“Giovanni Testori. Lo scandalo del cuore” a cura di Fabio Francione


di Antonio Garofalo

4 Dic 2017 - Libri

Del lombardo Giovanni Testori, venuto a mancare all’inizio degli anni Novanta, a scuola sarebbe opportuno studiare qualcosa. Analogamente ad altri autori della nostra letteratura, tuttavia, viene sempre a mancare quella doverosa priorità (sempre annunciata, mai realizzata) da darsi al Novecento.
Il critico Fabio Francioni restituisce al lettore, con una pubblicazione di taglio biografico e a frammenti, un’immagine non esclusivamente drammaturgica della versatile personalità di Testori. Questo scrittore, fra l’altro, ha rappresentato un valido esempio di poeta e artista abile nel plasmare il tessuto verbale dei suoi scritti e la materia iconica della propria produzione pittorica.
Nel lontano 1968 afferma all’interno del saggio (dai tratti antipasoliniani) Il ventre del teatro:

Il luogo in cui il teatro è vero teatro, non è quello scenico, ma quello verbale, e risiede in una specifica, buia e fulgida, qualità carnale e motoria della parola. […] Il monologo è la sua forma.

Fra i temi trattati da Giovanni Testori, il preponderante è quello del disfacimento dell’esistenza. Il rapporto con ciò che è spirituale e religioso è sentito dall’autore in modo profondo e probabilmente costituisce, sul piano materiale, un deterrente.
Lo si può constatare, perdendosi nel trasporto con cui Fabio Francioni ce lo presenta, anche in attività diversissime da quella eminentemente teatrale.
La sua passione più “segreta”, quella pittura cui è stata in seguito dedicata una mostra nella sua casa a Novate Milanese dal titolo Absolut Testori, si spinge sino a rappresentazioni a sfondo religioso d’impronta avveniristica o palesemente barocca.
La rappresentazione di ciò che è frutto di vivisezione, come le membra del corpo umano, esalta l’ideale dell’artista, secondo il quale l’opera di un autore deve poter essere sempre sottoposta a verifica da parte di chi la fruisce.
Una scrittura anche drammaturgica profondamente “scossa dalla realtà”, che esaspera e proietta le proprie inquietudini su attori-feticcio come Franco Branciaroli. Per l’attore milanese scriverà infatti vere e proprie “branciatrilogie” di opere.
Dal gioco linguistico e contenutistico degli anni Settanta, ravvisabile in titoli quali Ambleto oppure Macbetto, il richiamo all’attualità si fa più stringente sino ad arrivare, nel decennio successivo, all’emblematica opera In exitu.
Il richiamo alla fine della vita (“all’uscita”, recita in latino evangelico l’ambiguo titolo della pièce) vede protagonista un Branciaroli che schiaffeggia moralmente la “Milano da bere” – siamo nel 1988 – gridando il dolore di un reietto della società, il tossico omosessuale Riboldi Gino, che muore di overdose alla Stazione Centrale del capoluogo lombardo dopo due lunghe ore di agonia. La rappresentazione si svolge fra happening e indignazione collettiva, portando sulla scena la fine nient’affatto epica di un vinto, un anonimo che, proprio in quanto tale, alla fine verrà semplicemente archiviato da uno scrivano. Si tratta dello stesso Testori che prova a dare una risposta alla “affranta, disperata e urlata abiezione della vita” e alla “altrettanto lacera aspirazione spirituale vero l’alto […] alla ricerca di un salvacondotto”.
Il valore quasi cristologico si intreccia dunque nuovamente alla fisicità, alla carne e alla materia viva dell’attore, resa magistralmente immortale in aperta polemica con il perbenismo imperante. Questi, dunque, i due poli tematici che elevano la poetica di Giovanni Testori e rendono ancora oggi il suo lascito artistico un unicum. Un feroce e implacabile drammaturgo dei malesseri di un Paese (proprio il nostro) che deve ancora imparare a guardarsi allo specchio (e perché no, anche sul palcoscenico) in modo lucido.

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