I Fratelli Mancuso ritornano con “Manzamà” un disco dove la poesia si fonde con la grande musica
di Alberto Pellegrino
23 Nov 2020 - Dischi
Dopo un silenzio di alcuni anni i due cantautori siciliani Enzo e Lorenzo Mancuso propongono 14 brani inediti, dove testi di straordinaria intensità poetica si fondono con il tessuto musicale che si nutre dell’apporto di un folto gruppo di musicisti, di un gruppo corale e di prestigiosi arrangiamenti curati dal grande Franco Battiato e da Aldo Giordano, un giovane ma valente pianista palermitano.
Dopo anni di costruttivo silenzio, Enzo e Lorenzo Mancuso ritornano con Manzamà, un disco che contiene 14 brani inediti. Dopo l’esordio con Nesci Maria del 1986, i due cantautori hanno fatto un lungo percorso, tenendo concerti in tutta l’Europa, lezioni-concerto in diverse università; stage sulla tradizione musicale siciliana. Nel 2008 hanno pubblicato per l’Editrice Squilibri di Roma L’isola’ Timida: Forme di vita nella Sicilia che cambia (1970-2005) di Antonino Pennisi, con i loro testi poetici e le loro canzoni. Hanno composto e interpretato le musiche per la Medea di Emma Dante; scritto la colonna sonora per i film Donne di mafia di Giuseppe Ferrari e Via Castellana Bandiera di Emma Dante, vincendo con il secondo film il Premio Sound Track Stars nella Mostra del Cinema di Venezia del 2013 e ottenendo nel 2014 la nomination al Globo d’Oro e al Nastro d’Argento.
Si riprendono ora la scena con questo disco che segna una tappa importante di una ormai raggiunta maturità artistica, perché le loro composizioni divengono sempre più raffinate e contrassegnate da uno stile personale innovativo e qualitativamente alto, che tiene tuttavia conto dei materiali e dei moduli esecutivi del patrimonio popolare siciliano, di tutta la tradizione musicale del Mediterraneo.
Si tratta di un risultato che è stato raggiunto non solo con la loro presenza di polistrumentisti e cantori, ma con la collaborazione di alcuni valenti musicisti come Giovanni Sollima, Marco Betta, Gérman Diaz, Mario Arcari, Peppe Frana, Arnaldo Vacca, Ferruccio Spinetti, Mosé Chiavoni, Andrea Amico, Francesca Bongiovanni, Marco Alessi, Patrizia Capizzi, Massimiliano Dragoni, con l’apporto di due Quartetti d’archi e del Gruppo Vocale “Amoris Laetitia”. Hanno infine aggiunto valore artistico gli arrangiamenti di un grande compositore come Franco Battiato (per i brani Lassami dormiri, Occhi di vitru, Rosa di carta e Un velu d’aria), affiancato da Aldo Giordano, un valido pianista palermitano (per i brani Ti canùsciu ferita, Li suonni, Manzamá e Animi).
Si deve riconoscere poi il meritato risalto al livello letterario raggiunto dai Fratelli Mancuso, perché non siamo più di fronte a dei semplici testi di canzoni ma a delle vere e proprie poesie, le quali acquistano spessore e musicalità attraverso quelle dolcezze e asprezze della lingua siciliana che arrivano direttamente attraverso l’ascolto, ma che si possono cogliere anche con un’attenta lettura, magari con l’ausilio della traduzione italiana posta a fianco di ogni testo.
I versi acquistano un valore poetico assoluto in perfetta simbiosi con le musiche, perché Enzo e Lorenzo Mancuso riescono a passare da una dimensione onirica, intima, esistenziale a una dimensione universale più tragica e solenne, poiché nelle loro parole confluiscono sogni e sentimenti, amori vissuti e volti di persone amate o conosciute, ricordi personali di fame e di sofferenza, disperazione e rabbia per le tragedie del nostro tempo. Le loro “storie in versi” mostrano una straordinaria capacità di affabulazione, riescono a coinvolgerti con un sapiente mix di parole e suoni; sanno trascinarti in mondi apparentemente inconciliabili, dove memorie personali legate alla natia Sicilia si fondono quasi per miracolo con i grandi e dolorosi eventi della Storia. Un valore aggiunto è dato dall’elegante veste grafica del disco e dalla bellissima serie di appassionati e intensi acquarelli di Beppe Stasi, il quale ha saputo legare intimamente le immagini alle canzoni.
L’aspetto particolarmente interessante di tutto questo nuovo disco sta nel fatto che i quattrodici brani si possono dividere in due distinte “narrazioni”, visto che le prime cinque canzoni hanno una intonazione e una profondità più intime. Spesso riflettono stati d’animo così personali che le stesse parole appaiono persino reticenti a svelare sentimenti e ricordi privati, che vengono filtrati attraverso simbologie e metafore molto pregnanti e colorate.
