“Il prezzo” di Arthur Miller arriva nelle Marche
di Alberto Pellegrino
14 Mar 2016 - Commenti teatro
Il 6 e il 10 marzo è andato in scena nel Teatro Pergolesi di Jesi e nel Teatro Marchetti di Camerino Il Prezzo, un dramma di Arthur Miller (1915-2005) scritto nel 1968 e andato in scena nello stesso anno in prima mondiale al “Moresco Theatre”’ di Broadway, per poi arrivare in Italia nel 1969 con l’interpretazione di Raf Vallone. Ora il dramma, dopo un lungo periodo di oblio, ritorna sulla scena nella traduzione di Masolino D’Amico per merito della compagnia Orsini. Si tratta di un testo che, oltre a riflettere in senso autobiografico i difficili rapporti tra il drammaturgo e suo padre, fotografa con una spietata lucidità e un amaro senso di pietà le conseguenze prodotte dalla crisi economica del 1929 a danno di una famiglia formata da un padre e due figli. Questi fratelli s’incontrano dopo sedici dalla morte del genitore per sgomberare il suo appartamento che sta per essere demolito, liberandolo dai mobili e dagli oggetti accumulati dal padre nel corso della sua vita. Bisogna ora trovare un acquirente e questo semplice evento diventa l’occasione per far riemergere tutte le incomprensioni, le menzogne, le paure legate alla figura del padre, un personaggio fisicamente assente ma simbolicamente presente a causa di quella grande poltrona vuota sempre presente sulla scena. Miller affronta con la consueta maestria il tema delle responsabilità individuali e collettive della società americana attraverso lo spaccato di una famiglia borghese dilaniata da profondi contrasti interni e impegnata nel tentativo di recuperare in minimo di dignità umana.
Il capofamiglia, dopo la crisi del 1929, si è chiuso in se stesso, rifiutando qualsiasi tipo di azione, questo comporta che egli accetti senza battere ciglio il sacrificio del figlio Victor (Massimo Popolizio) che, pur essendo uno studente dotato, deve rinunciare agli studi per guadagnarsi da vivere, accettando di fare il poliziotto, condannato a essere scontento e insicuro di sé per tutta la vita, anche a causa del matrimonio con Esther (Alvia Reale), una donna autoritaria e nevrotica affetta dall’alcolismo e dalla depressione. Diverso è stato il destino dell’altro figlio Walter (Elia Schilton) che, pur essendo intellettualmente meno dotato, ha studiato e ha fatto carriera come chirurgo, dimenticandosi del padre e del fratello per diventare ricco e avere successo nella società borghese. I due fratelli si scontrano e mettono finalmente a nudo sentimenti, risentimenti e rivendicazioni sotto il peso delle memorie familiari rappresentate dal cumolo di mobili accatastati in quello squallido appartamento.
A questa resa dei conti assiste un personaggio esterno, un ebreo trafficante di mobili di nome Solomon (Umberto Orsini) che, rialzatosi dopo una serie infinita di disgrazie, rappresenta l’emblema della capacità di sapere lottare contro le avversità senza arrendersi mai. È lui a fissare il prezzo dei vecchi mobili senza che i ricordi familiari possano incidere sulle valutazioni del mercato (“con i mobili usati –dice il vecchio broker– non si può essere sentimentali”) e senza ascoltare le rivendicazioni di Victor, Walter ed Esther, perché quello che conta, compresi i sentimenti, finisce prima o poi per avere un prezzo.
La regia di Popolizio ha voluto sottolineare tutti gli aspetti di questo dramma borghese attraverso un continuo passaggio dalle atmosfere cupe e claustrofobiche del dramma a momenti di comicità tipici della commedia. Il regista ha inoltre puntato sulla recitazione e sulla gestualità, sulla goffaggine e sulla cattiveria dei personaggi affidati ad attori bravissimi, continuamente chiamati a rapide virate di registro, a piccoli colpi di scena, a frequenti riassestamenti e a improvvise rivelazioni. Il tutto sottolineato dal puntuale contrappunto delle luci di Pasquale Mari, dei costumi di Gianluca Sbricca, dalla scena di Maurizio Balò, dominata da quei mobili accatastati in un equilibrio precario e destinate a occupare gran parte dello spazio, per cui s’intuisce subito che non si tratta di semplici oggetti, ma che essi incarnano l’assenza di una figura paterna destinata a restare opprimente.
Dietro le apparenti forme di un teatro di tradizione, vi sono le presenze estremamente vive di personaggi che suscitano alternativamente disprezzo e pietà perché si rivelano individui tragicamente soli, vittime di una solitudine esistenziale che impedisce qualsiasi forma di contatto e di dialogo. È Solomon a mettere in crisi tutta la famiglia con la sua presenza apparentemente casuale: egli è chiamato a stabilire un prezzo a tutta quella mobilia e questo diventa l’elemento dirompente per mettere a nudo l’incompatibilità dei due fratelli, nei quali il legame di sangue conta poco, mentre assume importanza la ricchezza che finisce per togliere significato e valore agli affetti per cui un sistema, che individua nel denaro l’unica fonte di felicità, finisce per incidere in modo determinante sulla psicologia sempre complessa e spesso indefinita degli essere umani, rendendoli spesso imprevedibili, incoerenti e indecifrabili.
Massimo Popolizio ha detto di avere accolto con entusiasmo la possibilità di dirigere questa commedia: “È un’opera molto importante, perché riprende argomenti cari a Miller e ad altri autori americani della seconda metà del Novecento che hanno focalizzato il loro interesse più appassionato sul tema della famiglia e del disagio economico legato a mutamenti storico-economici. In questa commedia tutto ha un prezzo: le scelte, i ricordi, gli errori, le vittorie e le sconfitte. Ma quello che mi ha colpito di più in questo lavoro è stata la consistenza e lo spessore dei quattro personaggi che animano la storia…Tutti riuniti per l’occasione in uno spazio che diventerà il contenitore dei loro ricordi, dei dissensi, degli scontri e delle diverse concezioni di vita, impegnati in un dialogo a volte divertente come una commedia di Woody Allen e a volte tragico come un dramma di O’ Neil”.
Massimo Popolizio è anche bravissimo nel rendere i tic, i dubbi, le insicurezze, gli smarrimenti, la tristezza del suo personaggio che veste i panni dell’antieroe. Alvia Reale sa tratteggiare con efficacia il carattere di Esther, diviso tra ironia e una nevrosi distruttrice. Elia Schilton sa cogliere tutte le sfumature del suo complesso personaggio. Infine, un Umberto Orsini non più giovane ma vivacissimo, è forse la figura caustica ma anche saggia e leale, che più rappresenta gli umori di Miller, grazie anche al fascino particolare conferitole da Orsini con i suoi abiti usurati e la busta di plastica da cui tira fuori cibarie e bevande, per poi festeggiare con quel balletto finale l’ultimo colpo della sua vita e forse il più fortunoso.