I CSI SULLA VIA DELLA SETA


di Fernando Romagnoli

11 Ago 2013 - Dischi

Presentazione del disco dei CSI “Tabula rasa elettrificata”

“Dopo quindici anni di palco ci sentivamo svuotati Avevamo poche idee e soprattutto confuse. Da qui il desiderio irresistibile di scaricare l’inutile e il superfluo dalle nostre vite, e di guardarci intorno per cogliere ciò che gira a un altro ritmo. Era arrivato il momento della Mongolia”

Giovanni Lindo Ferretti, carismatico leader dei CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti, musicisti risorti dalle ceneri dei CCCP Fedeli alla Linea; si noti il gioco delle sigle, la più vecchia volutamente presa a prestito da uno stato, l’URSS, e poi estintasi con esso) racconta così la nascita di “Tabula rasa elettrificata”, quarto album del gruppo, diario di un viaggio lungo la via della seta, in un mondo lontano, remoto, misterioso, la Mongolia. Diario, e insieme sogno realizzato di un viaggio fantasticato fin da bambino, sfogliando con emozione e avidità le pagine dell’atlante.

“Immaginavo un cielo enorme su una terra sterminata, dove la natura stabilisce una diversa percezione dell’esistenza”.

Gli occhi sgranati del bambino si sono così colmati di “tinte” inedite, di bagliori, e lo sguardo si è saziato nell’inseguire un orizzonte senza limiti, un confine d’aria e luce:

d’oro giada bordeaux si tinge il mondo
bagliori d’amaranto viola la fine
segue lo sguardo il montare della sera dal fondo delle valli

oscura arresa al buio
la terra penetra il cielo

scioglie il suono del tuono la tensione del cuore
in canto in danza in movimento in mille sfumature molto elegante il gusto della forma del colore
( )
vicini per chilometri vicini per stagioni
sulle tracce dei lupi che fuggono le guerre degli umani
vicini per chilometri vicini per stagioni
traversando frontiere che preparano le guerre di domani
vicini per chilometri vicini per stagioni
c’è modo e luogo di scoprire che il confine
è d’aria e luce
è d’Aria e Luce

(“Vicini”)

Un disco, quindi, che è un viaggio insieme geografico e interiore, un’avventura nello spazio e un percorso a ritroso nel tempo, un ritorno ai miti dell’infanzia, “brace”, “fuoco che arde sotto la cenere” (Ferretti).
Così all’anima fiammeggiante che soffoca, attonita, nel tempo atono e grigio dei giorni spremuti, squarciato il velo della cecità , appare la bellezza.

( )
anima fiammeggiante
soffoca
smaniosa d’aria
non ce la fa
giorni spremuti e notti
attinti a un pozzo
profondo millenni
il somigliare agli altri
non la salva
( )
appare la bellezza mai assillante ne oziosa
languida quando è ora e forte e lieve e austera
l’aria serena e di sostanza sferzante

(“Brace”)

E’ un disco ispiratissimo, di rapinosa forza e fascinazione, intenso, lirico, evocativo; un disco di ardori descrittivi e di incanti narrativi, che disegna persone, paesaggi, idealità , densi di suggestione, di spiritualità , di poesia.
E’ anche, dopo le ultime esperienze del gruppo, un disco rock (“leggero, energetico”, dice ancora Ferretti, che ha firmato i testi e che lo considera anche l’unica loro vera opera rock), con la sua freschezza melodica e le sue sonorità nuove, levitanti e robuste d’aria e luce, ma anche di carne e sangue.

Mai i CSI sono stati forse così affiatati, così in perfetta sintonia, un solo fuoco: “Prima ci accapigliavamo, in sala di registrazione, e succedeva sempre che almeno una canzone o due facessero schifo a qualcuno di noi. Stavolta ci siamo sorpresi di noi stessi, dell’equilibrio, dell’armonia, ciò che ci ha portati diritti a questi 57 minuti di musica”.

