I cento anni de “Il Monello” di Chaplin
di Alberto Pellegrino
28 Gen 2021 - Approfondimenti cinema, Commenti cinema
Col saggio di Pellegrino ricordiamo il film “Il Monello” di Charlie Chaplin che compie cento anni e rimane una pietra miliare del cinema d’autore.
Il Monello, scritto, prodotto, diretto e interpretato da Charlie Chaplin che ne ha curato anche il montaggio e le musiche, compie cento anni poiché è apparso sugli schermi nel gennaio 1921. Questo primo lungometraggio di Chaplin è un capolavoro che ha segnato la storia del cinema, perché realizzato con uno stile che combina le componenti comiche e tragiche e che, all’indomani della prima guerra mondiale, riflette i fermenti di una società ancora segnata dal dramma di migliaia di orfani, proponendo il personaggio di un bambino povero, abbandonato, desideroso di affetto ma anche pieno di vita e di speranza nel futuro.
La lavorazione del film
Le riprese del film iniziano nel luglio 1919 e richiedono dopo diciotto mesi di lavorazione in periodo particolarmente difficile per la vita privata di Chaplin che aveva sposato Mildred Harris, ma quel matrimonio è presto finito con un divorzio dai pesanti riflessi giuridici ed economici, per cui vi è ora il rischio del sequestro della pellicola. Inoltre solo due settimane prima dell’inizio delle riprese, Chaplin è in crisi perché ha perduto il suo primo figlio a soli tre giorni dalla nascita. Per tutti questi motivi il film viene montato in incognito in una stanza dell’Hotel Utah di Salt Lake City e le bobine sono nascoste in alcuni barattoli del caffè. Il materiale girato, che ammonta a cinquanta ore di pellicola, è ridotto a 68 minuti con un difficile lavoro di montaggio e, quando il film (che è costato 250 mila dollari) arriva nelle sale cinematografiche, ottiene il favore degli spettatori tanto da guadagnare 2.500.000 dollari, classificandosi al secondo posto tra le pellicole statunitensi di maggiore incasso.
Gli aspetti ideologici del “Monello”
Questa opera rappresenta l’inizio di una stagione creativa che vedrà nascere dei capolavori come La febbre dell’oro, Luci della città, Tempi moderni, Il grande dittatore, Monsieur Verdoux, Luci della ribalta. Con questa sua creazione Chaplin porta il cinema fuori dal limitato mondo delle “comiche” per farlo diventare un “romanzo visivo”, dove il melodramma (allora imperante sugli schermi) è utilizzato come cornice di una narrazione, nella quale l’autore sa mescolare realtà e fantasia; è capace di usare le chiavi interpretative del grottesco e del surreale; riesce a raffigurare una visione della vita segnata dalle angherie e dalle crudeltà di una società violenta che non può essere sconfitta e nemmeno trasformata attraverso la fuga nel sogno ed è questo pessimismo di fondo a determinare quel sottofondo di malinconia che circola in tutte le opere di Chaplin.
Chaplin compie tuttavia con questo film un atto d’insubordinazione, perché reinventa i moduli narrativi di una giovane arte cinematografica, dimostrando come il linguaggio delle immagini possa mettere insieme il tragico e il comico, il buffonesco e il satirico senza scadere nel melenso e nel patetico. È una piccola rivoluzione guidata dalla figura di un vagabondo con la bombetta, i pantaloni logori e troppo lunghi, le scarpe scalcagnate e un piccolo bastone da passeggio: questo omino carico di umanità e di dignità va incontro alle avversità della vita sempre diviso tra ottimismo e tristezza fino a diventare il simbolo di un’arte che si sta liberando del vaudeville per trovare una propria dimensione estetica. Siamo di fronte a un’opera corale, dove nessuno ha un nome proprio e tutti ricoprono un preciso ruolo all’interno di una società ingiusta e decisa a determinare il percorso delle singole vite, anche se in questo film Chaplin non rinuncia a una dose di ottimismo che giustifica quel finale liberatorio, nel quale si vede trionfare la giustizia secondo un’ottica interclassista in seguito rifiutata dall’autore che avvertirà un’urgenza di rivendicazione e di “protesta” secondo una visione più rigorosa e ideologica nei confronti di una società verso la quale egli non nutre più alcuna speranza di evoluzione verso una maggiore accoglienza e comprensione degli ultimi, verso un riconoscimento del loro diritto alla vita e all’amore.
