"Il malato immaginario" di Gabriele Lavia
di Alberto Pellegrino
11 Ago 2013 - Senza categoria
Teatro: Recensioni
à impossibile resistere al fascino che sprigiona la splendida messa in scena della commedia Il malato immaginario di Molière, della quale Gabriele Lavia ha fatto una graffiante rilettura come regista e come interprete magistrale. Intorno al tema centrale della satira contro lo strapotere, i pregiudizi e le superstizioni della medicina, egli ha collocato anche l'avidità per il denaro, la falsificazione dei sentimenti, la credulità di chi si lascia ingannare e turlupinare per vincere l'angoscia della solitudine ed esorcizzare la paura della morte.
Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile dell'Umbria e dalla Compagnia LaviaAnagni, si svolge all'interno di un enorme e disadorno salone (unici arredi sono un letto e qualche sedia), in una stanza-mondo che diventa il crocevia di una umanità esaltata, avida, impietosa, addolorata e, a suo modo, innamorata, che ruota intorno al protagonista Argante, il quale si reca spesso in un gabinetto che troneggia al centro della scena, appena schermato da un velatino , dove il malato immaginario svolge a vista le sue funzioni corporali stimolate dai numerosi clisteri e purganti propinati giornalmente dai suoi medici e farmacisti di fiducia.
Altro luogo deputato della vicenda è il lettone-rifugio, dove Argante riceve i dottori Purgone, Diarreus padre e figlio, Fetus, sempre accolti con il motto iterativo sempre agli ordini della medicina . à sempre qui che egli da sfogo alle sue geremiadi, denunciando al mondo improbabili malattie, oppure ricevendo le effusioni pseudo – amorose, ma in verità sessuali della giovane e bellissima moglie Belinda, infedele e ipocrita perchè mira unicamente alle ricchezze del coniuge, che stordisce esibendo con generosità il proprio corpo abbigliata come una escort. Un altro personaggio, che si muove per la stanza a passo di danza, è la figlia Angelica, ingenua e disinteressata: con le sue trecce, il tutù di pizzo e la bambola di pezza stretta in una mano sembra uscita da un fumetto di Manara, mentre il suo innamorato Cleante esibisce le movenze, il canto e l'abbigliamento di un divo della canzone. Il massimo della cattiveria visiva Lavia lo riserva per i medici e i farmacisti (tutti interpretati da ottimi attori con una particolare citazione di merito per il Diarreus figlio di Michele Demaria), che si presentano in scena come esseri mostruosi, rivoltanti, dotati di gobbe e ventri preminenti, saltellanti come pinguini su femminili tacchi a spillo, abbigliati in tuba e redingote nere, personaggi che sembrano usciti dalle pagine disegnate da Grosz, Maccari e Longanesi.
Lavia, che sceglie per sè una severa veste da camera, adotta una chiave di lettura divisa tra farsa e vaudeville, ma colloca anche in proscenio un piccolo tavolo con un registratore (una chiara citazione da L'ultimo nastro di Krapp di Beckett) sul quale incide i conti salatissimi di medici e farmacisti, le sue lamentale di malato, le sue imprecazioni contro i familiari e il resto dell'umanità , da cui sono naturalmente esclusi tutti coloro che praticano l'arte medica. A volte dal registratore irrompe nel silenzio della scena e investe un meditabondo Argante una voce che enuncia pensieri sul dolore e la morte, il tempo e la solitudine, tratti da Malone muore di Beckett, riflessioni che il protagonista tende ad esorcizzare e rimuovere rifugiandosi nelle sue amate malattie.
Raggirato e abbandonato dalla giovane moglie, lasciato dalla figlia andata sposa all'uomo che ama, tradito dai suoi stessi medici e farmacisti, Argante è ormai un vecchio disperato e attanagliato dalla solitudine, che ormai vive soltanto in compagnia delle sue malattie. Lavia, dopo tante citazioni satiriche e farsesche, rinuncia al finale pseudo – consolatorio che prevede il conferimento del baccalaureato in medicina ad Argante, in modo che finalmente egli possa diventare il medico di se stesso, dopo aver visto fallire il suo disegno di avere un medico per genero. Al contrario Lavia, con una improvvisa sterzata interpretativa che aveva già introdotto nel suo Avaro, preferisce adottare una conclusione tragica che suoni come una condanna per chi rinuncia ai lumi della ragione per abbracciare le follie delle superstizione.
(Alberto Pellegrino)