Giorgio Canali e Massimo Zamboni alle chitarre, Gianni Maroccolo (ex Litfiba) al basso, Francesco Magnelli alle tastiere (o magnellophoni, come suggerisce divertita la nota nel disco) Gigi Cavalli Cocchi alla batteria.
E poi le voci, straordinarie, di Giovanni Lindo Ferretti e di Ginevra di Marco magistralmente vibranti, perfettamente fuse nel canto (ad esempio in “Bolormaa”, in “Accade”, o nel coro di “Gobi”, ma anche, soprattutto, in concerto), una sola anima fiammeggiante.
Dieci canzoni, sette delle quali costituiscono altrettanti momenti del viaggio; della partenza da Mosca, raccontata, insieme alla loro visione politica, in “Unità di produzione”, a “Bolormaa”, su cui ci soffermeremo più avanti.

che la terra è pesante
non si può sollevare
che la terra è pesante
pesante da portare
è bassa troppo bassa
preme e schiaccia
fucina di potere temporale

fucina di potere temporale
un unico abominio clericale
( )
barbaro umanesimo bolscevico
l’età del bruci il mondo
caschi in terra
l’età del tutto giù
nuova la terra
rosso fiammante
( )

La Mongolia, dicevamo. Una terra che ci viene incontro dalla copertina del disco e dalle immagini, suggestive, che troviamo all’interno, ispirate al documentario “Viaggio in Mongolia” di Marco Preti e Giacomo Baroni.
Volti, simboli, costumi, architetture, cavalli in libertà , su distese dove l’occhio si perde, sotto cieli altissimi e vorticosi.
Un orizzonte di “profondità “, di spiritualità , di libertà :

quanto è alto l’universo
quanto è profondo l’universo
mille i Nomi di Budda
mille
diecimila
e quello che verrà

(“Gobi”)
Una tappa, in questo percorso è Ongi, la “città fantasma”, sede di un antico monastero perduto, simbolo della religiosità di quel popolo, con la sua incessante preghiera “mormorata” al cielo. La canzone ha una coda misicale molto suggestiva.

Raccontami Ongii
che scorri
incessante preghiera che mormora al cielo
del tuo monastero perduto
dimmi la bellezza dei gesti e dei colori che ti hanno traversato e hai riflesso
dei bagliori dell’oro, dei fuochi, dei fumi e dei profumi d’incenso
tra l’eco di conchiglie, trombe, campane, fragore di tamburi, di piatti
lo sgretolarsi tremolante dei gong

cantami coi pellegrini nomadi gioie e bisogni
e delle carovane sfiancate da Occidente, dall’interno dal Nord e dall’Oriente
cantami dei mercanti i richiami
e della folla il brusio e
l’oooohoooohoooohoo
di meraviglia ai prodigi
inondami di vita quotidiana,
d’ovvio, rumore, stupore
( )

“Bolormaa”, uno dei momenti più alti dell’album, un brano ricco di pathos, di intensa spiritualità , è anche il nome di una popstar adolescente, di una contorsionista che esemplifica, nel suo sinuoso movimento, nel suo esercizio teso, concentrato, spasmodico, la peculiarità del pensiero mongolo.
La linea retta, che congiunge nella maniera più semplice i due punti di un ragionamento, è anche il percorso più ovvio e scontato, più banale, come tale da scartare per privilegiare invece una strada più contorta e impervia, dove dubbi, ripensamenti, lacerazioni, costituiscono un’esperienza più ricca, profonda, illuminante.

“Lo show della contorsionista davanti al pubblico dello spettacolo imperiale dura appena 12 minuti, ma sono talmente intensi di sforzo fisico da lasciare sconcertati. Quell’esercizio è la proiezione fisica della fatica mentale” (Ferretti).

Bolormaa (canzone dedicata a Mara Redeghieri, splendida cantante degli à stmamò), che lascia fluire il dolore e si arrende all’amore, insegna la via dell’emozione viscerale e della conoscenza più alta.

Osservo con timore Bolormaa la Contorta
concetto fatto carne nervi viscere legamenti
sinuoso movimento
monito terrorista che la retta è per chi ha fretta
non conosce pendenze smottamenti rimonte

densamente spopolata è la felicità

preziosa
la felicità è senza limite e viene e va

viene

viene poi se ne va

splendida Bolormaa arresa all’amore
fluida contorta molle resistente
lascia fluire il dolore

che la felicità è senza limite
e va e viene

“Tabula rasa elettrificata” è un disco sorprendente, innovativo, di fragrante e rara bellezza, un’altra magnifica prova, dopo il plumbeo, sofferto e lacerante “Linea gotica”, dedicato all’epopea partigiana e alla memoria di Beppe Fenoglio (1) , e manifesto, intanto, di resistenza culturale (“è la linea che ti obbliga a decidere da che parte stare”) in “un paese osceno e meraviglioso” (è ancora Ferretti che parla).
Dopo, soprattutto, il memorabile “Ko de mondo”, uno degli album più significativi e rivoluzionari degli anni ’90 (“replicato”, nella versione unplugged e live, dall’ottimo “In quiete”), dalla poesia cupa e violenta, dai versi minacciosi, epocali, dalle metafore folgoranti:

