Grande successo per “Turandot” allo Sferisterio


di Francesca e Alberto Pellegrino

15 Ago 2024 - Commenti classica

Una straordinaria “Turandot” illumina una grande stagione di Macerata Opera Festival 2024.

(Foto di Luna Simoncini)

Allestire uno spettacolo melodrammatico all’aperto è sempre un’operazione difficile e lo diventa ancora di più sull’immenso palcoscenico dello Sferisterio di Macerata, invece il regista-scenografo Pablo Azorin e il direttore d’orchestra Francesco Ivan Ciampa hanno brillantemente affrontato e risolto il problema, mettendo in scena una delle più belle edizioni di Turandot allestite nello storico teatro all’aperto marchigiano.

È stata una rappresentazione fortemente simbolica e poetica sorretta da una valida direzione d’orchestra, da un’alta professionalità degli interpreti (i soprani Olga Maslova e Ruth Iniesta, il tenore Angelo Villari, i bassi Riccardo Fassi e Antonio Di Matteo, il baritono Ludovico Filippo Ravizza, i tenori Paolo Antognetti e Francesco Pittari), dalla bravura del Coro Bellini e dei Pueri Cantores.

La regia ha privilegiato il mito rispetto alla fiaba come del resto aveva già fatto Puccini che, insieme ai suoi bravissimi librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni, aveva messo in secondo piano gli aspetti fiabeschi della commedia settecentesca di Carlo Gozzi per accentuare gli aspetti drammatici e psicologici della vicenda. Basti pensare che la principessa “che di gel è cinta” non è la crudele e capricciosa creatura della fiaba in cerca di una illuministica libertà, ma una donna che odia il genere maschile per un trauma di sapore freudiano, per cui vuole vendicare le violenze e la morte subite da una sua ava per colpa di un esercito invasore.

La “filosofia” della messa in scena

La messa in scena dello Sferisterio è stata finalizzata alla piena umanizzazione di tutti i personaggi, a dare un senso logico al passaggio di Turandot dalla crudeltà alla passione d’amore. Un’altra valida scelta del direttore artistico Paolo Gavazzeni e della regia è stata quella di far terminare l’opera con la morte e il funerale di Liù come aveva fatto Arturo Toscanini alla prima della Scala del 25 aprile 1926, annunciando che a quel punto si era interrotto lo spartito a causa della morte di Puccini.

Questa decisione, oltre ad essere un doveroso omaggio all’80° anniversario della scomparsa dell’autore, è servita a ridare una giusta luce e rilevanza a Liù una delle straordinarie figure femminili pucciniane, spesso tenuta in ombra rispetto al personaggio della protagonista. Liù è un personaggio di grande spessore umano e musicale, una donna dotata di un’enorme forza morale, che possiede una capacità di amare così intensa e sublime da sacrificare la propria vita e che, pertanto, in grado di cambiare un mondo di odio in un mondo d’amore.

Il progetto registico ha preso la pregevole decisione di rifiutare lo stile monumentale a favore di un’ambientazione e di un climax in grado di mettere in evidenza pensieri, sentimenti e azioni dei personaggi, di dare una motivazione profonda ai loro comportamenti a cominciare da Turandot, che per sottolineare il suo odio verso gli uomini ama circondarsi di una guardia imperiale formata da sole amazzoni-guerriere che di riflesso danno sfogo al sadismo della principessa, accanendosi sul corpo dello sconfitto Principe di Persia (a metà tra un San Sebastiano e un Ecce Homo traslati in una realtà decisamente orientale).

Si tratta di una esaltazione del potere femminile che travalica il potere paterno di un Imperatore troppo debole per opporsi ai voleri della figlia; altrettanto impotente nei confronti del potere di Turandot si rivela l’antica saggezza dei tre ministri Ping, Pang e Pong che cercano invano di dissuadere Calaf dallo sfidare la morte.

La novità di questa Turandot maceratese, non sta solo nell’evidenziare l’intreccio di crudeltà, cattiveria e bisogno d’amore della protagonista che trova in Liù la sua maggiore antagonista, ma nell’aver evidenziato i privilegi della classe sociale aristocratica rispetto al popolo dei contadini sottoposto al massacrante lavoro nelle risaie, tormentato dalla fame e dai soprusi del potere politico, una massa sofferente e schiavizzata, alla quale appartengono ora anche il vecchio Timur e il Principe ignoto (Calaf) spodestati del loro regno e ridotti in miseria, il tutto senza trascurare momenti esaltanti come la celebre romanza del Principe ignoto o di grande poesia come il canto d’amore, la morte e il funerale di Liù.

