Il fotografo Franco Cecchini racconta “La dimensione dell’azzurro”
di Alberto Pellegrino
31 Lug 2020 - Altre Arti, Eventi e..., Arti Visive, Libri
Esposte a Jesi, in onore di Carlo Urbani, le opere della nuova raccolta di fotografie di Franco Cecchini La dimensione dell’azzurro. Un percorso di ricerca visiva.
Il fotografo jesino Franco Cecchini ha pubblicato una nuova raccolta di fotografie intitolata La dimensione dell’azzurro. Un percorso di ricerca visiva (AICU, Jesi, 2020), che sono state esposte nel Palazzo Bisaccioni di Jesi dal 4 al 19 luglio, in una mostra allestita in onore di Carlo Urbani, il medico originario di Castelplanio scomparso nel 2003 a Bangkok mentre svolgeva la sua missione umanitaria. Cecchini ha voluto rendere omaggio a questo eroe italiano, “al suo sguardo sensibile, ai suoi vasti orizzonti, alla sua appassionata avventura”.
L’autore ha dischiarato di aver trovato ispirazione nel verso di Alexandr Blok “L’azzurro non si misura con la mente” e ha voluto raccontare questa “misura” attraverso una sequenza di scatti ordinati in dittici che s’interfacciano, si confrontano e dialogano fino a formare un unico e immaginario racconto. Per Cecchini “l’azzurro non è solo un colore…Ha una dimensione a se stante, ha una sua sostanza”. In ogni fotografia, che supera sempre la realtà fotografata, ognuno può trovare qualcosa di “altro”, un significato diverso: “Il sogno, la libertà, l’avventura, la fantasia, l’evasione. Fino all’indefinito, all’infinito, all’Assoluto”.
Cecchini, in questo come nei suoi precedenti lavori, ci mette di fronte a delle immagini che si pongono al di fuori del loro contesto storico-temporale, perché hanno la legittima ambizione di collocarsi in uno spazio metafisico da costruire secondo un rigore linguistico e cromatico. Si realizza pertanto un percorso semantico e narrativo molto rigoroso che (nonostante un paio di cedimenti) non accetta margini di errore e non sopporta incongruenze stilistiche, seguendo una originalità di linguaggio, dove le uniche fugaci citazioni riguardano certi cromatismi alla Fontana, certi richiami metafisici che ricordano la fotografia di Luigi Ghirri o la pittura di Giorgio De Chirico.
Secondo le più avanzate ricerche critiche nel campo della letteratura e delle arti, anche la fotografia ha assunto un rapporto molto stretto con il “feticcio” che provoca una interessante dialettica tra la memoria del vissuto e la metamorfosi dell’immaginario. La fotografia, ormai liberatasi da ogni piattezza meccanica e da una sudditanza al realismo, ha sviluppato un proprio codice estetico e linguistico che consente di stabilire un complesso rapporto tra immagine fotografica e realtà materiale. Con gli anni, da semplice sostituto di persone e di oggetti, si è trasformata in uno strumento di “manipolazione” capace di fagocitare la realtà per diventare opera d’arte, sfruttando al massimo la presenza di oggetti memoriali e identitari così da divenire una provocatoria commistione tra vita reale e fantasia creatrice.
Oggi molte fotografie sono opere d’arte “in cui s’intrecciano strettamente verbale e visivo, letterario e fotografico, memoria e rielaborazione fantasmatica, dimostrando la vitalità straordinaria di quello strano oggetto-feticcio che è la foto: impronta del vissuto, dettaglio eternizzato, istante cristallizzato ed esposto alla memoria e all’oblio” (Massimo Fusillo, Feticci. Letteratura, cinema, arti visive, Il Mulino, Bologna, 2012, pag. 75).
A nostro avviso, la fotografia di Franco Cecchini è il perfetto esempio di un nuovo rapporto “spazio-tempo” che consente alla memoria storica d’intrecciarsi con le emozioni private, per cui (secondo l’antica Fisica di Aristotele) si registra una sospensione del tempo lineare, scandito dagli orologi e determinante nella vita sociale, per lasciare il posto al singolo istante fermato dall’obbiettivo fotografico. Si sospende la catena temporale, per cui l’autore e l’osservatore si spostano in una dimensione atemporale dominata dalla poetica del silenzio che, attraverso lo sguardo, ha la capacità di penetrare nel mondo alternativo della fantasia e del sogno. In questo modo si sfruttano le possibilità che offre la fotografia artistica di trasfigurare la memoria personale in memoria collettiva in una continua interazione tra racconto e immagine, trovando la propria originalità nel rifiuto di quella “estetica del quotidiano” legata all’espansione massificata del virtuale e del mediatico.
La scrittura fotografica di Cecchini trae la primaria spinta ispiratrice dalle nuove configurazioni delle città moderne, dai loro grovigli di segni spesso discordanti, dal caos di rovine e di rifiuti che convivono con merci seducenti. A tutto questo egli contrappone una narrazione visionaria, una esaltazione del dettaglio, una dissezione della realtà che sfocia nell’astrazione poetica delle forme geometriche, nelle quali il colore non è più una forma di arredo estetizzante, ma un elemento strutturale che esalta il rapporto tra significante e significato.
L’azzurro assume una posizione dominante, solo in qualche caso affiancato da varie tonalità del grigio: è presente con la leggerezza di un Haiku giapponese (“Azzurro varco/tra mondi in perenne/trasformazione”); oppure ha lo splendore appassionato di alcuni versi di Luigi Bartolini: “Azzurro, mite e puro che i cieli dischiudi; /veste degli angeli, letto del mare; la tua nobiltà/sorride anche nelle umili stelle dei fiordalisi”. Queste immagini non sono in partenza un prodotto della fantasia, ma provengono da precise realtà storico-urbanistiche che appartengono alla Puglia, a Siracusa, Ischia, Napoli, Firenze, Milano, Torino e Bolzano; alle più vicine città marchigiane di Jesi, Fabriano, Senigallia, San Benedetto del Tronto; a una lontana realtà internazionale come Praga e Lisbona, il Perù e Cuba. Eppure esse, attraverso la manipolazione delle inquadrature dell’autore, mantengono un loro particolare fascino, non smarriscono mai la loro dimensione metafisica neppure in presenza di figure umane, che assumono una funzione fantasmatica con lo sguardo perduto all’orizzonte o fisso all’estremo confine del mare; oppure sono una silhouette destinata a emergere dal buio del sottosuolo per incamminarsi verso lo spazio assolato e azzurro del cielo. Alla poetica delle geometrie si affianca la poetica delle rovine urbane e industriali, dei reticolati metallici perduti nell’azzurro o sperduti nei deserti sudamericani. Alla fine tutto viene riscattato da quella finestra che esce dalle ombre della stanza per aprirsi sull’azzurro del Mediterraneo, da quella luna che adagia la sua luce sui tetti di Jesi, da quel sole rosso che si staglia nell’azzurro-notte del cielo sopra una spiaggia marchigiana che aspetta il fremito di luce dell’alba.