Parlano piano al sole le ombre
stanche di rumorose rabbie e infinite menzogne
lunghe di sterminati fili in lunga fila
sorde ai tonfi di corpi che vengono abbattuti
tra poco arrossa il cielo della sera
sospeso tra azzurri spazi gelidi e lande desolate
tu quietami i pensieri e le mani
in questa veglia pacificami il cuore
s’alzano sotto cieli spenti
i canti di chi è nato alla terra ora
di volontà focoso e speranze
e da energia costretto e si muove
alla danza danza danza danza
( )

Un disco, “Ko de mondo” (vi insistiamo ancora, tanto è grande, nella musica italiana, la sua impronta e la sua scia luminosa), che faceva pensare, più che alla cultura rock, ai canti anarchici, e ad autori “estremi”, “apocalittici”, come Cèline e Majakovskij:

” Majakovskij, in qualche modo, è stato un santino per noi. Fin da quando dice: sono nato sotto il vento di un valico. Anch’io sono nato sotto il vento di un valico, e allora se uno comincia la propria autobiografia dicendo queste parole, io riscontro che ci troviamo già sulla stessa barca. Perchè se per te diventa essenziale l’essere nato sotto il vento di un valico, allora ( )

si ha il vento nelle orecchie per tutta la vita. E’ come chi nasce con davanti agli occhi il golfo di Sorrento”.

Emerge con forza, nei dischi e nei concerti, la dimensione mistica dei CSI, un mix di religiosità laica, di spiritualità , di temi altri, inediti, rispetto a quelli correnti nella nostra canzone, di rigore e semplicità (di frugalità ), di libertà .
Una dimensione di autenticità , che si fa esperienza catartica e a fotografare bene la quale possono contribuire queste due confessioni di Ferretti, di diverso tenore:

Io possiedo una vena apocalittica al di là della mia volontà . Da questo punto di vista, i miei canali della visione apocalittica si sono riaperti quando ho rifatto i conti con la religione, perchè c’è stato l’incontro, la grossa frequentazione, tutta letteraria, con due personalità che sono state fondamentali in questa storia.
Innanzitutto Simone Weil, con i suoi “Quaderni” e poi tutta la sua vita che è stata per me un’occasione per rifare i conti con la religione e di conseguenza ripensare alle mie scelte politiche. Simone Weil è certamente il personaggio che è stato più importante nel mio pensare e nel mio scrivere. L’altro è Sergio Quinzio”.

“Esistiamo solo quando abbiamo qualcosa da dire e ci troviamo a suonare, se no ognuno prosegue da solo. Nessuno sa cosa faremo in futuro”.

Giovanni Lindo Ferretti è un personaggio fondamentale della musica italiana e di fine secolo, e oltre.
Vive appartato e isolato tra le montagne, sulla cresta dell’Appennino Emiliano, allevando cavalli.
La sua voce senza tempo, dura, affilata, dal timbro grave e intenso, che esalta ogni interpretazione, che si dipana su ritmi ossessivi, cantilenanti, salmodianti, a volte in un assorto e ieratico recitativo, con quella sua tipica declamazione da muezzin, incalzante, ipnotica, evoca dissonanze, disagi, malesseri assortiti, senza redenzione, senza consolazione. La sua stessa presenza scenica, la sua figura di ascetico chansonnier, con quella magrezza allampanata, il volto scavato e sofferto, che suggerisce abissi di interiorità , tutto contribuisce a creare, in concerto, un silenzio attento, abbacinato, e un’atmosfera intensa e quasi sacrale di magnetica teatralità .
Lo ricordo, con il suo gruppo, sul palco di Recanati, ospite del “Premio”. Si era dentro un’atmosfera così densa che si poteva tagliare con il coltello.

