Il fascino di Joscho Stephan a “Ravenna Jazz”


di Giacomo Liverotti

13 Mag 2024 - Commenti live!

A “Ravenna Jazz” la chitarra “stellare” di Joscho Stephan in Trio live e il suo intramontabile jazz manouche. Come innovare un genere senza tempo.

(@Ravenna Jazz 2024, ph. di Giampaolo Solitro)

Si può davvero creare qualcosa di nuovo in un genere come il jazz manouche dopo circa un secolo dalla sua nascita? Joscho Stephan, vero e proprio maestro della chitarra tedesco, è di questo avviso e non perde occasione per sottolinearlo. Sulla scena dal 1999, parte dallo stile reso famoso da Django Reinhardt, per poi muoversi verso territori molto più vicini a noi, ed attraversare tra una corda e l’altra i cento anni che lo separano dall’ideatore del genere. Con il suo trio, è diventato una “sensation” su YouTube, grazie alla sua tecnica impeccabile, alle collaborazioni illustri e al linguaggio musicale variegato e in grado di parlare ai contemporanei.

In Italia per un’unica data, il 06 Maggio il trio ha raggiunto Lido Adriano in provincia di Ravenna in occasione della rassegna Ravenna Jazz, e ha portato con sé dalla Germania tutto il fascino di questo genere che continua ad appassionare migliaia di persone nel mondo. Il jazz manouche è, infatti, un fenomeno globale che, dopo la scomparsa del suo più importante rappresentante, la leggenda Django Reinhardt, ha vissuto una seconda giovinezza grazie al francese Biréli Lagrène negli anni ’80.  Da quel momento sono proliferati artisti, in ogni parte d’Europa, specializzati in questo stile. In questo contesto si inserisce l’artista tedesco: tenuto a battesimo proprio da Lagrène (forse suo più grande mentore), Stephan ha girato il mondo negli ultimi 25 anni portando ovunque il linguaggio degli zingari degli anni ’30, ma restando tutt’altro che impermeabile agli stili che incontrava nel corso della sua carriera. Ecco allora il linguaggio country e fingerstyle di Tommy Emmanuel (con cui Stephan ha condiviso il palco per diversi tour), il soul di Ray Charles, l’attenzione alla melodia dei Beatles, il funk, il rock, e chi più ne ha più ne metta…

La vera impresa del chitarrista tedesco è quella di riuscire a tenere insieme con tensione sempre viva tutto questo. E il suo concerto è una continua dimostrazione di questa capacità. In quasi due ore di live, il repertorio dà spazio a un percorso che si muove a salti tra classici del pop, come l’apertura con Can’t Buy Me Love dei Beatles, brani più vicini alla tradizione jazz, come composizioni dello stesso Lagrène e del “grande maestro Reinhardt” come Stephan lo definisce dal palco, fino anche a composizioni originali tratte dal nuovo album in uscita nel 2024. Una performance live che non annoia nemmeno per un attimo, perché il trio di due chitarre acustiche e un contrabbasso si diverte e diverte il pubblico con continui rimandi a melodie note (dal Rondò alla turca di Mozart fino a Seven Nation Army dei White Stripes), con assoli dalla tecnica fulminante e soprattutto con attenzione alla tenuta del groove e della musicalità in generale.

Il percorso di Stephan è quello di chi, seppur partito dalla tradizione, è riuscito ad integrare nel suo modo di suonare mondi e linguaggi diversi, e a portare all’interno di questo particolare universo i due musicisti che lo accompagnano: Volker Kamp, contrabbassista estremamente solido nel suo reggere insieme il trio e scandire il tempo come sezione ritmica; e poi Sven Jungbeck, giovane chitarrista che da diversi anni segue Stephan come suo allievo e fedele “la pompe” (questo il nome dell’accompagnamento di chitarra ritmica tipico del genere gypsy). Quando gli altri musicisti danno respiro a Joscho, improvvisando e lanciandosi in degli assoli, la loro capacità solistica purtroppo impallidisce perché il livello del tedesco è davvero stellare. La tecnica con cui si muove tra arpeggi, cromatismi, ritmiche ispirate al funk e virtuosismi di ogni altro tipo, è davvero tra le migliori del panorama chitarristico. La precisione anche nelle idee più complesse e nei passaggi da prodigio dello strumento è unica, ed è proprio quello che i suoi colleghi (Lagrène ed Emmanuel in primis, ma anche Frank Vignola ed altre leggende della chitarra jazz) ammirano all’unanimità.

Tuttavia, l’elemento che tiene davvero insieme il tutto, è la musicalità del chitarrista: si percepiscono ascolti davvero ampi e una capacità di assimilare linguaggi anche distanti dalla propria lingua madre, il jazz manouche, che sono fuori dal comune. Probabilmente è l’elemento che più viene apprezzato da un pubblico che sta premiando Stephan e la sua Gypsy Jazz Academy.com, strutturata con innumerevoli lezioni collegate ai video YouTube che il chitarrista carica con cadenza settimanale sul proprio canale. Esattamente come il repertorio dei suoi concerti, sui social spazia tra brani popolari, standard del jazz, collaborazioni illustri e inediti. Per ciascuno, Stephan spiega nel dettaglio l’idea che ha applicato durante le improvvisazioni e le complesse scelte armoniche che si celano dietro questo stile. Le visualizzazioni si avvicinano al milione, numeri sorprendenti per un genere che resta di nicchia.

La sensazione che si ha nell’ascolto delle sue performance è quasi quella di distruzione di un’aura di sacralità che ricopre spesso il jazz. Negli ultimi anni, sempre più, sembra diffondersi un approccio conservativo al genere, particolarmente evidente per quegli stili che si collocano agli albori di questa musica; Stephan, seppur con grande rispetto, decide di allontanarsi da questa mentalità e tornare a quella che è l’anima più autentica del jazz: divertimento e innovazione. La sua improvvisazione, infatti, ha come unico dogma il piacere in ciò che si suona e la convinzione che la giusta strada non sia nella sola conservazione di un patrimonio, seppur fondamentale, ma nella commistione con nuovi linguaggi.

Il jazz manouche, che agli inizi della sua storia è riuscito a sviluppare un modo di comunicare unico perché poco influenzato dal jazz che si sviluppava oltre oceano (quello di Chicago e New Orleans, quello di Louis Armstrong e Duke Ellington), grazie a questo incredibile chitarrista si apre a tutte queste influenze e si avvicina maggiormente al gusto contemporaneo. Tuttavia, come solo nei migliori casi accade, l’accento del luogo natale non si perde, e Joscho Stephan continua a parlare la lingua del jazz manouche, a guardare con gratitudine a Django (Django Forever, è addirittura il nome del suo tour) e a suonare anche quei classici che rappresentano la storia del genere. La conclusione del concerto con Minor Swing, forse il più celebre brano del leggendario chitarrista gitano, è doverosa: ma lo swing per qualche battuta si trasforma in modo maggiore, come emblema di una performance e di una creatività che riesce ad andare sempre, in qualche modo, oltre.

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