Lassami dòrmiri è una ballata che parla di palpiti e di nuvole, d’illusioni e speranze che fanno fremere la nostra vita, di segreti e malie che si attaccano all’anima come l’edera, parole che volano come rondini per farsi poi cenere, cadute ed estasi che bisogna saper racchiudere nel nostro cuore. Per questo si chiede la consolazione del sonno che ti veglia, ti culla, ti fa dimenticare il dolore (“Lasciami dormire, /non chiedermi, /son io/che vado a raccogliere fiori terribili, /vita mia”).
Manzamà è una delle composizioni di più alto valore, perché rievoca memorie di sofferenza antica, di solitudine in paesi stranieri; richiama ricordi da incidere sulla cera da conservare per un futuro fatto d’incertezza; conserva labili tracce da imprimere sulla mollica di pane per i giorni del digiuno e per gli anni della fame insieme a un grano di sale “per condire/l’insipido mare/che ci tocca navigare”. Con la pece e la stoppa si può riparare l’anima e ritrovare la rotta, salvando le vele perdute nella tempesta; con un ago si può ricucire lo squarcio profondo dal quale potrebbero uscire remoti e penosi ricordi. Se non si avesse il canto per compagno, la vita sarebbe una strada cosparsa di spine da percorrere scalzi. Ritorna infine il tema delle “isole timide”, nelle quali sarebbe bello andare ma esse restano lontane e “non si fanno toccare, / né con ramo fiorito, / né con remi, né con mani”.
Lacrima è una ballata dai contenuti esistenziali, una riflessione profonda sulla solitudine e sulle spine dolorose che segnano il cammino della vita, sui tentativi di non smarrirsi, sui treni che ci spettano fermi sui binari pronti per partire e non più ritornare (“Siamo venuti soli e soli ce ne andiamo, / abbiamo un biglietto aperto con la sorte, il treno solitario/ che viaggia in fondo alla notte”).
Uocchi di vitru nasce da una serie di ricordi personali che, attraverso gli occhi, trovano la strada per uscire dal “pozzo dell’anima”, in cui le memorie sono precipitate come “cieli caduti”; ricordi che diventano una invocazione d’amore (“Mi svegliano certi rumori/occhi di vetro scivolati, /da crateri di facce all’ombra di un sonno, /saltano dalle sponde dei letti inchiodate/cercando a terra chissà cosa”): questi occhi hanno visto le sofferenze dei morti e dei vivi, l’inferno del male, lo squallore di camere d’affitto in terre straniere dove si sono consumate la vita e la morte di fratelli lontani; sono apparizioni che affiorano nel profondo della notte per lanciare misteriosi e indecifrabili segnali, perché “sono tutte cieche le mattine del mondo”.
Li suonni (I sogni): bisogna dire che il “sogno” è una delle parole-chiave nella poetica dei Mancuso che qui vanno alla ricerca del paese dove abitano i sogni, quelli smarriti e, volendo, si possono ritrovare. Sono i sogni legati a un colore di capelli, a una notte di luna e di stelle; sono i sogni innocenti e dorati di un bambino; sono i sogni che arrivano da lontano e che sono sprofondati nell’anima, “dove il sogno si attorciglia/intorno alla trama/che tesse l’essere alla vita sua”.
La seconda parte del disco prende un’altra direzione, abbandona la dimensione intimistica per assurgere a una visione più universale e diventare una “Odissea” mediterranea che vede come protagonisti donne e uomini spesso abbandonati al loro tragico destino dall’indifferenza di molti, dalla responsabilità politica delle istituzioni nazionali e internazionali. E un tema che i due cantautori avevano già affrontato componendo le musiche per Rumore di acque di Marco Martinelli (2010), un testo teatrale incentrato sulle tragedie dell’immigrazione. A fare da spartiacque è stato posto un brano inquietante, dove i due versetti del Vangelo di Matteo “Deus meus, Dues meus/ut quid me derelenquisti” sono ripetuti per quattro minuti in modo quasi ossessivo, accompagnati da una musica che ha la sacralità solenne di un canto liturgico, per cui il drammatico lamento di Gesù sulla croce diventa il gemito di un’umanità condannata a un tragico destino.
I Fratelli Mancuso, che hanno provato sulla loro pelle e sulla loro anima il dramma dell’emigrazione, incarnano la voce di coloro che non hanno voce, di quanti vagano disperati sul mare e Animi diventa un pro memoria e un monito fatto soltanto con l’arido e sconvolgente elenco di nomi e cognomi pronunciati per ricordare che sono persone realmente esistite, per riaffermare che dietro quei nomi vi è un bagaglio di volti abbandonati a se stessi, di sogni non realizzati, d’illusorie speranze, di esistenze cancellate.