Gli ultimi tre brani dell’album (“Accade”, “Matrilineare”, “Mimporta ‘nasega”) corrispondono, a differenza di quasi tutti gli altri, che hanno, abbiamo visto, come teatro la Mongolia, a considerazioni e riflessioni sul viaggio, formulate alla fine.
In “Tabula rasa elettrificata” c’è uno scarto rispetto ai dischi precedenti. L’album gronda vita e vitalità ed è lontanissimo dal senso di morte e di desolazione degli ultimi lavori, peraltro bellissimi.
Traspare anche il desiderio, fortissimo, di buttar giù dalla finestra, come un vecchio arnese inservibile, quel fardello ingombrante di santoni e di predicatori che gli era rimasto appiccicato, accollato addosso, fastidioso e pesante come un macigno.
In questo senso il brano più emblematico, e programmatico, è “Mimporta ‘nasega”, che è stato anche il titolo scanzonato del loro tour:

“Con Tabula rasa”, afferma Lindo, “abbiamo fatta nuovamente piazza pulita del nostro passato e delle nostre contraddizioni ( ) “Mimporta ‘nasega” riassume il senso complessivo del disco: è un invito alla gioiosità , alla tollerenza, alla vitalità , il contrario esatto del menefreghismo. Con il titolo”, aggiunge, “chiariamo il nostro disinteresse per i falsi valori che ci circondano, e il minimo comune denominatore per la possibile ricostruzione. Come a dire, ripartiamo dai bisogni veri, quelli dei bambini, gli stessi della gente di Mongolia “

schizza la mente quando la si tende
si contorce si espande
se risucchiata ruggisce di dolore, di piacere
calore che irradia in onde rotonde

gelo verticale
cunei sparati giù a frantumare

del resto mimporta ‘nasega, sai
ma fatta bene che non si sa mai
( )

Il disco, come i suoi autori, ha viaggiato alla grande, conquistando sorprendentemente i vertici assoluti delle classifiche nazionali. I CSI hanno confessato (quasi inorriditi) di essere stati corteggiati persino dal Festival di Sanremo. Così, dopo questo successo imprevisto e travolgente, il gruppo si è sciolto.

“Fin dall’inizio c’era un patto che era quello di fare poche cose: in realtà sono venuti fuori cinque dischi(2) e un’infinità di concerti. Molto più di quanto potessimo immaginare. E tutto quel successo non ci ha fatto bene: troppa pressione addosso, ci ha allontanato dal nostro habitat naturale e spedito di fronte al pubblico dei palasport, come un jukebox vivente. Era davvero il caso di fermarsi un attimo”.

Avevano provato a sottrarsi a quel ruolo scomodo, oracolare, di guru, ma evidentemente l’operazione non era riuscita appieno.
D’altra parte, la voce potente e sentenziosa di Lindo ci aveva già ammoniti, ce l’aveva già “cantata”, gridandoci addosso:

se tu pensi di fare di me un idolo, lo brucerò
trasformami in megafono mi incepperò

(“A tratti”)

Detto, fatto.
Ma come per l’araba fenice aspettiamo di nuovo, pazienti e fiduciosi, la prossima resurrezione di questo gruppo che sa essere sempre, anche quando, nei temi, si rivolge al passato, una porta spalancata sul futuro.
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(1)
“Nelle pagine di Fenoglio, nel modo in cui racconta la vita quotidiana dei partigiani, la retorica della Resistenza viene triturata” (Massimo Zamboni)
E ancora:
“In Fenoglio c’è di più, nel senso che lui “parla” al di là delle cose che racconta, una lingua incantevole, che non si legge da nessun’altra parte. à stato, ed è tuttora, l’unico scrittore moderno che questo paese abbia avuto. Non c’è modo di liberarsi di Fenoglio, e Fenoglio è duro: anche lui fa della musica pesante, pesantissima, al di là dell’immaginabile, perchè espone il lato faticoso della vita ( ). Uno non legge Fenoglio al cesso e quando ha cinque minuti liberi: ci si deve dedicare, perchè la lettura di Fenoglio è un “tempo sacro”. Vorremmo fosse così anche per la nostra musica”.
(2)
mettendo nel conto anche il live “La terra, la guerra, una questione privata”
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One response

  1. Ilaria ha detto:

    È stato un piacere leggere questo articolo e ritrovarci lo stesso amore che nutro anche io per i C.S.I., grazie.

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