Intervista al cantante e artista Miro Sassolini
a cura di Francesca Bruni
4 Dic 2024 - Approfondimenti live, Interviste
Francesca Bruni ha intervistato per il nostro magazine il famoso cantante, artista poliedrico e sperimentatore Miro Sassolini che oltre a raccontarci il suo percorso artistico ci ha anticipato i suoi interessanti progetti futuri.
Miro Sassolini, pittore, scenografo, cantante e musicista, artista poliedrico, eclettico e fuori dagli schemi, ci ha concesso un’intervista in cui racconta la sua storia artistica e i progetti in cantiere per il futuro.
Personaggio importante nel panorama artistico italiano, Sassolini ha sperimentato diversi linguaggi collaborando con nomi di rilievo quali i Diaframma, la poetessa Monica Matticoli (con la quale continua un fertile sodalizio), Gianni Maroccolo, Claudio Rocchi, Mauro Sabbione, Cristiano Santini, Federico Bologna, Lorenzo Bonechi, Achille Bonito Oliva, Fabio Provazza, Leandro Braccini, Raffaello Ferrini, Marco Olivotto, Carmine Torchia, Paolo Benvegnù.
Per un approfondimento sulle produzioni di Miro Sassolini vi invitiamo a leggere la pagina a lui dedicata da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Miro_Sassolini
INTERVISTA
D. Mi parli del periodo della “Transavanguardia” che hai vissuto con il grande critico d’arte Achille Bonito Oliva?
R. La “Transavanguardia” è stata una scheggia adolescenziale, un movimento breve. Negli anni giovanili ho frequentato assiduamente la bottega di Lorenzo Bonechi e colto le occasioni che nel frattempo si presentavano. Era lo stesso Lorenzo che sceglieva dove collocare le mie opere. Delle collettive avanguardiste ricordo tanti stili a confronto, un’interessante dis-armonia. In generale, stiamo parlando degli anni fra il 1979 e il 1981: è passata un’era geologica e, a parte la soddisfazione di un ragazzo per il piccolo contributo che con i suoi pennelli aveva l’opportunità di dare, non ricordo altro di particolarmente significativo.
D. Tu sei stato la voce simbolo della storica band Diaframma; mi racconti di quel periodo e che clima si viveva negli anni ‘80 in cui prevalevano innovazioni e sperimentazioni sonore?
R. I Diaframma sono la variante lunga della stessa scheggia con l’aggiunta di barba incolta e aria da intellettuale.
La new wave è stato un movimento culturale internazionale talmente vasto, complesso e articolato che può stordire e disorientare ancora oggi. In pochi anni travolse e segnò per sempre gran parte del dogma culturale occidentale. Fu sì una rivoluzione, ma arrivò nel nostro Paese quando la fiamma sperimentale si stava esaurendo. In Italia ci siamo concentrati quasi esclusivamente su lingua, metrica e melodia, aggiungendo tasselli importanti nel processo di ricostruzione e appropriazione. La vera e propria ricerca musicale a mio parere è arrivata dopo aver perfezionato questi elementi. Laddove abbiamo potuto lavorare immediatamente con le immagini, bypassando testi e forma canzone e contaminando l’impossibile, sono nate zone creative di grandissimo interesse. A mio parere le sperimentazioni più rilevanti sono state fatte in campi dove la musica era parte di altro. Mi vengono in mente i Giovanotti Mondani Meccanici (GMM) e “L’Eneide” di Giancarlo Cauteruccio. Creatività e innovazione al potere. Questa straordinaria miscela ha favorito l’assorbimento di anglo-sonorità altrimenti indigeste e restituito un mezzo miracolo; soltanto mezzo, perché non abbiamo saputo rinnovarci come movimento.
D. Perché a un certo punto hai deciso di lasciare la band e da allora come sono rimasti i vostri rapporti a distanza di anni?
R. Come ho detto prima, non abbiamo saputo rinnovarci come movimento: dunque anche le pile che mi avevano legato ai Diaframma si erano esaurite. La fine degli anni ‘80 ha rappresentato un profondo spartiacque tra pensieri parole opere e omissioni. I rapporti potrebbero essere migliori ma non si può avere tutto dalla vita.
D. Successivamente all’uscita dal gruppo, hai realizzato il progetto multimediale “Van Der Bosch”, una fusione tra arti figurative e ricerca vocale; cose significa per un artista sperimentare cose nuove ed esprimere alla gente ciò che è necessario dire?
R. Significa tornare alle schegge impazzite degli esordi con un decennio di esperienza sulle spalle. Significa libertà. Significa riprendere un antico percorso e non lasciarlo più. Nel progetto “Van Der Bosch” non c’è fusione ma dialogo, le parti mantengono sempre la propria autonomia e non si mischiano mai. Il bisogno di sperimentare è una necessità dell’artista e può non comunicare niente che sia immediatamente comprensibile. A mio parere non si tratta di dire ciò che è necessario: la ricerca artistica segue strade diverse da bisogni contingenti. Si tratta semmai di suggerire lenti che consentano di intravedere ciò che diversamente sarebbe impossibile vedere, di sperimentare ciò che potrebbe essere, e che non è.