Ti canùsciu firita è la prima tappa di questo percorso, dove gli autori fanno ricorso all’amato simbolo della rosa per rappresentare una vita fatta di bellezza ma soprattutto segnata dalla miseria e dalle spine del dolore, quando la fame diventa un catena destinata a imprigionarti in mezzo a una folla indifferente che prima ti “sputa e poi se ne va”. I Mancuso hanno sperimentato sulla loro pelle questo mondo che sembra accoglierti per poi svaporare nel nulla: “Lo conosco questo gelo/che al fondo è vampa/le tante volte che ti bruciò, /quest’arsura di vita/ che avanza e si spegne/ e adagio, adagio ti consumò”.
Tu vidé ti nni va (Anche tu te ne vai) è una invocazione per chi parte per non ritornare più, per chi pensa che sia facile riempirsi le mani d’oro e d’argento; per chi si mette in cammino portando negli occhi il riflesso della propria miseria, senza salutare nessuno e trascina i suoi piedi scalzi, dove sono ancora sanguinanti le piccole ferite della fanciullezza.
Nti la nacuzza ci trasi lu suli (Nella culla entra il sole) è l’unico brano che non è stato scritto dai Mancuso, perché appartiene alla tradizione popolare ed è stato tratto da Suoni e Culture. Il ciclo della vita (Documenti sonori dell’Archivio Etnomusicale Siciliano, 1995). È una bellissima ninna-nanna che la madre canta al suo bimbo nella culla collocata in mezzo agli aranci e agli ulivi, nella culla dove il vento e il sole portano “foglie d’oro e nocciole d’argento”.
Un velu d’aria e La scinnuta (La discesa) sono due brevi composizioni legate dallo stesso tema. La prima parla di un’anima che prende improvvisamente fuoco, che si smarrisce e non sa più dove andare; un’anima che diventa straniera a se stessa e al mondo, senza una stella che la possa guidare nella notte. La seconda è dedicata a quanti scendono una scala senza avere più parenti e amici, con il terrore negli occhi e una maledizione nel cuore, anime smarrite che non sanno volare come angeli e che non vogliono sprofondare tra i dannati. Tra grida di dolore e ferite inferte dagli scogli, molti che discendono quella scala “ora sono giù in fondo, dormono, /il sonno eterno e calmo dei morti”.
Questa “Odissea” mediterranea si chiude con due bellissime canzoni. La prima s’intitola Rosa di carta e parla di coloro che prendono treni fatti di nuvole gravide di pioggia, treni che passano tra “voragini di nero sonno”, creati per trasportare esseri umani incatenati e tormentati dal dolore. Ritorna il simbolo della rosa e delle spine che si vanno a cercare in un giardino sconosciuto, dove nessuno ascolta la tua invocazione d’aiuto anche se la speranza non deve mai morire: “Rosa di carta non farti cenere, /foglia bruciata non farti lapide, /c’è buona terra a scendere/in fondo a ogni lacrima/e la speranza che la radice/un giorno faccia frutto/sotto questi cieli di pioggia nera”.
L’ultima canzone Cori miu parla di navi costrette a navigare, trasportando uomini che hanno ancora il desiderio di folte foreste, il ricordo di mani capaci di stringere la catena di un pozzo pieno di sole e di stelle. Per chi è rimasto senza radici, il cuore e gli occhi sono ormai pietre taglienti come spade da scagliare oltre ogni pena, paura o desiderio: “Pietre di mare esiliate/da madri e padri portate/su spalle schiave/fin qui a sognare”.
Enzo e Lorenzo Mancuso scrivono che nel corso della loro vita, prima di andare lontano, hanno conosciuto la Sicilia dei mestieri, dei contadini, dei migranti; hanno ascoltato la voce degli uomini e delle donne, i canti della strada e delle chiese che sono diventati “il lievito della loro immigrazione musicale”. Questo bagaglio si è poi “arricchito dei rumori delle città, delle fabbriche, delle voci del mondo, dei poeti e dei musicisti che abbiamo conosciuto, portatori tutti e testimoni di uno stupore del mondo che ha reso fecondo il nostro sguardo e la nostra espressione. Grazie a tutto questo sappiamo di cosa è fatto un canto, sappiano che c’entra con la vista di un paesaggio, con il calore di una stretta di mano, con il suono di una parola, con il ricordo dei vivi non più vivi. Sappiamo che il canto è la nostra fratellanza, questa alternanza di respiro e di memoria che tiene viva la brace della voce e nella sua incandescenza si fonde in unico suono, gemito, espressione”.
Il CD Manzamà dei Fratelli Mancuso si può acquistare su AMAZON oppure rivolgendosi alla casa produttrice SQUILIBRI EDITORE, Via Prato della Signora 15, 00199 Roma, Euro 18,00 info@squilibri.it