Scenografia, costumi e progetto luci

La scenografia di Turandot, con la firma dello stesso regista Paco Azorín, è un esempio virtuoso di come realizzare un allestimento eccellente senza dover necessariamente cambiare epoche, stili e luoghi. Dimostrazione che la coerenza tra libretto e ambientazione porta spesso a soluzioni di eleganza, evitando di rincorrere idee forzatamente ed esageratamente originali che, a volte, risultano caotiche nello stile e non armoniche con la narrazione. Il bravissimo Azorín ha scelto di non strafare, di non inventare a tutti i costi, e ha realizzato un qualcosa di memorabile, nel rispetto della tradizione, donando allo Sferisterio un’atmosfera unica e poetica.

Un allestimento che potremmo definire classico, supportato però da proiezioni video, ed efficiente perché funzionale a ogni momento della rappresentazione senza la necessità di lunghe attese per i cambi scenici. L’enorme palco dell’arena diventa la città di Běijīng grazie a un’enorme impalcatura iconica, in legno laccato di rosso, dai classici tratti architettonici orientali, che svolge funzione di ponte, mura di cinta, ‘ambone’, camminamento, e da dove, per la prima volta, la principessa Turandot si svela ai suoi sudditi. A terra vi è un piccolo palchetto centrale animato dai personaggi di corte e spesso protetto dal corpo di guardia imperiale. Pechino è circondata da una distesa di risaie dove i braccianti (il coro) vivono la loro misera quotidianità e assistono impotenti alle dinamiche imperiali. Questa ambientazione, bellissima nella sua logica semplicità, è resa ancor più poetica da un cielo animato che mantiene per tutta la durata della rappresentazione una texture fissa dove però alcuni dettagli diventano in sequenza sfere, soli, fiamme. Un’enorme luna, che appare lentamente avvicinandosi progressivamente al pubblico, ricorda la magia delle sequenze filmiche di 2001: Odissea nello spazio.

Come i video, anche le luci sono progettate da Pedro CHamizo e accompagnano perfettamente la narrazione sottolineando, grazie alla diversa tonalità e intensità, la differenza tra la città imperiale e il fuori agreste. Gli arconi dello Sferisterio rimangono sempre nell’oscurità tranne nel momento di “Nessun Dorma” quando la figura di Calaf proietta la sua ombra nell’arco centrale ‘spezzando’ leggermente l’effetto scenico. All’eleganza, coerentemente mantenuta per tutta la durata della rappresentazione, contribuiscono sicuramente i costumi, realizzati da Ulises Mérida, che sottolineano anch’essi la distanza sociale tra potere e popolo sia per gli stili che per le scale cromatiche utilizzate. I toni sono armonici e discreti per i classici vestiti dei braccianti, ricordano i colori della terra, del cielo, della natura. Molto belli i costumi del corpo di guardia, tutto al femminile, che veste di un meraviglioso rosa tenue. Per i personaggi di corte si sceglie invece l’opulenza di tessuti pregiati, tagli ricercati, decorazioni e colori più accesi. La principessa Turandot appare in un bianco glaciale e poi in rosso vivace indossando anche due meravigliosi copricapo che sembrano sculture. L’imperatore indossa un bellissimo abito in nero e oro. Molto elegante la scelta di adornare, nel momento più istituzionale del loro ruolo, i semplici abiti in stile popolare dei ministri Ping, Pong e Pang di ‘paramenti’ in stile orientale in tonalità leggermente più accese del colore del completo già indossato.

Una lettura innovativa nel pieno rispetto della tradizione

Innovazioni quindi nel pieno rispetto della tradizione senza inutili e cervellotiche elucubrazioni, ma seguendo una linea logica segnata dall’eleganza e da una vena sicuramente poetica. Del resto il regista ha operato attenendosi in pieno allo spartito e al libretto di questa opera, che rappresenta il momento più alto e maturo della creatività musicale e della drammaturgia del compositore. In essa vengono fusi ed esaltati e i quattro elementi che da sempre hanno caratterizzato la poetica pucciniana: l’elemento lirico-sentimentale incarnato nella “dolce” Liù, una delle più toccanti figure dell’universo femminile pucciniano; l’elemento eroico rappresentato dalla coppia Calaf-Turandot; l’elemento comico-grottesco introdotto con la trasformazione delle tre originali maschere della commedia dell’arte in tre personaggi dotati di pensieri e sentimenti umani, in una continua contaminazione tra comico e drammatico che richiama alla mente i fools scespiriani; l’elemento esotico ottenuto sciogliendo la vicenda da qualsiasi riferimento storico-realistico per  collocarlo in una Cina atemporale e astorica, ma tuttavia presente sotto il profilo antropologico e nell’inserimento di temi musicali cinesi all’interno della partitura senza alterarne l’intero linguaggio armonico. Il tutto con un totale distacco (Puccini aveva un formidabile senso della teatralità) dal teatro ottocentesco, dal teatro dannunziano e pirandelliano (allora di moda) a favore di un teatro crepuscolare e del “grottesco” che negli anni Venti ha segnato positivamente la scena teatrale italiana.

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