D. A proposito di questo, che ruolo ha l’artista nel sensibilizzare le persone ai problemi che li circondano e quanto l’arte può contribuire a rendere la società migliore?
R. L’artista non è un membro di Greenpeace: non pensa socialmente ma individualmente. Gli artisti oggi non mi sembrano tendenzialmente in grado di intercettare i profondi cambiamenti storici e culturali in atto. Allo stesso tempo, questa società non mi sembra in grado di recepire cultura. Un disastro comunicativo.
D. Il tuo timbro vocale rievoca molto l’impostazione lirica; che tipo di studi hai fatto e cosa vuoi esprimere ed evocare al pubblico che ti segue, scuotere gli animi ed invitare a guardarsi dentro?
R. La vociona l’ho da sempre: gli studi giovanili sono necessari ma spesso dispersivi. Quando sai di avere una voce potente e versatile canti di tutto. Provi di tutto. Anche la lirica e il jazz. Fondamentalmente ormai canto per me stesso; forse in chi mi ascolta evoco ancora qualcosa, suscito emozioni. Non so però cosa vedono, cosa sentono le persone. Non lo so più.
D. Tu dici che “Il canto è uno spazio interiore con una storia d’amore dentro”; mi puoi spiegare il significato di tale definizione e qual è il modo migliore per comunicare attraverso la musica e dare la giusta appartenenza alla voce?
R. Non si spiega: l’amore è uno spazio personale. Il canto. Il canto è soltanto il guscio. Mi verrebbe da dire che non c’è un modo. Forse sincerità, leggerezza, equilibrio? Ma chissà come funziona la comunicazione, oggi!
D. Nel 2017 esce per la storica etichetta fiorentina Contempo Records il bellissimo disco “Del Mare La Distanza” in cui si ritrovano molte sonorità che ricordano il grande cantautore Franco Battiato; hai mai collaborato con lui durante la tua carriera?
R. Grazie. Disco sfortunato, meglio non approfondire. Ho conosciuto Franco nel 1994 ma non ho mai collaborato con lui. Ricordo lunghe conversazioni romane ma nessun progetto specifico. Battiato è un mio grande punto di riferimento.
D. Tu sei un artista poliedrico e fuori dagli schemi, pensi di essere abbastanza capito dalle persone o c’è qualcosa che vorresti ancora comunicare?
R. La mia poliedricità è sostanzialmente disordinata e dispersiva. Adesso è un caos organizzato che funziona abbastanza. Oddio. Essere fuori dagli schemi è molto rischioso. In tempi come questi “intercettare” è fondamentale e per farlo devi stare dentro, non fuori. Comunicare da fuori diventa molto arduo.
D. Cosa significa per te essere poeta?
R. Se parli di poesia dovresti chiedere ai poeti. Io la canto la poesia, non la scrivo. Comunque, penso che fare poesia, poesia vera, autentica, oggi, sia davvero complicato.
D. Tra le esperienze artistiche che hai vissuto, a quale sei particolarmente legato e se tu dovessi tornare indietro rifaresti tutto?
R. Rifarei tutto. Ogni singola esperienza. Parlo delle cose veramente importanti.
Rifarei mille volte la collaborazione con Monica Matticoli, che per fortuna resiste a sismi e cambiamenti climatici.
E rifarei anche i Diaframma. Ovvio.
D. Cosa stai preparando per i tuoi amati fan?
R. Qualche anno fa ho perso un amico fraterno dopo una lunga malattia. Per elaborare la sofferenza mi chiudevo in camera e componevo musica, non avevo nulla da dire e si canta solo se si è felici. Monica ha ascoltato le musiche e ha cominciato a tradurre alcune poesie di Dylan Thomas che potessero stare su quelle sonorità. Con l’aiuto di Alessandra Bersiani abbiamo realizzato un piccolo concept di 11 brani letti da Monica con alcune incursioni vocali mie; forse inseriremo qualche poesia cantata da me estratta da “L’essenza dell’io”, disco sperimentale realizzato con Marco Olivotto e uscito per Oèdipus nel 2017 in allegato al libro di Monica “L’irripetibile cercare”. Non so cosa diventerà, per ora siamo completamente assorbiti dalla creazione. Di certo proveremo a portarlo in scena, magari già dalla primavera-estate.
Come cantante e compositore invece sto lavorando ad alcune poesie di Monica estratte da una sua raccolta inedita, “Il canto dei ghiacciai”. Sto componendo le musiche insieme a Luca Andriolo e prevediamo anche altre collaborazioni; siamo all’inizio, magari ne riparleremo più avanti.
Infine: il prossimo anno ricorreranno i 140 anni dalla nascita di Dino Campana. Con Carmine Torchia e Monica Matticoli abbiamo realizzato una versione completamente rinnovata del nostro spettacolo sui “Canti orfici”, cui abbiamo aggiunto canzoni e letture tratte dallo scambio epistolare fra il grande poeta marradese e la scrittrice Sibilla Aleramo. Mi piacerebbe poterlo riportare in scena, credo sia fra le cose più intense e mature che abbia mai fatto. Vedremo.
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