incredibile!
C’era una volta in America durava sette ore e fu girato in varie parti del mondo. Al tempo, conoscevo una ragazza americana di origini siciliane, Caterina Watson, che viveva a Londra e qui in Italia faceva casting per i film. Un giorno, mi chiese di recarmi negli studi sulla Tiburtina perché stava lavorando ai casting per un film adatto a me. Mi presentai lì alle otto di mattina e, appena arrivato, bussai sulla schiena di un uomo che era di spalle per chiedergli se avesse da accendere. Era Robert De Niro. Anche lui fumava, quindi abbiamo fumato una sigaretta insieme.
Feci il casting e mi presero. Fu un’esperienza bellissima.
Nel film, avevo ruoli minori, facevo piccole comparsate: appaio in scene in cui tiro una rosa bianca su una tomba, ballo, prendo qualcosa al bar… insomma, brevi apparizioni, ma grazie alle quali posso dire di aver recitato in un film di Sergio Leone!
Qualche giorno fa, a mio figlio è capitato di dire la stessa cosa. Lui ha 25 anni, per sette anni ha cantato nel coro di Mainz, il più importante della Germania, con cui ha fatto concerti in America, in Brasile… Di recente ha deciso di lasciare la musica e studiare economia, anche se sono convinto che la musica è qualcosa che ha dentro di lui. Mi ha accompagnato nel tour dei Fiordi, in Norvegia, e quando di fronte a 500 persone ho cantato La dolce vita, ho voluto farlo insieme a lui. Era tesissimo, ma è andata davvero bene. Tre giorni dopo, mentre eravamo lì sulla nave a goderci dei giorni di vacanza, assistevamo al concerto di Markus e del double di Falco, e lui ha detto proprio quello che ho detto io in merito al film: “Vedi papà, io tre giorni fa su quel palco c’ero”.
Quindi, lo stesso vale per me: posso dire che, in quel film, “io c’ero”.
Quella non fu tuttavia la mia unica partecipazione in un film; ho lavorato anche con Pozzetto, con Maria Schneider, con Angela Molina.
Benissimo, grazie tante, davvero, della bellissima intervista.
Grazie tante a te.