“Il visitatore” alle Muse


Alberto Pellegrino

27 Dic 2013 - Commenti teatro

Una scena de "Il visitatore"Ancona. Lo scrittore franco-irlandesi Eric-Emmanuel Schmitt (1960) svolge da anni un’intensa attività di saggista e romanziere, ma ha avuto successo soprattutto come drammaturgo dopo aver debuttato nel 1991 con La nuit de Valognes e diversi suoi testi sono diventati dei successi mondiali come Variazioni enigmatiche, Il libertino, il Ciclo dell’invisibile formato da tre commedie sulle tre grandi religioni monoteiste, Piccoli crimini coniugali, I miei vangeli (adattamento teatrale del Vangelo secondo Pilato). Nel 2001 ha ricevuto dall’Accademia di Francia il prestigioso Gran Premio per il Teatro.
In questa stagione teatrale la sua commedia Il visitatore è stata portata sulla scena da Alessandro Haber e Alessio Boni per la regia di Valerio Binasco, le scene di Carlo De Martino , i costumi di Sandra Cardini, il disegno luci di Umile Valnieri, le musiche di Arturo Annecchino. Lo spettacolo è stato rappresentato con grande successo di pubblico dal 12 al 15 dicembre al Teatro delle Muse di Ancona. Il visitatore è la seconda commedia scritta da Schmitt nel 1993; è stata tradotta in 15 lingue e rappresentata in 25 Paesi; ha ricevuto nel 1993 tre Premi Molière come “rivelazione teatrale”, “migliore autore”, “migliore spettacolo di teatro privato”. In Italia l’opera è stata messa in scena per la prima volta nel 1996 con Turi Ferro e Kim Rossi Stuart per la regia di Antonio Calenda, mentre nel 2006 è stata la volta di marco Predieri e Marcello Allegrini.Scena de "Il visitatore"
Siamo a Vienna nel 1938 quando per le strade risuonano i canti e passi ritmati dei nazisti che hanno occupato l’Austria e la sua capitale. Nel suo appartamento un Sigmund Freud vecchio e malato discute con la figlia Anna (Nicoletta Robello Bracciforti) se sia opportuno lasciare il paese oppure rimanere e rendere testimonianza contro le persecuzioni degli Ebrei che sono subito iniziate, quando irrompe sulla scena un militare tedesco (Francesco Bonomo), che si spaccia per un appartenente alla Gestapo e che si fa dare del denaro in cambio di una protezione che viene subito meno quando, di fronte alle accuse di Anna, porta via con sé la donna minacciandola di sottoporla a spietate torture. Mentre il padre preoccupato telefona all’ambasciatore americano per invocare protezione, ecco apparire, quasi materializzarsi dal nulla, uno strano personaggio vestito come un clochard, soggetto a una visibile agitazione psicomotoria.
Di chi si tratta? Di un pazzo fuggito dal manicomio come annunciano i giornali o nientemeno di Dio come lascia intendere abbastanza chiaramente l’uomo? Si stabilisce immediatamente un dialogo sui massimi sistemi tra il vecchio scienziato che ha sempre negato l’esistenza della divinità e questo soggetto che dimostra di conoscere il passato e anche il futuro di Freud e che offre anche un aiuto concreto quando suggerisce come sbarazzarsi per sempre del militare nazista venuto a pretendere l’intestazione di tutti beni posseduti dallo scienziato. Nasce un dibattito serrato tra l’Altissimo che vuole mettere in crisi Freud il quale, da parte sua, vuole sottoporre alle sue cure quello che considera solo un malato di mente.
Freud di fronte alle argomentazioni del visitatore sembra vacillare, ma poi contrattacca dicendo che è l’uomo ad avere creato Dio per dare un senso all’esistenza, per esorcizzare la paura che tutto debba finire con la morte, quindi lo scontro si sposta sul problema del male nel mondo, sulle responsabilità degli uomini e di Dio: “Se fosse Dio, stasera, gli chiederei il conto…gli chiederei di mettere il naso fuori della finestra, una buona volta. Lo sa Dio che il male corre per le strade con stivali di cuoio, con speroni di acciaio a Berlino, a Vienna e presto per l’Europa intera?”. Questo è per Freud il fallimento di un Dio crudele e ingannatore: “Cosa sarebbe Dio se esistesse? Un bugiardo. Uno che prende un impegno e poi ti scarica”. Il visitatore, di fronte a questa violenza verbale, risponde che Dio ha creato l’uomo libero di scegliere tra il Bene e il Male (qui rappresentato dal Nazismo), che non potrà impedire l’imminente massacro della seconda guerra mondiale e dello sterminio del popolo ebraico. Annoiato per aver creato tutto, afflitto dalla sua stessa solitudine, Dio ha volito vedere da vicino queste sue creature che un tempo si accontentavano  di sfidare Dio, mentre ora vogliono prendere il suo posto e quindi assumersi la responsabilità dei drammi e degli orrori del Novecento. Dio diventa così il dubbio che come un tarlo s’insinua nell’intelligenza umana e mina dalle fondamenta il primato della ragione invocato da Freud che, quando l’uomo fugge dalla finestra, tenta di esorcizzare il dubbio sparandogli un colpo di pistola quindi si rivolge alla figlia dicendole “L’ho mancato” per cui sia lui che gli spettatori rimangono con il dubbio se hanno assistito al delirio di un pazzo e alla rivelazione di una divinità che afferma di volersi inginocchiare dinanzi all’uomo per abbracciarlo e per ricordare che sua vera essenza è l’Amore.
Malgrado l’idea di fondo non sia del tutto originale, Schmitt ha la grande capacità di scavare nella psicologia dei personaggi, assicura al testo un ritmo serrato e carico di momenti coinvolgenti grazie anche alla bravura dei due protagonisti, un Haber assolutamente straordinario nel vestire i panni del vecchio Freud e un Alessio Boni che lo asseconda con bravura rendendo credibile un personaggio quanto mai difficile. Valerio Binasco mette a punto una regia che s’impone di seguire il testo come una partitura senza sconvolgimenti e senza avanguardismi, curando la recitazione dei quattro interpreti e creando un doppio spazio scenico validamente supportato dal progetto-luci: l’appartamento di Freud che ha la freddezza di un set cinematografico e uno spazio semibuio dal quale entrano ed escono i due protagonisti che scelgono una dimensione quasi surreale per affrontare i passaggi più impegnativi della pièce. Unica libertà che si prende la regia è quella di trasformare l’azzimato ed elegante visitatore in frac in quella tutto sommato più credibile in una specie di barbone nevrotico e irascibile. Binasco sottolinea con intelligenza che questo testo non appartiene al teatro dell’incomunicabilità e del silenzio, che la drammaturgia contemporanea ci ha abituato a considerare la parola come un elemento secondario, mentre autori come Schmitt dimostrano di avere ancora fiducia nella parola e nel dialogo tra esseri umani: “In questa commedia le parole sono importanti e l’autore sembra coltivare la speranza che quando gli uomini s’incontrano e si parlano possono, forse, cambiare il mondo…E’ un testo coraggioso che non ha timore di riportare in Teatro temi di discussione importanti come la Religione, la Storia, il Senso della Vita…Schmitt affronta questi temi in modo diretto, con l’innocenza di una sit-com, quasi: eliminando qualsiasi enfasi filosofica i suoi personaggi riescono ad arrivare diritti al cuore di problemi enormi e a portare con molta dolcezza, in questo viaggio, anche gli spettatori”.

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