Le innovazioni linguistiche introdotte dal film
Il Monello contiene delle importanti novità stilistiche, perché supera i limiti della gag per diventare un racconto più lungo e articolato; rappresenta inoltre un’evoluzione del linguaggio con la ridefinizione del tempo attraverso il “taglio” dell’inquadratura e l’accostamento tra un’inquadratura e un’altra: “È il rapido stacco da una scena all’altra – afferma Chaplin – a creare la dinamica del cinema”. Ugualmente innovativo è il montaggio che è un esempio sul come dare forma al senso della narrazione, alternando il ritmo frenetico (proprio delle “comiche”) con ritmi più compassati e riflessivi.
L’introduzione di nuovi stilemi narrativi è evidente fino dall’incipit del film che parte da un’inquadratura totale di un Charity Hospital, con una infermiera che accompagna fuori una giovane donna che ha in braccio un fagotto dove si nasconde il “figlio del peccato”. Quando un’inserviente cerca di difendere questa ragazza madre, la risposta dell’infermiera è solo un ghigno crudele, così in un solo minuto Chaplin pone una linea di demarcazione tra il melodramma e la condanna di una società ingiusta, la quale giudica e non concede appello a quei derelitti che non possono neanche contare sulla solidarietà di classe. Il divo della risata decide di uscire dalla palude della comicità pura e semplice per denunciare lo stigma sociale della donna dannata a causa di un figlio che non “doveva” nascere. La ragazza compie allora il disperato gesto di abbandonare il piccolo in una lussuosa automobile, sperando per lui in un futuro migliore, ma la macchina viene rubata e i ladri gettano il bambino in una discarica.
A questo punto entra in scena il vagabondo Charlot che trova il neonato e decide di prenderlo con sé, calandosi nel ruolo di padre: lo porta nella sua piccola casa fatiscente, lo accudisce con amore e con quei poveri mezzi creati dalla sua fantasia. Cinque anni dopo, il monello è diventato il complice del “padre” che fa il vetraio ambulante: tira sassi alle finestre delle abitazioni per consentire l’arrivo di Charlot munito di vetri di ricambio; una sassata alla finestra di un poliziotto pone fine a questa piccola “attività” economica. Il vagabondo però non abbandona mai quel figlio inviatogli dal destino: lo cura quando è febbricitante; lo libera con uno spettacolare inseguimento dalle grinfie di una zelante funzionario dell’Autorità per l’infanzia abbandonata che, su denuncia del medico, l’ha preso in consegna e chiuso in un furgone. L’ex ragazza madre è intanto diventata una celebre e ricca attrice ed è sempre alla ricerca del suo piccolo, per cui ha promesso una lauta ricompensa a chi glielo riporterà. Così, quando Charlot e il monello si rifugiano in un dormitorio pubblico, il guardiano riconosce il piccolo nella foto fatta pubblicare dalla signora e lo porta in una stazione di polizia, dove la madre lo può finalmente riabbracciare. A questo punto si apre una finestra onirica che costituisce uno degli aspetti più concettuali, fantasiosi e politici della filmografia chapliniana. Dopo aver girato tutta la notte alla ricerca del bambino, Charlot si addormenta sulla soglia di casa e sogna di trovarsi in Paradiso che gli appare come una realtà “ripulita” dal male, dove tutti hanno le ali e indossano tuniche bianche, un mondo dove il dramma, la commedia e perfino una punta di eros sono sapientemente mescolati. Nel sogno Charlot viene accolto dal suo monello che gli procura una tunica e un paio d’ali per fargli provare la bellezza del volo. Il diavolo tentatore riesce però a intrufolarsi, approfittando della distrazione di un angelo custode; prende le sembianze di una provocante “angioletta” che tenta con il suo fascino il nostro vagabondo, ma la fanciulla è fidanzata ad un angelo molto geloso che inizia a picchiare Charlot, il quale scappa in volo. Interviene allora il polizotto di quartiere che, anche nell’aldilà, rappresenta un potere ingiusto e oppressivo. Alcuni colpi di revolver abbattono il vagabondo che è scosso dai fremiti della morte e si accascia a terra con un gran battere d’ali. In una sequenza tra le più commoventi della storia del cinema il monello si getta sul corpo inanimato dell’angelo/Charlot per poi svanire in una dissolvenza che usa il fantastico per scardinare le patetiche ipocrisie borghesi. Un poliziotto vero sveglia Charlot e lo invita a salire sull’automobile che lo porta davanti a una sontuosa abitazione, dalla quale si catapulta fuori per abbracciarlo il suo monello accompagnato dall’ex ragazza madre che è pronta ad accogliere il vagabondo nella sua casa. Il vero sogno è forse costituito da questo improbabile finale che strappa Charlot dalla sua condizione di miseria e di emarginazione per restituirgli la sua dignità e il calore di una famiglia.